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15/11/2021

Le mani della Turchia nel cuore dell’Asia

La dissoluzione dell’Unione Sovietica ha portato ad una ridefinizione profonda dei rapporti di forza geostrategici.

Se come abbiamo visto in altre occasioni questa ha prodotto determinati progetti nella zona che la Russia ha da sempre considerato il proprio ventre molle (le attuali repubbliche centro asiatiche proiettate al sud dell’Asia), questi si sono rivelati fondamentali anche per attori non immediatamente presenti nella zona in questione.

Lo notiamo con l’affare turco.

Le dimensioni di questa questione sono geograficamente e politicamente molto vaste, poiché abbracciano, direttamente o meno, aree del Globo molto differenti e quindi anche legature politiche su più livelli molto differenziate.

Non è un caso. Geograficamente la Turchia è una zona di allaccio geografica molto importante, il cui rilievo era ben noto prima che gli ottomani la conquistassero ai danni dei bizantini. Proprio da loro comunque, per fare un lavoro che se pur relegato nelle poche righe di un articolo risulti il più completo possibile, dobbiamo partire per spiegare quelle che sono le mire più coerenti di Ankara riguardo la attuale strutturazione dei rapporti internazionali.

Diciamo questo perché, se si deve individuare uno strumento ideologico che più di ogni altro sta aiutando l’attuale amministrazione turca nel raggiungimento degli obbiettivi a medio lungo termine, non possiamo non parlare del panturanesimo.

Nato nel XIX secolo in seno all’impero asburgico, e più precisamente in Germania ed Ungheria, oltre che ovviamente alla Turchia, questa ideologia ha percorso uno sviluppo che pone sempre al centro della riflessione la comunanza di interessi, fondata sul comune retaggio, rifacentesi al mito fondativo delle popolazioni turaniche tra tutte quelle nazioni che orbitano storicamente attorno alla politica secolare ottomana.

Questa concezione ha scoperto una nuova vita dopo la caduta dell’Unione Sovietica. Come prima accennato, la ridefinizione dei rapporti di forza e delle legature politiche che vedevano come attore principale Mosca ha dato la occasione ai fautori di questa ideologia di riproporla al centro del dibattito politico di tutti quei paesi che ne sono storicamente coinvolti.

Come si può facilmente notare, alla luce delle varie definizioni di campo che stanno avvenendo oggi nel globo, questa concezione, nata con un forte sentimento antirusso, dovuto alle storiche tensioni che, in materia di politiche di potenza ed interessi strategici, hanno da secoli visto contrapporsi la Russia e la Turchia, nelle loro varie conformazioni politiche, in più teatri, viene ora immessa nel quadro degli attuali rapporti di forza in maniera mediata.

Ma come avremo modo di vedere, la strategia sul lungo periodo di questo filone politico, punta a togliere sempre più zone di influenza e potere contrattuale a Mosca, pur rimanendo in rapporti non eccessivamente tesi, inizialmente, col Cremlino, segno di una determinata condotta tattica disinvolta, ma ben consapevole del gioco di spinte di cui può avvantaggiarsi in una situazione di scontro internazionale sempre più critico fra pesi massimi strategici quali gli Stati Uniti e la Nato da una parte e il blocco sino russo che va formandosi dall’altra.

In definitiva il neo-ottomanesimo si propone di formare un terzo blocco che riesca a mediare tra interessi divergenti per avvantaggiarsene ed acquistare di conseguenza peso economico militare, per via anche del posizionamento geografico della area interessata dal dislocamento storico dei popoli turcofoni.

Da marxisti però, questo non basta. Dobbiamo quindi andare a vedere quelle che sono le implementazioni materiali di questa visione, quali sono le direttrici di interessi che ne sottendono l’esistenza politica in virtù dei contesti che ne fanno da teatro. Dobbiamo in poche parole immergerci nella storia di queste relazioni, per capirne il processo senza accontentarci di una sola istantanea.

LA RINASCITA DEL PANTURANESIMO DA OZAL AD ERDOGAN

Le radici dell’ottomanesimo affondano nel bel mezzo del XIX secolo e fanno capo alla volontà delle cerchie di potere più propriamente attaccate al palazzo del Topkapi di riformare la strutturazione di quello che al tempo era uno dei grandi malati della scena internazionale.

