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04/06/2021

Brancaccio - “Basta con la retorica sul whatever it takes: Draghi alla Bce strozzò la Grecia per salvare le banche tedesche”

L’austerity? Chi la crede morta e sepolta si sbaglia. I falchi del rigore sono stati costretti dalla pandemia a prendersi una pausa, ma sono già pronti a tornare. L’avvertimento arriva dall’economista Emiliano Brancaccio, professore di Politica economica all’Università del Sannio, che in questa intervista a TPI boccia sonoramente le politiche economiche del “tecnocrate” Mario Draghi e smonta la retorica del “whatever it takes”: con quella frase, dice, “Draghi, in realtà, smentì se stesso”.

Professore, durante un recente dibattito con il suo collega Daron Acemoglu del Mit di Boston, lei ha esibito una serie di ricerche empiriche secondo cui la flessibilità del lavoro non favorisce la crescita dell’occupazione ma al contrario la ostacola. Le chiedo: il blocco dei licenziamenti negli ultimi 15 mesi è servito a contenere l’emorragia di posti di lavoro oppure – come dicono Draghi, Confindustria e l’Ue – ha inquinato il mercato favorendo i garantiti a scapito dei precari?

“L’idea che gli strumenti di protezione del lavoro pregiudichino la crescita e l’occupazione è stata dominante per anni, in Italia e in gran parte del mondo. Ma è seccamente smentita dalla ricerca scientifica: secondo l’88% delle pubblicazioni uscite su riviste accademiche internazionali negli ultimi dieci anni, la tesi per cui la flessibilità crea occupazione non trova riscontro empirico. Sia pure a denti stretti, questo risultato viene riconosciuto anche da istituzioni fautrici della flessibilità come il Fondo Monetario Internazionale, la Banca mondiale e l’Ocse, che in alcuni loro rapporti ammettono che l’impatto della flessibilità sull’occupazione risulta ‘non significativo’, ‘insignificante’, ‘nullo’”.

Quindi sul blocco dei licenziamenti il premier, gli industriali e Bruxelles hanno torto?

“Il blocco dei licenziamenti corrisponde a una riduzione emergenziale della flessibilità del lavoro. La tesi di Confindustria, della Commissione e dello stesso Draghi è che questo irrigidimento del mercato del lavoro pregiudica l’occupazione. Ma, come dicevo, l’evidenza empirica li smentisce. Evidentemente a Palazzo Chigi e a Bruxelles hanno troppo da fare e leggono poca ricerca scientifica”.

I sindacati dicono che togliendo il blocco si rischiano 500mila licenziamenti. Esagerano?

“Il vero problema è che il blocco dei licenziamenti blocca poco, perché la sua applicazione è limitata e perché interviene in un mercato del lavoro ampiamente precarizzato. Nell’ultimo trentennio l’indice di protezione del lavoro in Italia è crollato del 17% sui licenziamenti collettivi e fino al 60% sui contratti a termine. Il blocco dei licenziamenti è una toppa utile, ma può fare poco in un quadro normativo in cui le imprese hanno la possibilità di licenziare per motivi estranei al blocco o di non rinnovare i contratti temporanei. Ecco perché, nonostante il blocco, durante la pandemia abbiamo perso quasi un milione di posti di lavoro”.

Se sanno che non possono licenziare, però, i datori di lavoro tendono ad assumere solo con contratti precari. O no?

“Gli imprenditori tendono quasi sempre a utilizzare le forme contrattuali più precarie a disposizione. Ma questo non è certo un valido motivo per precarizzare, dal momento che ormai sappiamo che la precarizzazione non aiuta affatto l’occupazione”.

Quindi, che fare?

“Dovremmo aprire un grande dibattito intorno alla lunga stagione della precarizzazione del lavoro e trarne un bilancio. Per quel che ci dice la ricerca scientifica, i risultati sono stati fallimentari: non c’è stato alcun beneficio dal punto di vista occupazionale e si è spostata la distribuzione del reddito dai salari ai profitti e alle rendite”.

