In seguito allo scoppio dell’emergenza Covid-19, lo smartworking è assurto agli onori della cronaca. Questa elevata popolarità ha avviato un dibattito sui media nel quale si sono confrontate opinioni diverse. Tra le quali possiamo citare quelle del giuslavorista Pietro Ichino (“Smartworking? Per dipendenti pubblici spesso è una vacanza”) e del sindaco di Milano, Giuseppe Sala (“È ora di tornare a lavorare”) pubblicate entrambe dal Corriere della Sera[1]. Si tratta di due opinioni che equiparano lo smartworking al Non-lavoro[2]. A questo proposito una precisazione è necessaria: quello che le organizzazioni hanno adottato durante l’emergenza e i lavoratori hanno usato non è smartworking, ma un più modesto home working o lavoro da casa del tutto assimilabile ad un telelavoro forzato. Infatti, lo smartworking per essere tale[3], ossia “Smart”, dovrebbe essere caratterizzato da una flessibilità spazio-temporale (figura 1) basata sulla libertà e sull’autonomia del lavoratore nel decidere quando e dove lavorare. Libertà ed autonomia esercitate in un contesto organizzativo basato sulla fiducia reciproca e su una valutazione degli obiettivi raggiunti. Questi aspetti stanno alla base dello slogan che accompagna lo smartworking: “Lavoro dove voglio (a casa, in ufficio, al parco, ecc.) e quando voglio (la mattina, il pomeriggio, la sera, la notte)”.
Il dibattito recente, quindi, è viziato da questa incomprensione. Inoltre, nel caso dello smartworking passare dalle opinioni ad una conoscenza più strutturata è difficile perché la letteratura organizzativa e manageriale non se n’è ancora occupata in maniera sistematica. Infatti, oltre ad essere una pratica piuttosto recente e ancora poco diffusa, lo smarworking può essere letto come un’innovazione complessa (organizzativa, manageriale e tecnologica) che coinvolge tre livelli di analisi: micro (l’individuo, il singolo lavoratore), meso (l’organizzazione e le sue componenti), macro (la società considerata nel suo complesso) e che può essere studiata da diverse prospettive e sotto vari aspetti:
- La diffusione, l’adozione e l’utilizzo dello smartworking da parte delle organizzazioni (quali sono le determinanti della diffusione, dell’adozione e dell’utilizzo? Quali sono le criticità nella fase di implementazione e di utilizzo?).
- Gli impatti dello smartworking sui lavoratori (in termini di soddisfazione, benessere, carriera, bilanciamento vita privata-lavoro, ecc.), sulle organizzazioni (in termini di cultura e clima organizzativo, organizzazione del lavoro, rapporto tra lavoratori, produttività, ecc.) e sulla società (in termini di impatti sulle città, sulla mobilità, sull’ambiente, ecc.).
- La prospettiva critica, propria dei Critical Management Studies, che vede lo smartworking come uno strumento di sfruttamento dei lavoratori.
Di seguito si cercherà di sintetizzare ciò che sappiamo su questi tre fronti: diffusione/adozione, impatti e visione critica.
La Smartworking tra teoria delle mode manageriali e discorso manageriale
Partiamo dalla diffusione. Per capire la diffusione dello smartworking, possiamo riferirci alle teorie sulla diffusione delle innovazioni organizzative e manageriali. In questo campo, è importante comprendere come sia stata costruita (1) la conoscenza relativa allo smartworking, (2) l’etichetta “smartworking” e (3) il discorso che sussume la conoscenza e in cui è incastonata l’etichetta.
L’origine, lo sviluppo e la diffusione della conoscenza sono stati oggetto di ricerche di diversi autori di varie discipline, alcuni dei quali hanno analizzato i fenomeni di moda, poiché la scienza – come avevano già intuito Simmel e Veblen agli inizi del Novecento – ne è caratterizzata come qualsiasi altra impresa collettiva. A questo proposito, il classico studio di Pitirim A. Sorokin del 1956 fu dirompente per le tesi sostenute sulla diffusione delle mode di stampo quantofrenico nelle scienze sociali.