Impregnato da questa necessità, legata ad una ridefinizione del concetto di cittadinanza all’interno dell’impero che tenesse comunque conto delle novità che arrivavano dall’Europa, questo movimento – che si sviluppò in almeno tre fasi – si rivelò impotente di fronte alle contraddizioni sociali che le novità europee quali il costituzionalismo portarono in seno alla Anatolia e al bacino Medio orientale.

Questo movimento però risulto fruttuoso allorquando la Turchia, un secolo dopo quelle vicende storiche, si ritrovò di fronte a nuove necessità, date dal mutato contesto politico generale, che vedevano le concezioni kemaliste insufficienti, agli occhi della borghesia turca, nel formulare una visione politica di ampio respiro, che potesse mantenere alti gli interessi di questa classe, sia nell’ordine interno, relativo alle questioni sociali dovute dalle ricadute economiche della crisi dell’inizio degli anni ‘70 ed esterne, che attraverso alle varie tensioni mediorientali, avevano contemporaneamente prodotto flussi migratori verso l’Anatolia e la relativa occasione di poter avvantaggiarsene in termini di politica estera.

Il primo ad accorgersene fu Ozal che, grazie al suo partito della “madre patria”, di chiaro stampo conservatore moderato islamico e neoliberista, fu il primo a fondare questa visione in materia di politica estera che andiamo ora ad analizzare.

Storia interessante quella dell’economista turco, chiamato dalla giunta militare che prese il potere con il golpe del 1980, per “risanare” l’economia del paese.

Negli anni di governo, come primo ministro prima e come presidente poi, Ozal, come detto, inizia a sviluppare le linee principali da cui prenderà le mosse anche l’attuale politica di Ankara.

Grazie a lui vediamo un progressivo avvicinamento alla occidente, sia in materia economica interna che strategica, un cambiamento dell’atteggiamento nei confronti delle questioni mediorientali, ed un interessamento progressivo alla questione centro asiatica, invogliata, al tempo, dai gruppi di pressione atlantisti.

Basti pensare che, alla notizia della formazione delle repubbliche centro asiatiche in conseguenza alla dissoluzione dell’Unione sovietica, Ozal salutò l’evento come l’avvento di un “nuovo secolo turcomanno”. Dichiarazione indicativa, in termini storici, ai fini della nostra ricerca.

Nell’opinione pubblica turca, la vittoria dell’AKP nel 2002 viene considerata come uno spartiacque politico. In un certo qual modo questo è vero, nel senso che, affermandosi un partito islamista liberale, le legature kemaliste e le loro relative dottrine di politica estera subiscono un colpo degno di nota.

Ma da un altro punto di vista la commistione tra nazionalismo turco lavato dal laicismo kemalista e islamismo moderato da una parte, e soprattutto il fatto che dietro all’AKP giace il supporto sociale della borghesia islamica anatolica, rimpolpata dalle politiche che per primo Ozal mise in campo nella politica turca, denotano una continuità di interessi che fa da pietra angolare alla conduzione in materia di politica estera che stiamo per esaminare.

Questo veloce cenno storico, che non possiamo approfondire in questa sede, è quindi propedeutico per inquadrare al meglio le tappe che Ankara ha percorso, in particolar modo nell’ultimo decennio, in materia di politica estera, soprattutto quando questa si è rivolta più propriamente ad est e specificatamente nel Caucaso e nell’Asia centrale.

EGEMONIA CULTURALE E INTERESSI REGIONALI: IL CONSIGLIO TURCO

Gli strumenti che esprimono materialmente questa linea di condotta in politica internazionale sono molteplici. Partiamo dal Consiglio turco, organo che ha avuto un’ideazione che fonda le sue radici all’inizio degli anni ’90 e che ha visto la sua fondazione nel 2009.

La prima spinta alla formazione di questo consiglio è arrivata dal Kazakistan e dal suo presidente del tempo, Nazarbayev. Questa prima proposizione da parte kazaka, ha delle ragioni tattiche dovute al contesto internazionale del tempo.

Da una parte, un paese del centro dell’Asia importante come il Kazakistan (particolarmente rilevante nella regione date le sue riserve energetiche e le sue dimensioni) rimaneva in “attesa” di sponde differenti in tema di politica internazionale per diversificare il proprio portfolio clienti e dare spinta all’industrializzazione, con chiare visioni orientate ad un incremento dell’export; e dall’altra Istanbul, che al tempo volgeva più il suo impegno nell’integrazione all’area europea, obiettivo inizialmente principale di quel filone politico sociale che abbiamo descritto velocemente in precedenza, rimaneva comunque vigile sul “fronte” centro asiatico, data l’importanza strategica rappresentata dalla zona per ogni progetto commerciale.

