Lo scorso 9 maggio, nel 76° anniversario della vittoria dell’Unione Sovietica nella “Grande guerra patriottica”, si è svolta sulla piazza Rossa la tradizionale parata, preceduta da un breve intervento che Vladimir Putin ha pronunciato dal palco piazzato davanti a un enorme pannello che, ormai dal 2004, in queste occasioni, nasconde il mausoleo di Lenin.
Il discorso di Putin è stato significativo: sia per quello che ha detto sia per quello che non ha detto, sia per i diversi pubblici cui era rivolto, interni e esterni.
La carica rievocativa e patriottica di alcuni passaggi, è stata forse pensata per “indennizzare” parte delle generazioni più mature dell’assenza di qualsiasi riferimento ai comunisti, che costituirono la spina dorsale, al fronte e nelle retrovie, della vittoria sovietica.
Tali passaggi sembrano aver soddisfatto anche parte della compagneria estera, tanto che qualcuno si è sentito in dovere di definire Putin “compagno”. Sarà forse per quel «tovarišči soldati e marinai...» pronunciato all’inizio (nota: tale appellativo è tuttora di prammatica nelle Forze armate e il Presidente è il Comandante in capo; inoltre, fuori della sfera politica, è usato come sinonimo di “compagno d’infanzia, di scuola” o, nella gerarchia professionale, come collaboratore, o vice.
Addirittura il Taras Bul’ba gogoliano, già nel XVI secolo, esortava al “tovariščistvo” cosacco, nel senso che ogni difensore della terra russa è tovarišč, è amico di un altro difensore della terra russa... dunque, molto a proposito in un discorso patriottico), o forse per altri passaggi, effettivamente di rilievo.
È però difficile sorvolare su alcune “dimenticanze”, non del tutto innocenti: insieme alla doverosa denuncia del rifiorire dell’ideologia nazista e della sua promozione in vari paesi, si è taciuto, per dire, sui numerosi monumenti e targhe che vengono regolarmente inaugurati in Russia ai macellai controrivoluzionari della guerra civile.
Come il complesso inaugurato lo scorso 22 aprile a Sebastopoli – “Monumento al 100° anniversario della Guerra Civile” o “Monumento alla Riconciliazione” – che, secondo le autorità locali, dovrebbe stimolare a «smetterla di dividerci in rossi e bianchi. Siamo un popolo e abbiamo una sola Russia», o addirittura, come chiedono l’ex Ministro della cultura Vladimir Medinskij (che a suo tempo aveva inaugurato a Piter una lapide al generale finlandese Mannerheim, complice dei nazisti nell’assedio di Leningrado) e il monarchico Nikita Mikhalkov, dovrebbe convincere i “rossi” a fare pentimento.
Tutto, in nome della riconciliazione, del «consenso nazionale», come aveva fatto lo stesso Putin, inaugurando a Mosca, nel 100° anniversario dell’Ottobre, la “Basilica dei Nuovi martiri vittime dell’idea comunista”, dedicata a coloro «che soffrirono per la fede nel periodo della lotta contro dio».
Putin ha evocato a varie riprese l’unità del popolo sovietico nella difesa «della propria casa, dei figli, del paese», ma ha evitato di dire che il popolo sovietico difendeva la patria sovietica, gli ideali sovietici, le conquiste di quella rivoluzione che lo aveva liberato da latifondisti e capitalisti.
Quando si celebra il «Giorno della Vittoria nella Grande Guerra Patriottica» scrive ROTFront, «bisogna ricordare che quella non fu solo una guerra per terre o risorse. Fu prima di tutto una guerra di mondi e sistemi diversi, di valori diversi. Non a caso, qua e là nelle trincee nemiche si potevano vedere non solo le bandiere naziste, ma anche il tricolore bianco-blu-rosso del generale Vlasov, lo stesso che oggi sventola sul Cremlino». In compenso, sempre più spesso, si parla della vittoria conquistata «nonostante Stalin e nonostante il partito dei bolscevichi».
Putin ha parlato anche di «teppe di aguzzini non completamente eliminati, di loro seguaci», di tentativi di riscrivere la storia, di giustificare traditori e criminali, le cui mani sono lorde del sangue di centinaia di migliaia di civili”, nonostante che in Russia si sostenga che il numero di monumenti a Lenin è sproporzionato rispetto ai monumenti a Kolčak, Denikin, Vrangel, e dunque si dedichino monumenti a quei generali bianchi che nel 1920 combatterono contro la Russia sovietica e, vent’anni più tardi, furono in gran parte complici dei nazisti, dai Krasnov ai Škuro.
Quindi, Putin ha portato un affondo, diretto contro i «tentativi di riscrivere la storia».