Passando dalla conoscenza in generale alla conoscenza nel campo dell’economia e del management abbiamo due riferimenti centrali: un articolo del 1966, pubblicato sull’American Economic Review, da Martin Bronfebrenner[4] e l’altro pubblicato quant’anni dopo da Abrahamson sull’Academy of Management Review[5]. Bronfebrenner distingue trend, cicli e mode nella scienza economica: mentre i trend e i cicli riguardano processi di formazione e istituzionalizzazione di idee, le mode sono risposte immediate a problemi che riguardano gli sviluppi di lungo periodo della scienza.
Se Bronfebrenner adotta una prospettiva di analisi «interna» della scienza, Abrahamson, con il suo articolo sulle mode manageriali del 1996 e i successivi contributi[6], propone un modello in cui una determinata innovazione manageriale può essere studiata come una moda manageriale. In particolare, un’innovazione può essere vista come una moda se: (1) tale innovazione sperimenta una rapida crescita della sua popolarità seguita da una rapida decrescita della medesima e (2) tale dinamica è il prodotto di un processo di creazione e diffusione della moda manageriale che coinvolge particolari categorie di fornitori di innovazioni manageriali (in questo caso nella veste di fashion setters, per esempio, le scuole di management e il sistema dei media).
Inoltre, quando si costruisce un’innovazione manageriale, la scelta delle parole, l’uso del linguaggio e la costruzione del discorso sono importanti perché veicolano le idee. La loro qualità, quindi, incide anche sulla qualità delle idee. Questo è vero in ogni campo, incluso quello delle discipline dell’organizzazione e del management. Inoltre, il discorso intorno alle idee non è creato e/o disseminato a caso. Come osservava Foucault[7], che ha inaugurato gli studi sul discorso, nelle società occidentali moderne, la produzione di discorsi cui si è attribuito (almeno per un certo periodo di tempo) un valore di “verità” è legata anche a vari meccanismi di disciplinamento e di controllo messi in campo dalle istituzioni di potere.
La diffusione del discorso sullo Smartworking
Possiamo partire da questi contributi (studi sulle mode manageriali e sul discorso) per comprendere come si sia diffuso lo smartworking prima dello scoppio dell’emergenza Covid-19 sia nel discorso pubblico (media e comunità scientifica) sia nelle organizzazioni come pratica manageriale.
Il primo punto da chiarire riguarda il significato attribuito al termine smartworking.
In Italia, in particolare, il tema è importante perché si è rilevato l’uso di due etichette: smartworking e lavoro agile. Prima di tutto, le organizzazioni definiscono lo smartworking/lavoro agile in opposizione al telelavoro[8]:
“Il lavoro agile e lo smartworking non sono il telelavoro. Questa forte e marcata differenziazione tra lavoro agile/smartworking e telelavoro denota un’esperienza negativa che le organizzazioni hanno avuto con il telelavoro. Diventa, quindi, importante distanziarsi da questa esperienza, sia da un punto di vista semantico, sia da un punto di vista di politiche e di pratiche organizzative”.
Questa differenziazione, però, è più retorica che non reale. Infatti, in un articolo dedicato al telelavoro del 1996 si poteva leggere[9]:
“L’introduzione e la diffusione del telelavoro sono destinate a determinare profondi cambiamenti non soltanto nelle imprese che dovessero decidere di adottare questa modalità di lavoro, ma anche nel contesto più ampio dell’ambiente sociale ed economico in cui le imprese operano. […] A differenza di quanto avveniva in precedenza [i lavoratori] non dovrebbero più porsi alla ricerca di un «posto di lavoro», ma dovrebbero prefiggersi l’obiettivo di «ricercare del lavoro» da svolgere. […] Si dovrebbe verificare un alleggerimento della domanda di trasporti su tratte brevi […] Si dovrebbe ridurre la necessità di spazio per gli uffici delle aziende […] di contro le persone, lavorando a casa, dovrebbero richiedere un aumento delle dimensioni delle unità abitative”.