Nel 2009 si arriva quindi all’atto fondativo del Consiglio turco che grazie all’accordo di Nakhchivan riunisce inizialmente Turchia, Kazakistan, Azerbaigian e Kirghizistan. Questo accordo in realtà è il frutto del lavoro diplomatico iniziato dopo il crollò dell’Unione Sovietica da parte della Turchia, in cerca di una profondità strategica che potesse garantirgli un più ampio spazio di manovra.

Questo passaggio comunque segna un cambio qualitativo in questo genere di rapporti, poiché se è pur vero che determinati consigli (come la Turkic Academy con sede in Kazakistan fondata nel 1992 e l’assemblea parlamentare dei paesi turcofoni fondata nel 1998) erano già attivi in precedenza, la firma di questo accordo determina una visione strategica di medio lungo termine ben più coesa fra gli aderenti.

Non a caso infatti il consiglio non ha determinato la soppressione degli organismi precedentemente fondati a cui abbiamo fatto accenno, ma ne ha decretato una posizione predominante e direttiva all’interno di un quadro strategicamente organico.

Comunque sia il Consiglio turco, in questi anni, ha visto vari paesi interessati ad una collaborazione ed a una maggiore inclusione. Basti pensare che nel 2018 l’Uzbekistan entra a fare parte stabilmente del consiglio, che l’Ungheria, sempre nello stesso anno richiede la partecipazione come osservatore, cosa che accade anche nel 2020 con l’Ucraina e nel maggio 2021 per l’Afghanistan.

Le ragioni sono molteplici.

Sicuramente l’importanza strategica di questo progetto, relativa sia alle risorse ad esso collegate sia alla posizione geografica di intersezione tra grandi poli di potere, offre ai richiedenti una sponda ulteriore per allargare i propri partner internazionali.

L’Uzbekistan interessato ad allargare la sua clientela monopolizzata da Russia e Cina, l’Ungheria di Orban attenta ad aprirsi verso est, l’Ucraina maidanista vogliosa di intessere ulteriori rapporti con Ankara dopo la chiusura dei primi affari in ambito militare.

Ma come funziona il Consiglio turco?

Quest’organismo è formato da un comitato degli alti funzionari e da tre consigli: quello degli anziani, quello dei ministri degli esteri e quello dei capi di stato. Quest’ultimo è l’Organo decisionale per eccellenza del consiglio la cui presidenza annuale è assegnata, a rotazione e secondo l’ordine alfabetico, a ciascun Paese membro.

Come accennato precedentemente, e come si può notare dalla sua struttura, il Consiglio turco rappresenta un organo molto importante nell’ambito della politica internazionale. A questo punto però urge una riflessione. La storia insegna che, se guardiamo la cartina geografica delle zone, e teniamo conto del quadro che si sta delineando, questo strumento collide con almeno due grandi progetti.

Il primo è la Belt and Road Initiative. Questo perché l’influenza turca nel centro dell’Asia, e in particolar modo la sua più stretta partnership con il Kazakistan fa affiorare preoccupazioni relativi all’ambito energetico da parte di Pechino, che con il Kazakistan ha sempre tentato di mantenere un rapporto stretto e anche qualche preoccupazione relativa all’implementazione dei territori commerciali sui quali torneremo meglio tra qualche riga.

Il secondo progetto fa riferimento a quegli strumenti che la Russia sta mettendo in campo per garantirsi un’influenza più salda nella zona, giocando fondamentalmente sulle direttrici che erano in essere durante l’unione sovietica (UEE).

Non può fare piacere quindi, a Mosca, una sempre più attiva presenza turca nell’Asia centrale (guarda caso soprattutto in Kazakistan), una zona che il Cremlino ha sempre considerato il suo “ventre molle” e nel quale ha sempre perseguito una strategia di progressivo rafforzamento.

In realtà questi temi inerenti ai pruriti tra Turchia e Russia, affondano le loro radici nella storia degli ultimi secoli, e nonostante le condotte accorte che i due paesi hanno avuto reciprocamente negli ultimi anni, certe visioni sembrano comunque destinate a collidere.

