Si aggrava la posizione giudiziaria di Andrea Dini, amministratore delegato della Dama spa e cognato del Presidente della Lombardia Attilio Fontana, in relazione alla fornitura di camici, calzari e cuffie sanitarie alla regione stessa.
Dini ha sempre sostenuto che la fornitura alla Regione era da intendersi come una donazione e che la sua fatturazione era stata un errore di un dipendente, avvenuto in sua assenza.
Le cose non sembrano essere andate proprio così, a leggere il testo di un’offerta, su regolare carta intestata, inviata dalla Dama spa nei giorni precedenti la Pasqua a Filippo Bongiovanni direttore di Aria, agenzia regionale per gli acquisti, anch’egli indagato per la stessa vicenda.
Tale offerta, in cui si dettagliano i prezzi per ogni singolo articolo proposto, porta la firma in calce dell’amministratore delegato Andrea Dini. La lettera d’offerta, inviata per email, è stata pubblicata dal Fatto quotidiano. L’ offerta fu accettata dalla Regione il 16 aprile per un montante totale di 513.000 euro.
È evidente che la pubblicazione della lettera d’offerta è un duro colpo alla linea difensiva di Andrea Dini che troverà ora assai difficile sostenere che la fornitura era, nelle sue intenzioni, una donazione, visto che egli stesso ha firmato una proposta d’acquisto specificando prezzi e termini di consegna.
La Magistratura vuole anche appurare perché, dopo che il contratto divenne donazione, 25.000 camici promessi non furono mai consegnanti e perché Aria non abbia denunciato la Dama per inadempienza contrattuale.
Infine, il consigliere regionale Marco Fumagalli pone anche un problema di congruità del prezzo, poiché in regione risulta un ordine di Aria ad Amazon per 44.000 camici pagati 1,6 euro ciascuno, mentre quelli prodotti dalla Dama costavano 6 euro, cioè quattro volte tanto.
In questo contesto di sospetti di turbative d’asta, corruzione e insipienza organizzativa, è stato presentato il rapporto della Commissione Regionale d’Inchiesta sulle oltre 400 morti avvenute nel Pio Albergo Trivulzio di Milano.
Un rapporto che appare come una difesa d’ufficio dell’operato della regione e che stupisce per la sua totale non volontà di correlare cause ed effetti di una tale strage, citando responsabilità che sono sotto gli occhi di tutti.
Infatti, il rapporto individua come prima causa di quanto accaduto al Pio Albergo Trivulzio il personale, che sarebbe stato particolarmente “assenteista” durante l’emergenza Covid. Un tentativo vile quanto maldestro di individuare facili “responsabili” da additare all’opinione pubblica, colpendo lavoratori che sono stati mandati per mesi allo sbaraglio, senza alcun dispositivo di protezione – la cui insufficienza è citata anche nel rapporto, pure se in modo troppo poco evidente – e a volte persino invitati a non usarli.
Molti di questi lavoratori e lavoratrici, in particolare quelli delle cooperative, particolarmente sfruttati, sono stati costretti, in alcuni casi, a presentarsi al lavoro anche in presenza di sintomi e talora di positività, dovendo prestare la loro opera nelle sale di degenza.
Una situazione complicata dalla mancanza di controlli e di tamponi, che – è ormai noto – in Lombardia non si riesce a ottenere, se non nelle ultime settimane, in strutture private a pagamento.
C’è da chiedersi dunque su quali dati si sia basata la Commissione d’inchiesta, se non è possibile stabilire quanti lavoratori si siano realmente ammalati di Covid, anche se purtroppo la quantità di decessi del personale sanitario è una tragica testimonianza.
Ma la commissione regionale ha la sua “risposta” anche a questo problema, poiché si addossa alla Protezione civile il fatto che il materiale per i tamponi non ci fosse, quando ricordiamo tutti che l’assessore Gallera aveva dichiarato che la regione “aveva scelto un’altra strategia” rispetto a quella dei controlli massicci con i tamponi. Una frase che serviva a coprire il fatto che la Regione non aveva fatto scorte adeguate e che, in un secondo momento, era stata sovrastata dalla concorrenza dei privati in un sistema che essa stessa ha contribuito a mettere in piedi.
In pratica, i lavoratori si ammalavano, con sintomi anche rilevanti, ma non avevano alcuna possibilità di una diagnosi certa e vivevano dunque nell’incertezza e nella paura. Questa situazione è stata vissuta al Trivulzio, ma anche al Golgi-Redaelli, altra azienda pubblica di servizi alla Persona di Milano, mentre in quelle private la situazione è stata anche peggiore.
La Commissione, infine, dà anche qualche indicazione per dei cambiamenti nel servizio, quale, per esempio, la riduzione dei posti letto, l’aumento delle camere singole e l’aumento dell’organico sanitario e dell’assistenza di 901 minuti settimanali a paziente. Richieste che i sindacati – recita un comunicato dell’USB sanità – formulano da anni senza essere ascoltati.
Veramente una brutta conclusione del lavoro di una Commissione che si dimostra troppo “amica” e connivente con la Regione che è stata la peggiore nella gestione dell’emergenza Covid.
Ciò arrivando anche a spunti di vero e proprio cinismo, come quando il presidente della stessa, Vittorio De Micheli, che è anche Direttore sanitario dell’ATS di Milano, ha dichiarato, nella conferenza stampa di presentazione del rapporto, “che una parte dei decessi [al Pio Albergo Trivulzio] sarebbe avvenuta nelle settimane successive” e che la pandemia ha solo accelerato il destino di molti anziani.
Affermazione “alla Bolsonaro”, evidentemente non verificabile, ma è certo che almeno una parte di quegli anziani oggi sarebbe ancora viva se non avesse contratto il Covid al Trivulzio (e comunque un direttore di Ats non può – per dovere istituzionale, oltre che per “banali” ragioni etiche – considerare “accettabile” che qualcuno sia morto prima del tempo, crediamo!).
Purtroppo, le inchieste addomesticate messe in piedi dalla regione Lombardia si moltiplicheranno. Ne fa testo anche quanto sta succedendo per la Commissione d’Inchiesta del Consiglio Regionale. Per regolamento, la presidenza della stessa deve spettare all’opposizione ma, dopo le dimissioni di Patrizia Baffi, di Italia Viva, eletta a sorpresa con i voti della maggioranza, un nuovo presidente non si riesce a eleggere.
Questo per l’opposizione della maggioranza, che non vuole un presidente del PD “perché chiederebbe le dimissioni di Gallera” e ora nemmeno del Movimento 5 Stelle.
Non abbiamo, com’è risaputo, alcuna simpatia per questi ultimi due partiti, ma è matematico che essi rappresentano la stragrande maggioranza dell’opposizione in Consiglio regionale. Insomma, la giunta vuole un presidente “amico” in spregio anche al regolamento.
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