Le finalità del telelavoro introdotte da questo articolo del 1996 sono del tutto assimilabili a quelle dello smartworking e del lavoro agile a tal punto che alcuni potrebbero obiettare, parafrasando un titolo di un articolo del 2001[10], che lo smartworking non è nient’altro che “old wine in new bottles”. In realtà se le finalità appaiono simili, il regime giuridico che regola i due istituti ha una differenza sostanziale: il telelavoro richiede un contratto di lavoro differente e una sede fissa di lavoro diversa da quella presso la sede della propria azienda[11].
Nella pratica manageriale, i termini smartworking e lavoro agile sono usati a volte come sinonimi a volte con delle differenze[12]:
“Emerge la tendenza a concepire lo smartworking come un concetto ombrello più ampio che può racchiudere al suo interno anche il Lavoro agile. Lo smartworking, quindi, è “qualcosa” di più del Lavoro agile. Il termine “smart” può sussumere l’“agilità”, ma può anche andare oltre e diventare “rigido”. Lo smartworking richiama in maniera più complessa l’interazione tra tecnologia, spazio fisico (la struttura fisica dell’organizzazione) e organizzazione del lavoro (la struttura sociale dell’organizzazione). Il termine “Smart”, che significa intelligente, richiama maggiormente il concetto di “razionalità” dei primi studiosi di organizzazione, dove la razionalità aveva l’obiettivo di “studiare per ridurre gli sprechi, per ridurre le attività inutili”. L’agilità, invece, richiama maggiormente alla mente il concetto di “organizzazione snella”, di movimento, ossia, la capacità di adattarsi alla situazione (un misto di “improvvisazione” organizzata e di bricolage). Il rapporto tra le due etichette è ancora fluido, eterogeno, legato alle esperienze singole. Non c’è, quindi, ancora un processo di istituzionalizzazione chiara ed univoca”.
Il legislatore italiano, invece, ha scelto di usare il termine lavoro agile nella Legge n. 81/2017 che ha istituzionalizzato questa modalità di lavoro[13].
Lo smartworking nel dibattito pubblico (2009-2018): ricerca e risultati[14]
Prima della legge e nell’anno della sua introduzione il dibattito sui media è stato particolarmente vivace. L’analisi condotta sulla stampa (Il Corriere della Sera, La Repubblica, Il Sole 24 ore)[15] mostra che il processo di istituzionalizzazione del tema a livello mediatico è in atto, soprattutto a partire dal 2017. Permane comunque un’incertezza semantica e un accostamento di uno o più termini che designano la pratica anche dopo l’approvazione della legge (per esempio, remote working, telelavoro, smart-working, smart work ecc.).
Nel periodo considerato (2009-2018), la stampa si è sempre mostrata molto favorevole allo smartworking: nel 54% degli articoli analizzati se ne parla positivamente; nel 30% se ne parla molto positivamente: abbiamo rilevato molta retorica e un’esaltazione dello smartworking considerato una pratica di rottura con il passato, portatrice di una nuova mentalità (in certi casi di una nuova epoca, di una rivoluzione, di un cambio di paradigma) e per questo progressista, orientata all’innovazione e al futuro[16].
Negli articoli analizzati si sottolinea soprattutto il beneficio per il lavoratore in termini di bilanciamento tra vita privata e vita lavorativa. Lo smartworking viene presentato come una pratica trasversale alle categorie (tutti i soggetti hanno bisogno di conciliare), sebbene, in alcuni casi, sia stata accostata alle donne (viste ancora come la principale categoria che necessita di bilanciare) e ai giovani (meno disposti a sacrificare la propria vita privata per il lavoro): nella rappresentazione mediatica, adottare questa pratica significa per le aziende lavorare sull’employer branding in modo da attrarre «i talenti migliori». Per l’attenzione al tema del “benessere” del lavoratore, lo smart working è spesso affiancato negli articoli al tema del welfare aziendale.