Ne abbiamo avuto un assaggio, per fare un esempio, lo scorso anno, nel caso Nagorno Karabakh, situazioni in cui, tra l’altro, le deliberazioni del Consiglio turco hanno avuto un certo peso dato dal fatto che due dei tre contendenti sono membri fondatori.

Un altro esempio, questa volta relativo alla più stretta attualità ha a che fare con il lavoro di avvicinamento diplomatico tra Turchia e Kirghizistan.

I turchi hanno già dato la disponibilità a partecipare economicamente in maniera più attiva nello stato centro asiatico, sia per quanto riguarda i rapporti commerciali industriali sia per quanto riguardo le forniture militari.

Avevamo già visto un accenno di questo ulteriore avvicinamento quando quest’anno Ankara prese una posizione filo kirghisa nell’affare che vide alcuni scontri di confine tra il paese centro asiatico e il Tagikistan. Ankara comunque ha già predisposto la fornitura dei droni Bayraktari che servirebbero ai kirghisi per monitorare anche la situazione nelle zone di confine con l’Afghanistan.

Questa collaborazione infastidisce Mosca, principalmente per le ragioni prima elencate. Il Cremlino (e, per quanto riguarda il Kirghizistan anche Pechino, preoccupata per le pressioni potenziali che potrebbero concretizzarsi in direzione Xingjiang) rimane preoccupato per l’azione di qualsiasi attore strategicamente ostile o ambiguo nel suo spazio ex sovietico, figurarsi poi se questo sta già apertamente implementando visioni strategiche organiche con i paesi di quella zona.

Non che le strategie degli aderenti al consiglio siano già tutte livellate sulle stesse posizioni. Il Kazakistan ad esempio rimane cauto, al momento, su una più salda unione turca egemonicamente dominata da Ankara come annunciato nei desiderata di Erdogan. È chiaro però che le dinamiche interne ed esterne di questi stati sembrano spingere verso questa direzione.

Non sottovalutiamo comunque quella che è l’opera di formazione dei quadri propugnata dai Turchi negli ultimi 30 anni.

Questa direttrice si è rivelata molto fruttuosa non solo per quei paesi che già sono coinvolti nel Consiglio turco, e che avevano come peculiarità, per quanto riguarda la formazione delle generazioni dirigenziali future, quella di un egemonia filo russa a cui questi paesi, in cerca di risposte alternative, trovarono nella sponda turca una buona opportunità di diversificazione, ma anche per quelli, come il Turkmenistan, che vogliono più apertamente perseguire strategie equidistanti.

Il Turkmenistan infatti inizialmente non vide di buon occhio né la fondazione di università panturaniche né di televisioni in lingua turca sul suo suolo.

Nonostante questo però la perseveranza con cui, organicamente, le fondazioni più legate al consiglio turco hanno operato nel corso degli anni (e anche prima dell’istituzione del consiglio) hanno prodotto una situazione in cui, anche in paesi non ancora coinvolti in queste strutturazioni istituzionali transnazionali, queste legature formative iniziano ad avere un peso.

Sembra di rivedere la vecchia strategia che i neoliberisti perseguirono dopo i 30 gloriosi in occidente per egemonizzare culturalmente le università borghesi del primo mondo.

LE ROTTE INFRASTRUTTURALI DI ANKARA: MIDDLE CORRIDOR E LAPISLAZZULI

Frutto di questo operare a livello di formazione dei quadri anche in paesi non immediatamente legati alle strategie panturaniche sono le implementazioni infrastrutturali propugnate da Ankara come il middle corridor o corridoio transcaspico.


Qui vediamo meglio quelli che sono gli obiettivi a lungo termine di questo filone strategico della politica turca. Come scritto in un prospetto di presentazione del ministero degli esteri turco: “L’iniziativa per il corridoio transcaspico est-ovest-medio, denominata in breve ‘Il corridoio di mezzo’, che inizia in Turchia e attraversa la regione del Caucaso attraverso la Georgia, l’Azerbaigian, attraversa il Mar Caspio, attraversa l’Asia centrale e raggiunge la Cina, è una delle componenti più importante degli sforzi per far rivivere l’antica Via della Seta.

