12/12/2020
Nessun vaccino potrà salvarci se...
Non ho nulla contro i vaccini e non ho nessuna simpatia per i no-vax che considero una tribù di matti alla stregua dei terrapiattisti. E tuttavia non possiamo nemmeno ignorare i giganteschi interessi che si stanno addensando attorno alla commercializzazione di un vaccino capace di arrestare, o, perlomeno, frenare la pandemia da Covid-19.
Quando, si spera, avremmo sconfitto il coronavirus, per mezzo di una gigantesca campagna di vaccinazione, comunque non avremmo risolto il problema che lo ha prodotto perché se il vaccino agisce sugli effetti, non rimuove certo le cause che hanno fatto da humus per un virus cosi nuovo e così potentemente contagioso come il Covid-19; così come per altri virus, sicuramente molto meno contagiosi ma molto più letali.
Se continuiamo a non vedere che c’è un legame strettissimo che tiene insieme il diffondersi nel pianeta di epidemie virali con gli effetti provocati dai cambiamenti climatici e eco ambientali determinati dall’uomo, non ne verremo mai a capo.
E non si sa quanto ancora le nostre società siano in grado di reggere altri nuovi stress test come quello a cui sono state costrette dalla pandemia di coronavirus. Lo ha ribadito, ieri, il prof. Marcello Tavio, Presidente della Simit (Societa Italiana Malattie Infettive e Tropicali) nel corso della trasmissione di Rai3 “Linea notte”.
L’epidemia da Covid-19 è certamente la prima ad avere assunto tali enormi dimensioni mondiali, ma in un passato recente ve ne sono state molte altre causate da virus, assolutamente sconosciute all’uomo fino al momento della loro insorgenza e diffusione.
Questa novità negli ultimi decenni chiama in causa la logica estrattiva e distruttiva del sistema capitalistico, che ha imposto le sue priorità e la sua logica a tutto il pianeta, con una impressionante accelerazione della sua “globalizzazione” e della finanziarizzazione capitalistica.
L’accaparramento illegale di terre, l’industria del legno e quella estrattiva non si sono mai interrotte, nemmeno durante il dilagare della pandemia, la distruzione della foreste è continuata imperterrita. Solo in Brasile, nel 2020, la deforestazione è stata del 70% superiore rispetto alla media registrata nel decennio precedente. L’avidità di terra, legno e minerali dovrebbe essere fermata e punita, eppure la comunità mondiale non agisce contro Bolsonaro. Perché?
Semplice: dietro Bolsonaro non ci sono solo le grandi imprese multinazionali del settore minerario e quelle del legno, ma anche e soprattutto i colossi del fast food e della grande distribuzione commerciale, come McDonald’s, KFC e Burger King e ancora Nestlè, Carrefour, JBS, Bunge e Cargill, o ancora Stop & Shop, Costco, Walmart/Asda e Sysco.
E, come Bolsonaro, nessuna di queste aziende viene fermata e/o multata dai grandi consessi internazionali in cui siedono politici le cui carriere vengono finanziate a suon di milioni proprio da quelle multinazionali.
Così, mentre la distruzione della foresta prosegue, i Popoli Indigeni si trovano ad affrontare una doppia minaccia: l’avanzata indisturbata della mafia del legno, dell’industria estrattiva e degli accaparratori di terre, e il dilagare del Covid-19 che, come altre malattie portate dall’esterno, è particolarmente letale per gli indigeni e rischia di causare un nuovo genocidio come ha documentato il grande fotoreporter brasiliano Sebastião Salgado.
Così come il Brasile, anche le foreste del Paraguay, della Colombia e del nord dell’Argentina bruciano per produrre soia che viene usata per l’alimentazione degli animali o vengono rase al suolo per poter estrarre minerali dal sottosuolo.
E mentre, nel 2019, il G7 offriva una manciata di milioni di dollari fingendo di voler frenare gli incendi dolosi e pianificati delle foreste, alcune settimane prima l’Europa aveva già firmato un accordo di libero scambio con il Mercosur che spinge alle monoculture intensive in funzione dei mercati del Nord del mondo per molti miliardi di dollari. È il vero volto del “capitalismo green” europeo.
Contro tutto ciò si batteva il segretario generale dei lavoratori rurali del Brasile, Chico Mendes, assassinato il 22 dicembre 1988. Contro tutto ciò si batteva anche Santiago Monaldo, ucciso tre anni fa, in Argentina, mentre lottava contro la sottrazione della terre al popolo Mapuche da parte del potentissimo gruppo della italianissima famiglia Benetton.
A causa della deforestazione vengono persi ogni anno circa cinque milioni di ettari di foresta, ovvero 15 campi da calcio al minuto e tuttavia, secondo un rapporto del 2019, a cura dell’organizzazione internazionale di consulenza CDP disclosure insight action, oltre il 70% delle imprese non è trasparente rispetto al proprio coinvolgimento, diretto o indiretto, nel fenomeno.