Altri temi connessi sono la digitalizzazione delle organizzazioni e delle città, la sostenibilità ambientale e l’aumento degli spazi di Coworking. In questi casi, si evidenziano i benefici in termini di vivibilità e di qualità della vita nello spazio urbano.
Essendo una modalità di lavoro che si fonda sulla flessibilità spazio-temporale, essa chiama in causa un nuovo modello di leadership basato sull’orientamento al risultato, sulla fiducia, sull’autonomia e sulla responsabilità del lavoratore; non più invece sulla presenza in ufficio e sul controllo costante dell’operato.
Quando il tema del nuovo modello di leadership si accompagna a quello relativo all’aumento di produttività, lo smartworking viene presentato come uno strumento di “efficientamento” dei processi, di riduzione dei costi e di razionalizzazione degli spazi. Questo accostamento emerge paradossalmente anche in quegli articoli che hanno ad oggetto le trattative e gli accordi sindacali relativi all’introduzione della pratica nelle aziende.
Se i benefici vengono presentati come una fonte di emancipazione del lavoratore dal lavoro, d’altra parte emergono sporadicamente gli aspetti negativi della pratica se portata alle sue estreme conseguenze: l’erosione del tempo libero come tempo per sé, che rischia di essere fagocitato da un’attività lavorativa continua e senza confini (questo è il motivo per cui si ritiene importante parlare di “diritto alla disconnessione”); il potenziale svuotamento dell’esperienza di lavoro che si fonda sullo scambio di idee e sulla socializzazione dei membri di una stessa organizzazione; l’individualizzazione e la “tecnologizzazione” delle relazioni che isolano l’individuo e lo indeboliscono sotto diversi aspetti (occasioni di apprendimento, potere di contrattazione, etc.); la riduzione dell’individuo con la sua identità a mero obiettivo-prestazione-risultato; la disgregazione del collante valoriale e identitario dei membri di un’organizzazione fino al dissolvimento dell’organizzazione stessa.
Tali aspetti rimangono marginali e poco discussi negli articoli: su 1008 articoli analizzati solo nel 2% dei casi sono state rilevate le ombre e i possibili effetti perversi dello Smartworking. Pertanto, emerge l’immagine di una stampa poco critica e poco riflessiva[17].
Lo smartworking nel dibattito accademico: ricerca e risultati[18]
Se sulla stampa il dibattito è stato vivace, non si può dire lo stesso della ricerca accademica. Fino al 2019, l’etichetta smartworking è stata pressoché assente nella pubblicistica scientifica italiana e internazionale. Alcune delle etichette più frequenti che si avvicinano al concetto di flessibilità spazio-temporale che sta alla base dello smartworking sono[19]: flexitime, telecommuting, telework, working from home, mobile work, remote work. Alcune di queste si riferiscono alla flessibilità dei tempidi lavoro, altre, invece, alla flessibilità degli spazi di lavoro.
Lo smartworking dovrebbe in effetti coniugare queste due forme di flessibilità. Gli argomenti più prossimi allo smartworking, da un punto di vista accademico, ricadono sotto le espressioni Flexible Work Practices (FWPs) e Flexible Work Arrangements (FWAs). Le due etichette differiscono perché le practices sono caratterizzate da un maggior livello di formalizzazione e standardizzazione rispetto ai semplici arrangements che sono spesso lasciati alla mera contrattazione/negoziazione tra l’organizzazione e il singolo lavoratore.