Quindi – lei dice – bisognerebbe aumentare le protezioni anziché rimuoverle.

“Sì. Anziché continuare con la litania secondo cui bisognerebbe abbassare le tutele di coloro che ancora godono di qualche diritto, bisognerebbe piuttosto innalzare le tutele dei precari”.

Draghi ha stroncato subito la tassa di successione proposta da Letta. Quella proposta meritava forse più attenzione?

“Innanzitutto va detto che la tassa di successione, da sola, non basta. Le proposte ‘spot’ possono avere qualche efficacia nella battaglia politico-mediatica, ma poi bisognerebbe progettare una riforma fiscale di carattere generale”.

Detto questo...?

“Da anni la tassazione grava principalmente sul lavoro, mentre è molto bassa la pressione fiscale sui più ricchi: possessori di capitali, percettori di rendite e profitti. La progressività delle imposte prevista dalla Costituzione è stata fortemente depotenziata. E mi sembra si continui ad andare in questa direzione”.

Draghi, però, nel suo discorso di insediamento da premier, ha detto proprio che vuole fare una riforma del Fisco in senso progressivo.

“Quel cenno alla progressività che aveva evocato temo che resti di fatto lettera morta. Se vuole le spiego perché”.

Prego.

“Lo spostamento dei carichi fiscali a favore dei soggetti ricchi e a scapito dei poveri è una tendenza internazionale. Questa tendenza si collega al fatto che oggi i capitali possono spostarsi liberamente da un luogo all’altro del mondo, e quindi possono andare a caccia delle tassazioni più favorevoli. Dunque, per poter attuare riforme fiscali in senso nuovamente progressivo ci sono solo due strade: o si raggiunge un accordo internazionale per elevare tutti insieme le imposte sui capitali oppure bisogna introdurre controlli sui movimenti internazionali di capitali”.

E quindi?

“Draghi mi sembra contrario a entrambe le opzioni. Da un lato, è apparso freddo rispetto alla proposta di un accordo internazionale sulle tassazioni arrivata dagli Usa. Dall’altro, è notoriamente un liberista dei movimenti di capitale. In questo scenario, mi sembra improbabile che Draghi si faccia promotore di una riforma fiscale in senso progressivo”.

Draghi contro il blocco dei licenziamenti, Draghi contro la tassa di successione: Draghi è un premier di destra?

“Draghi può essere considerato un liberista temperato, e in quanto tale appartiene a una classica destra istituzionale e di governo. Fin dai suoi primi passi al ministero del Tesoro con Ciampi, passando per Bankitalia e Bce, ha sempre espresso grande ottimismo nel libero gioco delle forze del mercato. E anche di recente, poche settimane prima di insediarsi a Palazzo Chigi, ha esaltato le virtù della ‘distruzione creatrice’ del libero mercato. Incarna una visione desueta, che ha fatto molti danni e che risulta superata dagli eventi”.

Con il suo celebre “whatever it takes”, però, aprì un varco nel muro dell’austerity.

“Il liberismo è un’ideologia, e in quanto tale entra sistematicamente in contraddizione con la realtà dei fatti. Dopo la crisi del 2008 si è aperto un grande dibattito nella tecnocrazia delle banche centrali e dei governi sugli effetti destabilizzanti del libero mercato. All’epoca Draghi si rese conto che il sistema dell’euro sarebbe imploso se la banca centrale non fosse intervenuta pesantemente come ‘market maker’, cioè come una vera e propria domatrice della ‘bestia’ del libero mercato. Con quella svolta Draghi ha smentito l’ideologia di cui è stato sempre un convinto propugnatore”.

La narrazione comune è che il “whatever it takes” salvò l’Eurozona. Sarebbe più corretto dire che salvò le banche tedesche?