Si è trattato solamente di dire il fatto loro a quanti cambiano i nomi di chi ha sconfitto il nazismo, a quanti tacciono sul ruolo dell’Unione Sovietica e parlano solo degli “Alleati”? Certo. Ma non solo.
Nell’altolà a quei «tentativi» c’è soprattutto il monito a chi intende sovvertire gli equilibri mondiali odierni; che non sono certamente più quelli del 1945, ma che, per qualcuno, devono ancora essere rivisti, per renderli confacenti alla situazione attuale di competizione interimperialista, di disequilibrio nello sviluppo economico, di arretramento di alcuni centri e forte avanzamento di altri.
Ecco dunque l’avvertimento lanciato a quanti «tramano di nuovo piani aggressivi», contro quanti «avevano stracciato gli accordi volti a fermare lo scivolamento verso la guerra mondiale» ottant’anni fa, ma anche contro quanti non rispettano o stracciano le intese (sulle armi nucleari, ad esempio, ma non solo) dell’epoca più recente. Così, ha sottolineato Putin, «difenderemo fermamente i nostri interessi nazionali, garantiremo la sicurezza del nostro popolo».
Allo stesso modo del recente messaggio al Consiglio federale, in cui non si chiamavano per nome i Paesi che minacciano la sicurezza russa, così anche ora Putin non ha nominato espressamente alcuno Stato, ma la maggior parte dei media occidentali ha chiaramente percepito il riferimento, ancorché velato, a USA e UE, con accenni alle «dispute diplomatiche» e alle reciproche espulsioni di funzionari tra Russia, Washington e UE.
Ed è stato ovviamente sottolineato il passaggio sulla tutela degli interessi nazionali. La Xinhua ha scritto che «Celebrare il Giorno della Vittoria è necessario non solo per onorare gli eroi e una grande vittoria... ma anche per ricordare l’ordine mondiale del dopoguerra, che deve essere protetto dalle guerre calde e fredde».
Ma, nello specifico della situazione attuale, chi sono coloro che «tramano di nuovo piani aggressivi», e di quali piani si tratta?
Il politologo Vladimir Pavlenko ritiene che la fantomatica “de-escalation” di Biden nasconda dei piani ben reali e una serie di fatti lo testimonierebbe: dagli incendi accesi in Medio Oriente, in Asia Centrale e nel Caucaso ex sovietici, ai nuovi piani della NATO, al riaccendersi in Giappone della questione delle isole Kurili; e ancora Ucraina, Crimea e Donbass, Israele e Siria e «forse la Turchia, perché con l’arrivo di Biden alla Casa Bianca», si dice sempre più spesso che «è più facile cambiare il regime di Erdogan, che non mettersi d’accordo con lui».
Dunque, alcuni fatti. Il primo riguarda l’indeterminatezza attorno alla progettata base navale russa in Sudan (ufficialmente: Punkt material’no-tekhničeskogo obespečenija, MTO – Centro logistico), praticamente al centro del Mar Rosso. Ora, ricorda Pavlenko, sembra che la ratifica dell’accordo sottoscritto a settembre 2020 sia congelata da parte sudanese e non è escluso che vi abbia influito l’intervento di USA, Gran Bretagna e Norvegia.
All’improvviso, il paese «viene escluso dalla “lista nera” americana degli sponsor del terrorismo e gli viene concesso un prestito della Banca Mondiale». Poi, lo scorso gennaio, dopo la visita di ufficiali USA, vien fuori che il Pentagono ha un «interesse per una base navale vicino ai confini dell’Eritrea e che, quale condizione per sviluppare la cooperazione, Washington esige il ridimensionamento del progetto di MTO russo», che rappresenterebbe un anello di congiunzione con la prossima base navale cinese a Gibuti, contrapposto a un insediamento yankee, su una rotta marittima così importante.
Il secondo fatto è un tentativo giapponese di impedire il passaggio di quattro navi militari russe dallo stretto di Tsushima verso il mar Cinese orientale, nonostante il regolare preavviso, inoltrato da Mosca a Tokyo. Simbolicamente, commenta Pavlenko, questo è «un chiaro accenno a paralleli storici» con gli eventi del 1905 e, in ogni caso «odora di casus belli».
Dunque, il monito putiniano a non «tentare di riscrivere la storia» ha qui un fondamento molto attuale, con un «paese che ha perso la guerra mondiale, trasformato in una “portaerei inaffondabile” degli Stati Uniti», fulcro di un blocco militare definito “NATO dell’Estremo Oriente”. La questione di Tsushima, messa accanto alle recenti “fughe di notizie” sulla possibilità di un intervento giapponese sulle Kurili, non può non destare i sospetti di Mosca sulla regia americana.