I primi articoli in questo ambito risalgono alla metà degli anni Ottanta del secolo scorso. Per esempio, uno dei primi articoli, pubblicato nel 1984, dal titolo “Occupational stress in female managers: a comparative study”[20] s’incentra sullo stress delle lavoratrici, specie se managers, generato dai problemi del bilanciamento/conflitto tra vita privata e lavoro, e propone i Flexible Work Arrangements come possibile soluzione del conflitto.
Un altro articolo[21], del 1992, invece, vede i Flexible Work Arrangements come ingrediente di un’organizzazione del lavoro post-fordista. In linea di massima, quindi gli articoli dedicati a questo tema partono dall’esigenza di individuare modalità organizzative che consentano, da una parte, il bilanciamento vita privata-lavoro; dall’altra lo sviluppo di soluzioni più vicine ai bisogni dell’organizzazione contemporanea, che potremmo definire “post-fordiste”.
Molti degli articoli, però, sono rassegne della letteratura; solo alcuni presentano lavori empirici i cui risultati, tuttavia, sono ancora limitati, parziali e spesso incoerenti gli uni rispetto agli altri. Questo dipende dal fatto che, poiché le politiche/pratiche oggetto di rilevazione sono molto eterogenee (variano da organizzazione a organizzazione), manca il materiale empirico per condurre studi ampi e longitudinali che coinvolgano campioni significativi di lavoratori e di organizzazioni.
Ad oggi quindi la maggior parte degli studi sono analisi di correlazione e questo è un limite nella misura in cui gli antecedenti e le conseguenze variano sistematicamente come funzione delle caratteristiche dei lavoratori. I pochi “esperimenti”[22] i cui risultati sono stati pubblicati sono viziati dal fatto di riguardare singole organizzazioni o specifici contesti socio-culturali[23].
Possiamo citare, però, a titolo di esempio, due articoli rappresentativi di ciò che la flessibilità spazio-temporale del lavoro può comportare a livello individuale e a livello organizzativo. In uno studio pubblicato nel 2012 su Academy of Management Journal [24]si mette in evidenza come la carriera di chi adotta la flessibilità spazio-temporale dipenda da come sia percepita la sua scelta da parte dei manager dell’organizzazione. Se la sua scelta è percepita come un modo per incrementare la produttività individuale, allora l’uso della flessibilità ha un impatto positivo sulla carriera. Se, invece, la sua scelta è percepita come un modo per gestire la propria vita privata, allora, l’utilizzo della flessibilità ha un impatto negativo. Pertanto, questo studio mette in evidenza l’importanza delle percezioni dei manager e il fatto che la flessibilità venga adottata non per consentire un miglioramento del bilanciamento vita privata lavoro, ma per incrementare la produttività, ossia per far lavorare di più le persone.
Un paper teorico pubblicato nel 2015[25], invece, si focalizza su tre potenziali trappole che possono caratterizzare la fase di implementazione della flessibilità spazio-temporale nelle organizzazioni. Queste trappole sono: l’alterazione delle dinamiche vita-lavoro (riduzione dei contatti tra utilizzatori della flessibilità e gli altri lavoratori/portatori di interesse; difficoltà per i responsabili nel valutare le prestazioni, l’intrusione del lavoro nella sfera privata); problemi sul fronte dell’equità e della giustizia tra chi ha accesso alla flessibilità e chi no; incoerenze tra dimensioni diverse dell’organizzazione (per esempio, dichiarare di essere in favore della flessibilità senza modificare le mansioni, i ruoli e le aspettative nei confronti dei lavoratori).
Per riassumere, sul piano strettamente accademico-scientifico lo smartworking non è stato ancora pienamente codificato: è qualcosa di cui si parla nei media, nelle società di consulenza, nelle organizzazioni. Il discorso, però, è ancora un discorso basato su opinioni.