“Sono vere entrambe le cose. Per salvare l’Eurozona bisognava liberare le banche tedesche e francesi che avevano ampiamente foraggiato gli squilibri delle partite correnti tra Nord e Sud Europa. Aver salvato le banche con massicci interventi di politica monetaria ha significato anche salvare l’Eurozona dagli squilibri che essa stessa aveva creato al suo interno”.

Sta dicendo che la responsabilità di quella crisi finanziaria fu anche delle banche?

“Ovviamente sì, ma soprattutto la responsabilità fu di chi ha edificato l’Europa su basi liberiste, in particolare sul caposaldo della libera circolazione internazionale dei capitali. Questo principio ha creato squilibri sui quali le banche hanno lungamente prosperato. Poi il sistema ha rischiato il collasso e le autorità pubbliche sono dovute intervenire per salvarlo”.

Yanis Varoufakis, ex ministro dell’Economia greco, imputa a Draghi gravi responsabilità nella gestione della crisi ellenica. Ha ragione?

“Draghi minacciò di interrompere l’erogazione di liquidità fin quando il riottoso governo greco non avesse fatto ciò che la Troika richiedeva, contro la volontà popolare. Una politica chiaramente anti-democratica. Ma Draghi è stato solo uno dei tanti esecutori di questa dottrina nefasta, che purtroppo è stata prevalente nel corso di quegli anni e che rischia di ripresentarsi appena lo shock pandemico sarà dimenticato”.

Draghi era presidente di Bankitalia durante una importante stagione nel risiko del credito italiano: ci furono, tra le altre, le fusioni Intesa-Sanpaolo e Unicredit- Capitalia, e il controverso acquisto di Antonveneta da parte di Mps dal Banco Santander. Operazioni che determinarono esuberi di personale e ricchi proventi per alcune grandi banche, come appunto Santander. Lei ebbe anche un ruolo in quelle vicende. A suo avviso, Draghi banchiere fece anche in quel caso l’interesse dei suoi amici banchieri?

“All’epoca fui chiamato nel consiglio di amministrazione di una banca del gruppo Mps per risanarne i conti. Fui tra i pochissimi a oppormi all’acquisizione di Antonveneta, sostenendo che il prezzo di acquisto era eccessivo, chiaramente da bolla speculativa. Alla fine l’operazione venne compiuta comunque, nell’entusiasmo dei grandi media, della comunità finanziaria e delle autorità politiche e di governo. Tra i favorevoli c’era anche Draghi, che da governatore di Bankitalia avallò quelle operazioni. Ma non la metterei sul piano del ‘complotto’. Non c’è alcun bisogno di immaginare un tavolo in cui si organizzano trame segrete. La verità è che l’intero sistema era pervaso da un liberismo viscerale: lasciare agire le libere forze del mercato, non interferire negli accordi privati di centralizzazione dei capitali, anche se questi sono governati da logiche speculative violente, che lasciano sul campo pochi vincitori e tanti sconfitti, con danni economici e sociali pesantissimi”.

Del Mes non si parla più. È stato un tema strumentalizzato per far cadere Conte?

“Il Mes è stato chiaramente strumentalizzato. Sapevamo fin dall’inizio che il suo utilizzo avrebbe conferito risparmi minimali in termini di tassi di interesse, fra l’altro con condizionalità molto rigide. Il problema vero, però, rimane”.

Cioè?

“Il Mes viene denominato meccanismo di stabilità ma sarebbe più appropriato definirlo ‘di instabilità’, perché per statuto assume il solo punto di vista dei creditori anziché quello generale dell’Unione europea. La conseguenza è che per favorire gli interessi dei creditori si rischia di distruggere l’economia debitrice. Il guaio è che il Mes ormai è stato approvato. E molto probabilmente verrà innescato appena la Bce diventerà meno disponibile a erogare liquidità”.