Passa per ferrovia e su strada rispettivamente attraverso la Georgia, l’Azerbaigian e il Mar Caspio (attraversando il corridoio di transito del Caspio) e raggiunge la Cina seguendo la rotta Turkmenistan-Uzbekistan-Kirghizistan o Kazakistan.“


Seguendo le direttrici storiche svolte precedentemente notiamo come questo progetto si inserisca in almeno 2 punti nodali dei corridoi e delle sfere di competenza russe e cinesi e come inoltre tenti coerentemente di inserirsi nel progetto senz’ombra di dubbio di più largo respiro, la BRI cinese, in posizione di accrescimento di potere contrattuale, dovuta anche dalla appartenenza turca alle legature atlantiche attraverso l’adesione alla NATO che avevano prodotto una mediazione ulteriore ad esempio in Afghanistan (ricordiamo en passant il vaso aeroporti di Kabul).

Questo gioco di sponda, dove Ankara si muove, a volte forzando, tra spinte e contro spinte, deve aver dato i suoi frutti, tanto che altri attori di primo piano a livello internazionale come Stati Uniti e Russia, hanno avuto modo più volte negli ultimi anni, di avvertire a volte e di prendere accordi altre con Ankara per giocare tatticamente nei vari teatri legati alle contingenze e spuntarla sui diretti competitor.

La questione middle corridor ha soprattutto una rilevanza fondamentale, in termini materiali, riguardo i corridoi energetici e commerciali relativi alla zona che dal centro dell’Asia arriva all’Europa.

In sé, quindi, questa parte di progetto infrastrutturale, pone competizione al corridoio sino russo situato più a nord, che raggiunge l’Europa attraverso i paesi dell’Est, ponendo le rotte terrestri alternative in una posizione più meridionale, passando cioè via Kazakistan virando verso Azerbaigian e Georgia, tagliando da nord il mar Caspio (collegamento Aktau Baku). Da questa parte, come si può facilmente intuire, la frizione maggiore è relativa al rapporto con la Russia, mentre la Cina ha trovato modo di cooperare a questo corridoio.

Ma questo progetto è integrato con un altro vettore importante ai fini strategico complessivi turchi prima esposti, cioè il corridoio lapislazzuli. Questo progetto lega il centro dell’Asia alle rotte più occidentali, passando sempre attraverso il mar Caspio, stavolta tagliandolo più a sud (rotta Turkmenbashi-Baku) partendo dalla Afghanistan e passando per il Turkmenistan. Questa rotta è quello più influenzata dai corridoi logistici aperti dagli statunitensi in collaborazione coi turchi durante le stagioni di impegno militare diretto che Washington ha perseguito nella zona e quelle su cui Pechino rimane molto più prudente e guardinga.


CONCLUSIONI

Per concludere, la strategia di lungo termine turca, che pone l’ideologia panturanica e neo ottomana come direzione principale, ha lavorato a rapporti inerenti alla cultura e alla formazione dei quadri prima, cioè in un contesto dove Ankara tentava più organicamente di inserirsi nell’alveo territoriale dell’Unione europea ad ovest, mantenendo però una legatura sempre più forte ad est, garantendosi così una diversificazione iniziale di sponde in materia di direttrici geografiche in politica internazionale, implementando poi legami materiali sempre più stretti verso l’Asia dei quali l’istituzione Consiglio turco risulta essere una sorta di primo step importante per imporre una tendenza alla omogeneizzazione delle visioni internazionali dei paesi coinvolti.

Le suggestioni erdoganiane sull’unione turca registrano inoltre quel processo di autonomizzazione intrinseco al panturanesimo guidato da Ankara, e dovuto agli smottamenti di potere che le batoste “terrestri” statunitensi e l’implemento dei sistemi produttivi e commerciali cinesi hanno prodotto, facendo nascere uno spazio politico economico e militare che la Turchia ha sempre più intenzione di riempire in tandem coi paesi a cui si è sempre più legata in questi anni.

Se contiamo poi quelle che sono le legature che Ankara, ha sviluppato col Qatar e che hanno proiezioni sul bacino del mediterraneo, sorta di hub finale di questi corridoi asiatici, viene naturale considerare il peso della Turchia sempre più rilevante. Come spesso è accaduto anche in passato, quando le rotte commerciali trovano ad est i poli più attrattivi, le forze che presidiano le zone di allaccio con l’ovest diventano attori con cui non si può fare a meno di fare i conti.

Fonte

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