di Michele Giorgio – il Manifesto
La Banque du Liban, la Banca centrale libanese (Bcl),
farà ciò che è necessario per far avanzare i colloqui in stallo tra il
Fondo monetario internazionale e il governo in via di formazione.
Assicura inoltre che non metterà fine al tasso di cambio doppio che
frena, in parte, l’impennata dei prezzi dei beni essenziali.
Usando il tono del buon padre di famiglia, Riad Salameh, governatore da 27 anni della Bcl,
qualche giorno fa, in una intervista, è apparso insolitamente
comunicativo e disposto a contribuire alle ricette che dovranno essere
adottate per rimettere in piedi un paese sommerso dal debito pubblico
(175% del Pil) e dal debito estero. Salameh si è detto anche pronto ad
aprire i libri della Bcl e ad appoggiare una verifica accurata dei conti
delle banche private che da sempre protegge come fossero sue figlie.
È impressionante la considerazione di cui lo zar della Bcl
ancora gode a Beirut e all’estero, nonostante il disastro finanziario
del paese dei cedri e il tonfo della lira libanese. Una
benevolenza non accordata ad altri protagonisti della crisi. Nella
visita del 6 agosto a Beirut, dopo l’esplosione al porto della capitale,
Emmanuel Macron – stando alle rivelazioni sulle intenzioni del
presidente francese fatte da Le Figaro e costate una sonora
strigliata pubblica all’inviato del giornale, George Malbrunot – avrebbe
esortato Mohammad Raad, alto dirigente di Hezbollah e volto politico
del movimento sciita, a dimostrare di «essere libanese» e di contribuire
con decisioni coraggiose a salvare il paese.
Macron, sempre secondo Malbrunot, nella sua veste di santo patrono
del Libano, potrebbe sanzionare i dirigenti libanesi che non faranno la
loro parte. Anche Salameh? Difficile crederlo. D’altronde le manifestazioni popolari in corso dallo scorso ottobre – contro la classe politica, il malgoverno e la corruzione – se da un lato hanno preso di mira anche le banche dall’altro hanno solo sfiorato il governatore della Bcl.
Anzi qualcuno ha persino applaudito quando Salameh, presentando stime
delle perdite ampiamente diverse da quelle del governo, ha silurato il
piano presentato dal premier dimissionario Hassan Diab – approvato
dall’Fmi – per ottenere un finanziamento vitale di 10 miliardi di
dollari.
Nei mesi scorsi Salameh ha ridimensionato, e non di poco, le perdite accumulate sia dalla Bcl che dalle banche private.
«Dallo scoppio della crisi, il governatore ha raramente parlato ai
libanesi – ci dice Hicham Safieddine, docente al King’s College di
Londra e autore di Banking the State sul ruolo avuto dalla Bcl
nella storia del Libano e nel disastro economico e finanziario di questi
ultimi anni – Salameh non ha preso misure decisive e non ha ordinato
controlli sui capitali o sostenuto verifiche della condizione e delle
scelte delle banche private (detengono il 50% del debito pubblico, ndr)
che pure stanno giocando un ruolo negativo nella crisi». La
gestione di Salameh ha oscurato l’immagine positiva che la Banca
centrale si era guadagnata negli anni della guerra civile (1975-90)
rimanendo resiliente di fronte al conflitto e relativamente immune alla
manipolazione settaria.
Hezbollah è preso di mira da una parte dei libanesi. In questi anni di fatto ha partecipato al malgoverno rimanendo in silenzio di fronte alla corruzione dei suoi partner nell’esecutivo. Ma
non è responsabile del dissesto finanziario del paese che affonda le
sue radici nelle politiche svolte dal premier sunnita Rafik Hariri,
assassinato a Beirut nel 2005.
Divenuto premier al termine della guerra civile, Hariri ha
abbracciato senza riserve le politiche neoliberiste e ha abbinato alle
privatizzazioni la costruzione massiccia di immobili nel centro di
Beirut. Le sue politiche hanno prosciugato le casse pubbliche e
arricchito i privati oltre ad innescare gentrificazione e
rentierizzazione, un’impennata dei prezzi degli immobili e un
aggravamento delle disuguaglianze sociali.
E i suoi progetti edilizi e infrastrutturali sono stati
fondati in gran parte sul debito pubblico e non sulla tassazione della
fascia più ricca della popolazione. Perciò dopo anni hanno trasformato
il Libano in debitore cronico. E le banche libanesi sono state
in grado di garantirsi un livello elevato di profitti grazie anche
all’ingegneria finanziaria della Bcl sotto Riad Salameh.
Hariri reclutò nel 1993 il 42enne Riad Salameh che, divenuto
governatore, fece della Banca centrale un pilastro a sostegno delle
politiche del premier. «Il neoliberismo di Hariri – afferma
Safieddine – le leggi fiscali e le privatizzazioni, sono tra le cause
della catastrofe finanziaria attuale».
Tuttavia, aggiunge, «anche i signori del conflitto settario e
l’oligarchia bancaria sono parte del problema. Hanno beneficiato delle
scelte di Hariri, facendo poi ben poco per annullare la sua pesante
eredità».
Salameh intanto va avanti, certo che continuerà a regnare indisturbato.
Da qualche giorno afferma che le banche dovranno ristrutturare e
ricapitalizzare e se non si conformeranno alle sue decisioni saranno
rilevate dalla banca centrale. Pochi però credono che userà il bastone e
non la carota, come ha fatto sino ad oggi, con i banchieri che lo
adorano: il governatore è un simbolo del laissez-faire.
E il presunto esecutivo del risanamento in via di formazione si
adeguerà presto, negando la giustizia sociale, un sistema fiscale
progressivo, l’assistenza sanitaria pubblica e gratuita e l’istruzione
accessibile a tutti che sognano i libanesi.
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