Il 12 maggio del 1977 difficilmente sarà solo una data su un calendario. Per una intera generazione politica ha lo stesso peso che le giornate di luglio a Genova 2001 hanno avuto trenta anni dopo per un’altra generazione. Lo Stato mostrò il suo volto di guerra, a tutti i livelli, e la morte di Giorgiana Masi, studentessa diciottenne del liceo Pasteur di Roma è lì a ricordarlo.
Il quotidiano La Repubblica si presta spesso a operazioni indecenti. L’aver rimesso in circolo la versione dell’allora ministro degli Interni Cossiga, tramite le parole dell’agente Fantone – uno dei tanti immortalati quel giorno con la pistola in mano – la rende complice di una narrazione tossica, inaccettabile e indigeribile per le migliaia di testimoni diretti di quanto avvenne in quel pomeriggio di un giorno da cani.
Il 12 maggio di quel 1977 giunse a conclusione di tre settimane pesanti come macigni. Il 21 aprile il movimento aveva tentato ancora una volta di occupare l’università La Sapienza, ma la polizia intervenne rapidamente e pesantemente. Gli scontri iniziano dentro l’università e debordano ben presto nelle strade del vicino quartiere di San Lorenzo. Si diffonde il tam tam, chi non era già lì arriva mentre gli scontri sono ancora in corso. La polizia spara più volte, sparano anche i manifestanti. Un agente di polizia, Settimio Passamonti, viene ucciso in via dei Marrucini, una traversa di via De Lollis.
Il Ministro degli Interni Cossiga decreta una sorta di stato d’emergenza e il divieto totale di manifestazioni a Roma fino al 31 maggio. Ma già il 25 aprile, per la festa della Liberazione, in alcuni quartieri si cerca di scendere comunque in piazza e le manifestazioni di quartiere vengono caricate ovunque.
Ci si riprova il 1 Maggio. Cgil Cisl Uil convocano un comizio in Piazza San Giovanni che viene autorizzato. Il movimento si dà appuntamento a Piazza Vittorio per concentrarsi e arrivare in corteo a San Giovanni. La polizia però presidia e circonda tutte le strade di accesso a Piazza Vittorio. Ci sono centinaia di fermati che vengono portati via sui blindati e rilasciati nel pomeriggio e in serata. Chi è riuscito a sottrarsi alle maglie della polizia si concentra su via Emanuele Filiberto e cerca di raggiungere San Giovanni. Il sindacato e il Pci schierano il servizio d’ordine per impedirlo, si accende una mischia furibonda a ridosso dei cordoni del servizio d’ordine. Ma alle spalle dei militanti del movimento arriva la polizia. Scatta una sorta di trappola. Altre botte, altri fermi. Le piazze continueranno ad essere negate al movimento.
Il pomeriggio del 12 maggio
Il Partito Radicale (sensibilmente diverso da quello degli anni successivi), decide di convocare una manifestazione per il 12 maggio in Piazza Navona per celebrare la vittoria nel referendum sul divorzio di tre anni prima, ma anche per sfidare il divieto di manifestare. Nonostante il Partito Radicale sia presente in parlamento, la Questura nega l’autorizzazione alla manifestazione. I radicali decidono di disobbedire al divieto e mantengono l’appuntamento. Una assemblea di movimento decide di utilizzare l’appuntamento dei Radicali in Piazza Navona per riprendersi l’agibilità di piazza negata dal governo.
Nel primo pomeriggio si capisce subito che tira una brutta, anzi pessima, aria. In Piazza Navona gli stessi parlamentari del Partito Radicale e di Democrazia Proletaria vengono caricati dalla polizia. Un Marco Pannella contuso entra alla Camera dei Deputati denunciando quanto sta accadendo ma viene insultato e zittito dai parlamentari della Dc e del Pci.
Nelle strade e nelle piazza intorno a Piazza Navona cominciano ad arrivare gruppi di compagni del movimento nel tentativo di raggiungere la piazza. Ma ogni assembramento, anche il più piccolo, viene immediatamente caricato e disperso, anche con l’uso di lacrimogeni.
