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03/05/2021

Il PNRR di Draghi. Un piano o una pernacchia?

Curiosa la storia del Recovery Plan (o PNRR). Approvato quasi all’unanimità dal Parlamento (i “melonisti” si sono astenuti...), benedetto e incensato da tutti i media più importanti, non riesce però a convincere nessuno non appena ci si guardi dentro con un occhio appena allenato.

I nostri lettori hanno già potuto apprezzare diverse analisi, ultima quella del collettivo di economisti Coniare Rivolta, che mettono in evidenza il carattere di classe della manovra, le risorse inadeguate allo scopo dichiarato (quei quasi 200 miliardi sembrano tanti, ma “spalmati” su sei anni diventano un pannicello caldo), e persino l’assurdità di una spesa pubblica che non produce un “moltiplicatore” almeno pari alle risorse investite.

Ma a quanto pare il “piano Draghi” presenta parecchi profili di incongruenza. Intanto, come scrive Guido Salerno Aletta su Milano Finanza, non sarebbe stato redatto “secondo le regole della contabilità pubblica”. Al contrario il pool del presidente del consiglio si è “attestato esclusivamente sullo schema suggerito dalle Linee guida per gli Stati membri per la elaborazione degli Rrp, che ammette unicamente le azioni definibili come «investimenti» anche se non comportano spese come le riforme, ritenendo che si debba perseguire unicamente l’accrescimento del capitale: produttivo, umano o naturale che sia.”

Un’altra logica implica altri obbiettivi, che poco c’entrano con gli interessi di questo paese. Curiosamente, uno degli esempi più chiari viene dalla spesa prevista per il «Piano per gli asili nido e scuole dell’infanzia e servizi di educazione e cura per la prima infanzia» (cosa ovviamente, in astratto, più che desiderabile, vista la carenza di tali servizi esistente in Italia), ma redatta senza tenere conto della situazione concreta.

In cui “un’offerta privata c’è già, e altra potrebbe svilupparsi, ma le rette hanno livelli talmente alti da non essere abbordabili dalla gran parte delle famiglie e queste sono escluse dall’accesso alle strutture comunali solo per via di un Isee troppo alto: questo è il paradosso”. In pratica le famiglie “normali” (la stragrande maggioranza) risultano concretamente troppo povere per rivolgersi agli asili privati e formalmente “troppo ricche” per gli asili pubblici.

Passando al “moltiplicatore”, anche Salerno Aletta resta stupefatto davanti alle “conseguenze” previste per investimenti pubblici così massicci, con stime di crescita del Pil ampiamente al di sotto delle cifre che verranno spese: “La seconda grave lacuna del PNRR [...] risiede nello scarso impatto sulla crescita: è praticamente nullo.”


Anzi: “Questo piano non innesca […] una crescita duratura e sostenuta, ma si limita ad anticipare di pochi mesi, tra la fine del 2022 e l’inizio del 2023, il recupero della caduta del pil occorsa nel 2020”. Il che non è proprio un dettaglio minore, per un piano che dice di voler promuovere finalmente “la ripresa e la crescita”

Ma la cosa peggiore è l’effetto sul sistema industriale, sulla qualità dell’occupazione e sulla bilancia commerciale (export/import).

Per prima cosa, “la domanda pubblica aggiuntiva che non riguarda la componente delle costruzioni e dell’immobiliare non verrà soddisfatta con risorse interne ma andrà a incrementare le importazioni”.

Per un paese che ha un disperato bisogno di produrre qualcosa, che vede sparire industrie di proprietà nazionale e multinazionale, è una notizia terribile, e non si capisce in base a cosa il presidente di Confindustria abbia dato un parere “positivo”.

Al contrario “è una catastrofe: accadrà su grande scala ciò che accadde con la decisione di agevolare, senza alcuna pianificazione, la produzione di energia elettrica di origine solare: i pannelli fotovoltaici furono tutti importati dalla Cina mentre gli investimenti finanziari dall’estero hanno beneficiato dell’impegno del Gestore della rete a ritirare per vent’anni l’energia prodotta a prezzi assolutamente fuori mercato”.

Ovvio: se il programma di spesa pubblica è quasi tutto rivolto a beni tecnologici che qui non vengono prodotti (in primo luogo nell’informatica, ma anche su molte tecnologie “ambientali”), quelle merci andranno acquistate altrove. Dunque senza alcun effetto sulla capacità produttiva “locale”.

Anche per quanto riguarda l’occupazione, di conseguenza, le prospettive non sono affatto rosee: “si assorbirà prevalentemente l’offerta di lavoro di manovali e carpentieri, mentre non si creano le condizioni per una migliore capacità produttiva di alto valore aggiunto e competitiva a livello internazionale”. E “questo è un errore esiziale, irrimediabile, che mette a repentaglio tutti gli sforzi fatti a partire dal 2012, con sacrifici sanguinosi, per recuperare competitività all’estero mortificando i salari e abbattendo la domanda interna per ridurre le importazioni”.

È finita qui, la critica? No, chiaro. Questo piano è uno spendificio di soldi pubblici, ma senza alcuna programmazione propria. Dunque senza una strategia che non sia l’asservimento alle indicazioni europee.

Ma “anche in termini quantitativi, il PNRR non dispiega alcuno sforzo erculeo nel sostegno del sistema produttivo: la spesa pubblica in conto capitale si impenna solo per due anni, nel 2021 e nel 2022 rispettivamente con il 5,5% e il 6,1% del pil, ma esclusivamente per finalità emergenziali che non hanno niente a che vedere con la promozione di un processo di sviluppo”.

Un bel quadro, per il prossimo futuro. Il PNRR, in quest’ottica, comincia ad assomigliare più a una pernacchia...

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