Il dato più sconcertante è che più di un migliaio tra le 1500 imprese interrogate da CDP nel 2018, a proposito del loro coinvolgimento nei quattro settori maggiormente a rischio per quanto riguarda le pratiche di deforestazione (legname, olio di palma, bovini e soia), “non sa o non fornisce informazioni”.
Sempre secondo il rapporto della CDP, oltre 350 di queste società hanno costantemente omesso di fornire informazioni a investitori e azionisti. In cima a questa lista si trovano il colosso dell’olio di palma Mondelez International, Sports Direct International (abbigliamento e calzature), Domino’s Pizza (scatole di cartone per distribuire pizze), l’italiana Ferrero, Ikea, Gap, Louis Dreyfus.
Degradazione ed antropizzazione massiccia e continua degli ecosistemi hanno ricadute negative non solo in termini di perdita di biodiversità e riscaldamento globale. Uno studio recentemente pubblicato su Nature da un gruppo di ricercatori inglesi – primi autori Rory Gibbs e David Redding dello University College di Londra – dimostra come la conversione delle aree naturali in aree produttive o urbanizzate influenzino la ricchezza specifica e l’abbondanza delle specie portatrici di malattie trasmissibili all’uomo, favorendole.
Il noto saggio di David Quammen, Spillover (2012), conduce il lettore tra foreste distrutte, allevamenti nel bel mezzo di luoghi selvaggi, mercati di carne con “prelibatezze” selvatiche, fornendo un allarmante quadro di come distruggendo la natura stiamo liberando una imprecisata quantità di patogeni.
Quel che è ormai accertato è che le specie animali portatrici di zoonosi sono favorite dall’alterazione degli ecosistemi naturali ad opera dell’uomo. Ecco come deforestazione, agricoltura, allevamento e urbanizzazione minacciano specie sensibili e favoriscono la diffusione di nuovi virus sconosciuti all’uomo.
E allora, se non si mette all’ordine del giorno una radicale rottura di sistema, non avremo nessuna speranza di uscire da crisi ed emergenze epidemiche susseguenti che, alle attuali condizioni, sono destinate a ripetersi, per l’appunto, sempre più frequentemente, nei prossimi anni.
La mobilitazione di milioni di persone in molte piazze del pianeta sotto il segno del Fridays for future è stata certamente un’utilissima scossa che ha creato una consapevolezza diffusa sulla emergenza climatica ed ambientale e, tuttavia, non appare ancora in grado di scardinare veramente quegli aspetti strutturali che la stanno alimentando.
Ciò nonostante, quel movimento, per l’importanza e le dimensioni che ha assunto, può ancora provare, nei prossimi mesi, a fare un necessario salto di qualità sul terreno dell’individuazione degli obiettivi e di pratiche di lotta più incisive e meno rituali e di mera testimonianza.
Piuttosto che continuare a puntare su una assai improbabile sensibilizzazione e conversione sulla via di Damasco delle élites mondiali e di classi dirigenti al soldo delle grandi lobbie finanziarie, bisognerebbe adottare metodi di lotta che impongano ai detentori del potere un drastico cambio di direzione, invece di una semplice operazione del super collaudato green washing, delle solite grandi opere invasive che sottraggono ancora altro territorio e di un sistema energetico ed industriale che continua ad usare combustibili fossili.
Accanto a ciò, va riaffermata la centralità del modello di sanità pubblica universale. La risposta sanitaria al coronavirus messa in atto in Italia e nel resto dei Paesi capitalistici, dove il processo di marca neoliberista di privatizzazione della sanità pubblica o l’assenza di fatto di questa come negli Stati Uniti, ha moltiplicato il numero dei decessi da e per Covid-19, ripropone prepotentemente il tema del diritto alla salute come diritto universale dell’uomo e non più come merce su cui fare profitti e speculazione.
La grave crisi pandemica, ancora in atto, ha dimostrato, in maniera inequivocabile, che va assolutamente rimesso al centro dell’agenda politica un modello sanitario basato sulla prevenzione e su una robusta rete di presidi di medicina territoriale.
Quei presidi che, se non fossero stati criminalmente smantellati, in tantissime zone del nostro paese, avrebbero certamente scongiurato la grave crisi degli ospedali intasati dai malati di Covid, ed i morti sarebbero stati certamente molti di meno degli oltre 60.000 registrati fino ad oggi.
E un modello del genere non può che essere totalmente pubblico perché, lo abbiamo visto in questi decenni di privatizzazione spinta del settore: quello privatistico non ha nessun interesse a fare prevenzione sul territorio ma, al contrario, mentre sottrae importanti risorse al servizio sanitario pubblico, si arricchisce esclusivamente sull’ospedalizzazione di chi si è già ammalato.
Se c’è una cosa che deve insegnarci questa maledetta pandemia è che la battaglia contro la catastrofe ambientale e quella per la riaffermazione di sistemi di sanità pubblica capaci di garantire prevenzione e cure adeguate per tutti, sono i due assi fondamentali ed inscindibili tanto nella lotta contro questa pandemia (e contro tutte quelle future), quanto in quella per la salvezza del pianeta.
(foto di Sebastião Salgado)
Fonte
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