La curva di diffusione, l’adozione e gli impatti
In merito alla curva di diffusione e al tasso di adozione dello smartworking, nel periodo pre-covid ci trovavamo ancora in una fase di crescita/sviluppo con grandi differenze tra imprese ed enti della pubblica amministrazione e, all’interno della categoria delle imprese, tra piccole, medie e grandi imprese. Nel suo complesso, prima dello scoppio dell’emergenza Covid-19, le organizzazioni che avevano adottato lo smartworking[26] erano ancora una minoranza. Queste organizzazioni potevano essere considerate early adopters di una pratica nuova che, come abbiamo scritto, non è ancora stata pienamente codificata. Inoltre, anche tra le organizzazioni che avevano adottato lo smartworking c’erano grandi differenze nelle modalità di implementazione. In particolare, lo smartworking riguardava pochi lavoratori che potevano accedere a questa flessibilità, peraltro con molti vincoli spaziali e temporali, e spesso con l’attivazione di modalità di controllo sull’attività da parte del datore di lavoro.
Focalizzando l’attenzione sul caso italiano, sul fronte della diffusione e dell’adozione dello smartworking, un ruolo importante è stato giocato dal Comune di Milano che ha lanciato nel 2014 la giornata del lavoro agile (diventata “settimana” a partire dal 2017). La giornata del lavoro agile è stata l’occasione per mettere insieme imprese, enti pubblici, università per sperimentare lo smartworking ed avviare una raccolta dati sistematica[27]. Alla prima edizione della giornata avevano aderito 104 organizzazioni (7 enti pubblici e 97 imprese), nel 2018, il dato sale a 408 organizzazioni. Questa iniziativa anche se ha contribuito al processo di legittimazione culturale e normativa, rimane in ogni caso limitata e sperimentale.
Inoltre, alcune aziende hanno deciso di adottare lo smartworking in parallelo alla riprogettazione e razionalizzazione delle proprie strutture fisiche[28], quindi lo smartworking tende a sovrapporsi all’adozione dei cosiddetti uffici diffusi, ossia uffici senza postazione (aperte o chiuse) fisse per i lavoratori. Questa sovrapposizione complica l’attività di ricerca perché è difficile distinguere tra gli aspetti dello smartworking in senso stretto e quelli degli uffici diffusi.
Riassumendo, lo smartworking per essere adottato ed implementato dalle singole organizzazioni richiede cambiamenti a livello di[29]:
- Cultura organizzativa: dalla cultura del controllo alla fiducia (conta il risultato e non il tempo passato nell’organizzazione);
- Organizzazione del lavoro e management: capacità di pianificazione e programmazione delle attività, lavoro per obiettivi e valutazione del risultato;
- Tecnologie: la tecnologia deve sostenere tutte le forme di flessibilità e collaborazione possibile;
- Diritti dei lavoratori: lo smartworking non deve diventare invasivo (diritto alla disconnessione) e deve prevedere nuovi benefit (per esempio, passare dai buoni-pasto ai buoni-affitto o a contribuzioni varie per il mantenimento della propria abitazione e/o della connessione internet). Su questo tema non è stata fatta ancora una riflessione approfondita.
- Impatti individuali: migliore equilibrio tra sfera lavorativa e privata, ma anche rischio di isolamento, mancanza di socializzazione e work-holism;
- Impatti per le organizzazioni: incremento produttività, diminuzione permessi, straordinari, turn over, ma anche indebolimento della cultura e dell’identità organizzativa;
- Impatti sulla società: minore emissione di CO2, migliore viabilità, ma anche indebolimento di alcuni servizi accessori (bar, ristoranti, ecc.).