C’è poi, ovviamente, la questione ucraina. Anche se la recente visita di Antony Blinken a Kiev ha raffreddato le smanie di adesione alla NATO, la portavoce ufficiale della Casa Bianca, Karin Jean-Pierre, ha dichiarato che gli Stati Uniti valutano positivamente la volontà ucraina di aderire all’Alleanza atlantica. Di fatto, si tratta soprattutto dell’utilizzo delle infrastrutture militari ucraine per gli obiettivi NATO e dello spiegamento di contingenti militari dell’Alleanza in punti strategici del territorio ucraino. Mosca non lo potrà mai consentire.
Il quarto fatto «è probabilmente il più inquietante» e si riferisce alla «forte attivazione americana in Siria, che il Ministero della difesa russo definisce “sospetta”, associata ai preparativi per il ritiro USA dagli accordi esistenti tra Mosca e Washington. Al tempo stesso, Israele lancia missili sulla Siria, che passano non lontani dalla base russa di Khmeimim».
Ora, è chiaro che «Israele in Siria è “in guerra” non tanto con Bashar al-Assad, quanto con l’Iran, mentre la marina russa prende sotto protezione le petroliere iraniane dirette in Siria. Da tempo Tel Aviv evita incidenti con le forze russe; ma rimane anche il satellite più vicino di Washington che, se sta pianificando un’escalation in Siria, con il ritiro dagli accordi militari, lo farà certamente coinvolgendo lo Stato ebraico».
Si potrebbe evidenziare anche un altro “semi-evento”: il prossimo incontro tra Putin e Biden. Per il luogo, in USA si parla di Praga o Reykjavik, ma ciò «evoca paralleli storici estremamente negativi per il nostro paese» e anche avvenimenti recentissimi, come lo «scandalo spionistico-diplomatico avviato da parte ceca. Si vuol forse tentare di umiliare la Russia? O provocare un rifiuto, accusandola di riluttanza a condurre il dialogo?».
Ancor peggio per i tempi: gli americani parlano del 15-16 giugno, immediatamente dopo il G7 del 11-13 giugno a Londra e il vertice NATO del 14 giugno a Bruxelles. Ora, scrive Pavlenko, è evidente che Biden mira a ottenere il «sostegno dei satelliti, rivendicando il “diritto” a rappresentare la posizione collettiva dell’intero Occidente».
In generale, dunque, tutti questi fatti testimoniano la volontà yankee di formare «un’ampia coalizione anti-russa, consolidando i propri elementi in Occidente e Oriente: Giappone, Sudan, Israele, Turchia, Ucraina e anche polacchi e cechi. Si ha l’impressione che gli USA stiano cercando di riprendere i fili della gestione dei conflitti con la Russia in tutte queste aree».
Inoltre, la Casa Bianca ha annunciato il ritiro dall’Afghanistan: è molto probabile che, non appena gli americani se ne andranno, «i terroristi non tarderanno a salire a nord, verso l’Asia centrale» e troveranno “terreno molto fertile” nelle repubbliche ex-sovietiche vicine all’Afghanistan, creando seri problemi non solo alla Russia, ma anche alla Cina, minandone gli interessi nella regione, tagliata dalla Belt and Road.
Infine, a settembre si vota in Germania: qui, il forte indebolimento di CDU/CSU pare preannunciare la sconfitta dell’attuale blocco di governo. I pronostici vanno per lo più ai Verdi e, nella possibile coalizione, «non ci sarà posto per l’attuale, seppur limitata, opposizione di Berlino a Washington, a partire dalla questione del “North Stream 2”, e crescerà drasticamente l’orientamento generale anti-russo della politica tedesca. Così che l’Europa non solo finalmente “si unirà”, ma cadrà completamente sotto gli Stati Uniti, trasformandosi nel loro ariete contro la Russia».
Se a tutta questa massa di eventi si aggiungono i “pronostici” di vari think tank americani vicini a Pentagono e CIA, che «prevedono un “grande conflitto” per il 2025», come non pensare a una ben studiata «strategia di intimidazione»?
Ora, ha scritto l’economista Boris Šmelev, la ragione fondamentale del conflitto è data dal fatto che la Russia si è «affermata quale centro autonomo della politica mondiale e non vuole essere un partner minore dell’Occidente e giocare secondo regole dettate dall’Occidente». In questo senso, già nel 2006, Vladimir Putin aveva detto che «la Russia è diventata più forte, può assumersi la responsabilità dello sviluppo mondiale e svolgere un proprio ruolo nelle relazioni internazionali». Da allora, sono andate sempre più crescendo le contraddizioni tra Russia e Occidente, i cui interessi raramente coincidono.
E allora, il 9 maggio, a chi erano rivolti i moniti a non «riscrivere la storia», a non cercare di sovvertire gli equilibri mondiali, a non «tramare di nuovo piani aggressivi»?
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