Una parte dei compagni attraversa il Tevere e si concentra a piazza Sonnino, un altro riesce a raggiungere Campo de’ Fiori. I due raggruppamenti si riunificano a Campo de’ Fiori decisi a resistere. Iniziano così ore di scontri. Da una parte solo i sassi raccolti per strada e le barricate di automobili, saranno pochissime le bottiglie molotov fatte direttamente per strada succhiando la benzina alle automobili e usando stracci per l’innesco. Il 12 maggio del 1977 il movimento non era andato in piazza organizzato per fare gli scontri. Dall’altra parte si sparano decine di lacrimogeni che rendono l’aria irrespirabile ma soprattutto colpi di arma da fuoco, tanti, ripetuti. Le pallottole sparate ad altezza d’uomo dagli agenti, sia in borghese che in divisa, perforano saracinesche, muri, automobili e talvolta arrivano a segno, fortunatamente non in modo letale.
Si resiste per ore a sassate, con cariche e controcariche, fumo dei gas lacrimogeni e colpi di arma da fuoco. Ma cresce anche il rischio di rimanere imbottigliati dentro Campo de’ Fiori. Ad un certo punto si apre la possibilità di ritirarsi verso Trastevere. Su Ponte Garibaldi un altro gruppo di compagni ha eretto una barricata e resiste alle cariche. Si attraversa di corsa Ponte Sisto con gli occhi rivolti a quanto accade sull’altro ponte e ci si concentra tutti alla barricata di Ponte Garibaldi.
Per qualche minuto tutto sembra fermarsi, quasi un momento di tregua. Ci si sta per sciogliere. Parte però un’altra carica della polizia, più lunga, più decisa, quasi fino a ridosso della barricata. Questa volta non si resiste ma si fugge. Una ragazza cade mentre tutti stanno correndo. Un ragazzo dice che si è sentita male, ma ben presto un fiore di sangue sul corpo annuncia che non si tratta di un malore ma di una ferita. Giorgiana Masi viene caricata su una macchina e portata al vicino ospedale Nuova Regina Margherita dove morirà di lì a poco.
Si torna a casa con gli occhi ancora gonfi e arrossati dai lacrimogeni, c’è anche qualche livido lasciato dalle pallottole di rimbalzo che hanno colpito alcuni. Qualcuno ha ferite più serie – fortunatamente non gravi – ma evita di farsi ricoverare negli ospedali. Chiusi in cucina si incollano le orecchie all’unica radio di movimento esistente nella primavera del 1977, Radio Città Futura. E si apprende che una compagna, Giorgiana Masi è morta, uccisa da un colpo di arma da fuoco. Una notizia e una morte che pesano come una montagna.
Il giorno successivo in Parlamento, il Ministro degli Interni Cossiga nega che la polizia abbia sparato in piazza.
Il giorno dopo il giornale romano Il Messaggero (immensamente diverso da quello di oggi) pubblica le foto degli agenti di polizia con le pistole in pugno e smentisce Cossiga. Il 13 maggio gruppi di compagne cercano di recarsi a Ponte Garibaldi a depositare fuori lì dove Giorgiana Masi è stata uccisa ma vengono caricate. Ci saranno tensione e cariche anche il giorno dei funerali.
Il 12 maggio del 1977 lo Stato decise di mostrare al movimento antagonista (ma anche ai pochissimi parlamentari dell’opposizione) il suo volto di guerra e di infliggergli una lezione, la più dolorosa possibile. Forte del patto politico tra Dc e Pci, l’apparato repressivo si era sentito libero di usare la mano pesante, e lo fece senza incontrare ostacoli o problemi. Fu inchiodato solo dal coraggio dei fotografi e dalla determinazione di un movimento che decise che il 12 maggio non sarebbe stato mai più solo una data sul calendario. Per questo, anche quaranta anni dopo, vogliamo riaffermare che non intendiamo dimenticare nulla.
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