Conclusioni
Le organizzazioni durante l’emergenza Covid-19 non hanno sperimentato lo smartworking. Lo smartworking, infatti, si basa su di una flessibilità nel tempo e nello spazio impossibile da realizzare durante le limitazioni dei contatti fisici e sociali resesi necessarie dall’emergenza sanitaria. Lo smartworking, inoltre, prima dell’emergenza era una pratica di cui si parlava molto, ma con una bassa diffusione (soprattutto nelle piccole e medie imprese e nella pubblica amministrazione) e poco codificata (ossia, caratterizzata da un’elevata eterogeneità tra le organizzazioni). Inoltre, di questa pratica, da un punto di vista scientifico ed accademico, sappiamo ancora poco: le ricerche sono ancora limitate e i risultati contradditori. Ci troviamo di fronte, quindi, ad una vera e propria moda, in cui gli aspetti legati ai “miti” prevalgono ancora su quelli basati sulla “razionalità” in cui le stesse critiche non vanno al di là dei pregiudizi. Nel futuro, finita l’emergenza, bisognerà continuare nell’attività di ricerca al fine di mettere in evidenza gli aspetti positivi e quelli negativi di tutti gli attori in gioco (lavoratori, organizzazioni, società).
Note:
[1] «Coronavirus, Ichino: “Smart working? Per dipendenti pubblici spesso è vacanza”», Corriere della Sera, 15 giugno 2020; «Sala, “Stop allo smart working torniamo al lavoro”», Corriere della Sera, 19 giugno 2020.
[2] Si veda l’intervista all’ex assessora Chiara Bisconti a commento: “Lavorare da casa o in ufficio? Entrambi, grazie”. Blog “Articolo 3”, Economia & Management Plus (https://emplus.egeaonline.it/it/31/articolo-3/1167/lavorare-da-casa-o-lavorare-in-ufficio-entrambi-grazie).
[3] Report, Osservatorio diversity, inclusion e smart working di SDA Bocconi of Management, 2018-2019.
[4] P.A. Sorokin, Fads and Foibles in Modern Sociology and Related Sciences, Westport (CT), Greenwood Press, 1956.
[5] E. Abrahamson, «Management fashion», Academy of Management Review, 21(1), 1996, pp. 254-285.
[6] E. Abrahamson, C. Fombrun, «Macro-cultures: determinants and consequences», Academy of Management Review, 19(4), 1994, pp. 728-755; E. Abrahamson, G. Fairchild, «Knowledge industries and idea entrepreneurs: new dimensions of innovative products, services, and organizations», in C. Bird Schoonhoven, E. Romanelli (eds.), The entrepreneurship dynamic: origins of entrepreneurship and the evolution of industries, Stanford (CA), Stanford Business Books, 2001, pp. 147-177.
[7] M. Foucault, La volontà di sapere: storia della sessualità 1, Milano, Feltrinelli, 1978 (ed. or. 1976).
[8] S. Cuomo, S. Basaglia, Z. Simonella, «Gli esiti di una indagine qualitativa presso aziende ed enti», In AA.VV., Gli esiti della Giornata del lavoro agile, 2016, p. 80.
[9] P.F. Camussone, «Gli effetti del telelavoro: come la tecnologia cambierà gli assetti delle aziende e dell’ambiente socio-economico», Economia & Management, n. 3, 1996.
[10] Spell, C. S. 2001. Management fashions: Where do they come from, and are they old wine in new bottles? Journal of Management Inquiry, 10: 358–373.
[11] S.Cuomo, A. Mapelli. 2012. “La flessibilità paga”, Egea, p. 26-40
[12] S. Cuomo, S. Basaglia, Z. Simonella, «Gli esiti di una indagine qualitativa presso aziende ed enti», In AA.VV., Gli esiti della Giornata del lavoro agile, 2016, p. 80.
[13] Per questo motivo, in questo articolo i due termini sono utilizzati come sinonimi.
[14] Report, Osservatorio diversity, inclusion e smartworking, 2018-2019.