Quindi, finito il Quantitative Easing, ci saranno paesi costretti a ricorrere al Mes?

“Ci sono interessi forti in Europa che mirano al ritorno alla vecchia prassi: vogliono che la Bce si ritiri e che venga sostituita dal Mes”.

Wolfgang Schauble, l’ex ministro tedesco delle Finanze, oggi presidente del Bundestag, dalle colonne del Finacial Times già invoca il ritorno all’austerity.

“È evidente che esiste una forte convergenza di interessi verso il ritorno alle vecchie consuetudini dell’Europa”.

Fino al 2023, però, il Patto di Stabilità è sospeso.

“Secondo dati dell’Fmi, prima della crisi pandemica il Patto di stabilità era violato nel 66% dei casi. Con la crisi pandemica, ovviamente, sarebbe stato violato nel 100% dei casi. Solo per questo lo hanno sospeso, perché non poteva in alcun modo essere applicato”.

Intanto Bruxelles è anche tornata a rimproverare l’Italia per il debito pubblico e la spesa corrente. I soldi del PNRR saranno il prezzo da pagare per nuovi tagli alla spesa pubblica?

“Sul Financial Times, qualche settimana fa, segnalavamo che in realtà i finanziamenti del PNRR sono insufficienti rispetto all’enormità della crisi. Se andiamo a fare i conti netti, il Recovery Plan dovrebbe conferirci meno di 10 miliardi all’anno per sei anni, a fronte di una crisi che nel solo 2020 ha bruciato oltre 150 miliari di Pil”.

Scusi: non saranno 209 i miliardi?

“I 209 miliardi di cui parla anche il premier sono composti da 127 miliardi di prestiti e 82 miliardi di sovvenzioni a fondo perduto. La parte di prestiti conferisce solo un risparmio sui tassi di interesse, una cifra modesta che va da mezzo miliardo a 4 miliardi all’anno. Considerato che la condizionalità è molto restrittiva, non credo convenga chiedere quei prestiti. Quanto alle sovvenzioni, bisogna tener conto che saranno finanziate con una contribuzione da parte dei singoli stati, tra cui noi. Se si applicheranno i criteri di contribuzione basati sul Pil, è ragionevole prevedere che l’Italia dovrà conferire al bilancio europeo circa 40 miliardi. Quindi il netto che ci rimarrà sarà di circa 42 miliardi, ossia soltanto 7 miliardi all’anno per sei anni”.

Avremo, però, meno vincoli di bilancio e faremo più investimenti.

“Più che di investimenti, mi sembra che si parli dei soliti incentivi”.

Mi faccia un esempio.

“Pensiamo ai vaccini. Sotto la voce finanziamento per la ricerca e lo sviluppo nel campo dei vaccini, il Governo si limita a offrire incentivi, sotto forma di credito di imposta, alle imprese private che eventualmente decidessero di occuparsene. Ma gli esperti in materia ci spiegano che per costruire la famigerata filiera nazionale dei vaccini ci vorrebbe una pianificazione dei processi produttivi da parte dello Stato. Ma questa opzione, ancora una volta, non sembra entrare nelle corde di Draghi. Lo chiamano ‘Piano’, ma del concetto di ‘Piano’ nella sostanza c’è davvero poco”.

Di converso, dovremo ridurre la spesa corrente?

“La Commissione già chiede tagli alla spesa corrente. Per il momento sono soltanto voci dal sen fuggite, che non si traducono in austerity concreta perché tutti sanno che la ripresa è ancora fragile. Ma, ripeto, gli interessi prevalenti in Europa cercheranno di ripristinare l’antica dottrina appena sarà possibile”.

Insomma, chi parla di un cambio di paradigma in Europa è fuori strada?

“Il paradigma di fondo non è ancora cambiato. L’ideologia liberista è stata drammaticamente smentita dalla realtà di questi anni ma resta tuttora la dottrina prevalente, nei governi e nelle istituzioni”.

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