Il fallimento della Cop26 era prevedibile, ma probabilmente non in queste dimensioni. Neanche i più pessimisti – tra gli addetti ai lavori e le vestali dell’ambientalismo compatibile – immaginavano che, di fronte a disastri clamorosi che si ripetono ogni giorno in ogni angolo del mondo, la riunione di oltre 200 paesi si concludesse con un nulla di fatto.
Parliamo di azioni concrete, impegni precisi e con tempistiche certe. Soprattutto parliamo di azioni da fare entro i tempi oggettivi in cui il degrado ambientale e climatico diventa irreversibile, qualsiasi cosa si possa fare dopo.
Neanche sul carbone, il più inquinante dei combustibili fossili, si è arrivati a dire (figuriamoci a fare) qualcosa di chiaro. All’ultimo momento la promessa (solo una promessa) dell’eliminazione del carbone dalle fonti energetiche primarie è diventata una “riduzione progressiva”, senza limiti quantitativi e temporali.
La retromarcia è stata addebitata all’India – che non ha molte altre alternative, al momento – e qualche media occidentale ha provato a tirarci dentro anche la Cina. Ma la prontezza con cui Usa e Australia (quest’ultima tra i principali estrattori di carbone al mondo) si sono “adattati al compromesso” rende chiara la massa degli interessi a favore dello status quo.
Ma al di là dei dettagli, è proprio la “filosofia di fondo” che viene rifiutata. Il concetto di “soluzioni basate sulla natura”, ossia di azioni pensate e organizzate tenendo conto delle osservazioni e delle leggi fisico-naturali (non economiche), è stato rimosso dal testo finale a Glasgow. E già qualcuno “promette” che si proverà a infilarlo nel testo della Cop27, prevista a Sharm El Sheik l’anno prossimo.
La rimozione, ripetiamo, è illuminante: la natura e le sue dinamiche, le leggi fisiche e biologiche che la regolano, non interessano, non possono essere rispettate perché ci sono “cose più importanti”.
Nel senso comune mediatico si dà la colpa ai “politici” (anche le frasi di Greta Thumberg battono sempre e solo su questo tasto), e certo gli interessi dei vari paesi sono molto forti e divergenti, al punto da rendere quasi impossibile qualsiasi “progetto” razionale (come sa chiunque abbia frequentato un’assemblea di condominio).
Ma siamo su una palla che viaggia nell’universo a velocità mostruosa, con una fascia atmosferica di pochissimi chilometri entro cui si sviluppa la vita. Siamo in un “ambiente” limitato e, per la prima volta nella storia dell’umanità, lo sviluppo industriale sta forzando quei limiti.
Questo non dipende tanto da “politici ottusi”, quanto da un modo di produzione e riproduzione che ha come molla principale la crescita tendenzialmente infinita della produzione (materiale, virtuale o immateriale), e soprattutto dei profitti che si possono realizzare con quella produzione.
Ma questo modo di produzione – dispiegato in tutto il pianeta, a prescindere dai regimi politici e sociali, dunque dai singoli governi – non viene neanche nominato, se non nei documenti di qualche ambientalista critico, ossia con qualche strumento marxista, oltre che con la passione per l’ambiente.
L’”ambientalismo compatibile con il capitale” è invece quella “coscienza infelice” – ma anche ben retribuita, in genere – che piange per le devastazioni ambientali e le catastrofi climatiche, ma al dunque accetta senza fare una piega qualsiasi compromesso che rinvia a un futuro iperuranico qualsiasi soluzione. Pur sapendo perfettamente che il tempo a disposizione è ormai ridotto a pochi anni (se pure non è già finito).
Sentiamo per esempio Mariagrazia Midulla, responsabile Clima ed Energia del WWF Italia, che era a Glasgow per seguire la COP26: “mantenere il riscaldamento globale al di sotto di 1,5°C è ancora possibile solo intensificando la risposta globale alla crisi climatica. Ma la finestra temporale che resta si sta chiudendo velocemente, quindi è tempo che i leader mondiali mantengano tutte le loro promesse per garantire un futuro sicuro e piacevole a tutti. Glasgow è stato un punto di partenza e non di arrivo. Dobbiamo tutti lavorare perché la crisi climatica venga affrontata, in ogni ambito, con la rapidità e l’incisività necessarie: nessuno è al sicuro e abbiamo tutti troppo da perdere, noi e il Pianeta”.
Bisogna essere analfabeti funzionali gravi per non vedere che se “la finestra temporale che resta si sta chiudendo velocemente”, le “promesse dei leader mondiali” – le promesse, neanche si parla di “piani d’azione” – si collocano ben al di là di quella chiusura. Il resto, per il WWF come per i “leader mondiali”, è solo retorica della lacrimuccia, come Elsa Fornero ha insegnato a tutti.
L’impotenza della “politica mondiale” davanti al disastro crescente non è causata dalla “stupidità”, dall’”indifferenza” o dalla “corruzione” dei leader politici. C’è certamente anche questo. Ma anche i migliori non possono né potrebbero fare molto in un mondo dove l’unica legge che conta – nonostante non sia affatto una legge scientifica – è che il mercato risolve spontaneamente tutti i problemi, decidendo la migliore allocazione possibile delle risorse. Ossia l’ideologia neoliberista, abito mentale che copre gli interessi del profitto.
Ogni governo del pianeta – con qualche importante eccezione, ma anche con grandi “compromessi”, come la Cina – si muove dentro i termini di quella “legge”, altrimenti viene smantellato dalla “forza del mercato” (finanziario, nel migliore dei casi, dagli eserciti occidentali nel peggiore).
Il mercato sta distruggendo il pianeta. O meglio gli equilibri vitali che che hanno permesso una certa evoluzione della natura su questo pianeta.
Chiedere al “mercato” (e ai “politici” che lo “facilitano”) di risolvere il problema che ha creato, di “autoriformarsi” prima che sia troppo tardi, non sembra proprio la soluzione più razionale.
Naturalmente il “discorso green” è diventato da tempo un’occasione di business. Miliardario, altrimenti non sarebbe abbastanza interessante per la folla di multinazionali e società finanziarie che hanno sponsorizzato la Cop26. Non che si tratti di una novità.
Persino Repubblica – megafono vergognoso del peggior neoliberismo “finto-progressista” – ha dovuto ammettere che in direzione del “business verde” viaggiano da anni migliaia di miliardi di fondi pubblici (più di 2.200 in sette anni), in tutto il mondo, che non servono affatto a cambiare l’equazione ambientale (tutti i parametri sono in peggioramento accelerato), ma sicuramente hanno gonfiato le tasche di pochissimi.
Il cortocircuito tra “ambientalismo compatibile e benestante” e “preoccupazioni dell’establishment” non potrebbe essere più chiaro.
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