Gli Stati Uniti chiamano, l’Italietta risponde, di nuovo, come spesso è accaduto nella storia della Repubblica.
La notizia di oggi è che Telecom Italia, riunificata sotto il marchio TIM operante in Italia e in Brasile, ha escluso il colosso cinese Huawei dalla partecipazione alla gara per la fornitura di apparecchiature 5G per la sua rete che si appresta a costruire nei due paesi.
Come riporta stamane La Stampa, «l’elenco dei fornitori invitati comprende Cisco, Ericsson, Nokia, Mavenir e Affirmed Networks, società recentemente acquisita da Microsoft».
Una notizia non da poco, considerando che sulla fornitura delle apparecchiature per la rete 5G è in corso uno scontro geopolitico decisivo tra Stati Uniti e Cina per i nuovi assetti globali, di cui l’egemonia tecnologica è il fattore su cui la Cina, da anni ormai non sol più “fabbrica del mondo”, gioca la sua partita (sul campo militare per esempio, le distanze sono invece ancora abissali).
Il caso venne alla ribalta pubblica il primo dicembre del 2018 quando Meng Wanzhou, direttrice finanziaria del gigante cinese e figlia del fondatore della società, Ren Zhengfei, venne stata arrestata in Canada su richiesta esplicita degli Stati Uniti.
Da allora la campagna anti-cinese si è fatta più serrata, ma se la “guerra commerciale” scaturita a colpi di dazi si gioca sul tentativo made in Usa di riequilibrare la bilancia commerciale e contemporaneamente reinternalizzare alcuni settori di manodopera da anni portati all’estero secondo la reaganiana dottrina della “New Economy”, quella per l’egemonia tecnologica passa in gran parte proprio dalle tecnologie di telecomunicazione.
Fissate dall’Unione Internazionale delle Telecomunicazioni, settore Radiocomunicazioni (ITU-R), agenzia specializzata delle Nazioni Unite con sede a Ginevra, le caratteristiche della prossima tecnologia come l’alta velocità e la bassa latenza permettono di disegnare nuovi scenari d’utilizzo.
Per esempio, radiocontrollo di veicoli passeggeri, copertura garantita per aree rurali, interventi in aree colpite da disastri naturali, città senzienti, ma soprattutto l’applicazione industriale dell’Internet of Things (IoT) – colloquio tra macchine senza intervento dell’essere umano – che se esteso alla realtà oltre-lavorativa permette di raccogliere una quantità fin’ora impensabile di dati, garantendo conoscenza di ulteriori campi di comportamento umano e profitti (oltre che controllo) sulle possibili previsioni.
In questo scontro tra titani, il ruolo di competitor dell’Unione europea sconta anni di nanismo politico, tradotto in disinvestimento tecnologico e deflazione salariale, certificato dalla Brexit e dall’immediato allineamento atlantico proprio sul 5G in funzione anti-Cina da parte del Regno Unito dopo il trionfo dell’attuale premier Boris Johnson.
Che anche l’Italia poggi un peso su questo versante della bilancia non è un passaggio neutrale, con sicure ripercussioni non solo sull’asse sino-americano, ma anche sulle dinamiche “europee” e del Mediterraneo tutto.
Su questo, alcune notizie recenti aiutano ad ampliare il quadro e il portato che simili scelte portano con se.
Due mesi fa infatti Microsoft ha presentato “Ambizione Italia #DigitalRestart”, un ambizioso piano quinquennale di investimenti dell’ammontare di 1,5 miliardi di dollari per supportare l’innovazione e la trasformazione digitale nel paese, di cui la migrazione di tutto l'infrastruttura di posta della scuola pubblica su piattaforma Office 365 è il primo esempio di “gentile concessione” di Big Data al colosso statunitense.
Ma anche Google si sta muovendo nella stessa direzione, con un piano di oltre 900 milioni di dollari sempre in 5 anni, che includono «l’apertura delle due Google Cloud Region in partnership con Tim», come dichiarato ieri da Sundar Pichai, Ceo di Google.
Un’ultima nota. Si potrebbe almeno pensare che la scelta di escludere Huawei dalla gara sia frutto di una più o meno accurata presa di posizione del governo italiano rispetto alle dinamiche politiche internazionali, e che faccia parte dunque di una strategia di più ampio respiro almeno nel medio termine. Nulla di trascendentale, semplicemente una manovra filo-atlantista da “Prima repubblica” tutta da controbattere, ma almeno “coerente” nel suo disegno generale.
Ma quel tempo è finito trent’anni orsono (e purtroppo per i nostalgici non tornerà), in mezzo c’è stata la più grande ondata di privatizzazioni che abbiano mai colpito un’“economia matura” e che lo ha fatto in tutti i settori strategici del paese, di più che in tutto il Vecchio continente (per esempio, chi conosce il nome di una banca italiana ancora pubblica, si faccia avanti).
Tim infatti è una società per azioni – Spa, che risponde cioè al mercato, non ai bisogni della popolazione – dal 1994, con un fatturato nel 2019 di 18 miliardi di euro e nello stesso anno un utile netto di 1,2 miliardi, che ha staccato la cedola (pagato agli azionisti il loro guadagno indipendentemente dal lavoro dei più di 50mila dipendenti) solo 20 giorni fa, alla faccia del lockdown, e il cui azionista di maggioranza è la francese Vivendi, quella implicata nell’affaire Mediaset finito al Tar perché contrario ai tetti di controllo nel settore media e, sì, telecomunicazioni.
Siamo sicuri di voler continuare a lasciare in mano a pochi privati il futuro del paese?
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