[15] È stata condotta una content analysis degli articoli pubblicati su: La Repubblica, Il Corriere della Sera e Il Sole24ore. Si tratta dei due principali quotidiani italiani, ai quali è stato aggiunto il quotidiano che tratta temi economico-manageriali e legali. Gli articoli sono stati estratti dal database factiva. Per la ricerca degli articoli sono state usate diverse parole-chiave:«lavoro agile», «smart working», «smart-working», «smartworking», «smart work», «smart-work», «smartwork». Il periodo considerato va dal 2009 – anno in cui è stato individuato il primo articolo in cui compariva una delle parole-chiave – al 2018. È stato escluso il 2019 in quanto anno in corso al momento dell’analisi. Sono stati analizzati 1008 articoli. Durante la ricerca sono stati eliminati gli articoli «doppi», articoli molto brevi a carattere pubblicitario e altri contributi che non sono stati ritenuti rilevanti ai fini dell’analisi.
[16] Le altre parole accostate erano: miracolo, evoluzione, Nuova frontiera, terzo millennio (ufficio, organizzazione), giovani, talenti, nuovi modelli, modernità, tecnologia, sfida, Sharing Economy, sostenibilità, un nuovo umanesimo, un mezzo di accelerazione del cambiamento, leggerezza, meritocrazia inclusiva.
[17] Emergono alcune differenze tra quotidiani: Il Sole24ore dà più spazio ad articoli tecnici di commento alla legislazione. Il Corriere della Sera è quello più allineato alla cultura e ai valori delle aziende, ma è anche quello in cui troviamo articoli che discutono gli aspetti più critici dello smartworking. La Repubblica ha toni più cauti, ma è sostanzialmente allineata all’idea che una sua introduzione possa portare un beneficio al dipendente. Come Il Sole24ore e il Corriere della Sera, il quotidiano La Repubblica mette in evidenza i temi della conciliazione, della tecnologia, e dei benefici in termini di produttività, ma dà più spazio ai temi della sostenibilità ambientale e ad articoli di analisi socio-economica.
[18] Report, Osservatorio diversity, inclusion e smartworking, 2018-2019.
[19] Banca dati Business Source Premiere.
[20] Davidson MJ, Cooper CL. Occupational Stress in Female Managers: A Comparative Study. Journal of Management Studies, 1984;21(2):185-205.
[21] Boreham P. The Myth of Post-Fordist Management: Work Organization and Employee Discretion in Seven Countries. Employee Relations. 1992;14(2):13-24.
[22] Le virgolette sono d’obbligo, perché gli scienziati sociali s’illudono (e hanno la pretesa scientista/positivista) di condurre esperimenti come nelle scienze naturali per acquisire maggiore credito scientifico. Tuttavia, molto spesso tali “esperimenti” non rispettano neanche lontanamente i requisiti dell’esperimento scientifico secondo il modello classico ideato da Galileo. Per un approfondimento si veda: Rago, M. (2018) Gli esperimenti nelle scienze sociali. Milano, Franco Angeli.
[23] Sherman, E. L. (2020). Discretionary Remote Working Helps Mothers Without Harming Non-mothers: Evidence from a Field Experiment. Management Science, 66(3), 1351-1374.
[24] LESLIE LM, TAE-YOUN PARK, SI ANH MEHNG, FLAHERTY MANCHESTER C. Flexible Work Practices: A Source of Career Premiums or Penalties? Academy of Management Journal. 2012;55(6).
[25] Kossek EE, Thompson RJ, Lautsch BA. Balanced Workplace Flexibility: AVOIDING THE TRAPS. California Management Review. 2015;57(4):5-25.
[26] Si vedano i rapporti di ricerca de: Osservatorio diversity, inclusion e smartworking di SDA Boccono School of Management; Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano.
[27] Si vedano i rapporti delle differenti giornate/settimane messi a disposizione dal Comune di Milano: https://www.comune.milano.it/aree-tematiche/lavoro-e-formazione/lavoro/lavoro-agile.
[28] https://www.manageritalia.it/files/17667/dir-11-2015-intervista-cuomo.pdf.
[29] Report, Osservatorio diversity, inclusion and smartworking di SDA Bocconi of Management, 2018-2019.
[30] Report, Osservatorio diversity, inclusion and smartworking di SDA Bocconi of Management, 2018-2019.
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