L’accordo per le forniture del gas russo alla Serbia, che doveva scadere il prossimo 31 dicembre, è stato prorogato di altri sei mesi: quelli invernali, i più critici, e al prezzo d’eccezione di 270 dollari per 1.000 mc di gas.
Questo, quando il prezzo medio praticato nelle transazioni internazionali si avvicina ai 1.000 euro (varia da 650 a 1.200 euro; fa eccezione la Bielorussia, cui Mosca applica un prezzo di favore di 127 dollari).
Duecentosettanta dollari è il prezzo che Vladimir Putin ha accordato a Aleksandar Vučić a conclusione dell’incontro a Soči, lo scorso 25 novembre. Pare che nel pacchetto dell’accordo rientri anche una partita di lanciarazzi anticarro “Kornet”, ma Vučić assicura che Belgrado ha deciso di acquistarli indipendentemente dall’accordo sul gas.
Il tutto, condito con l’augurio del presidente russo al presidente serbo di essere riconfermato nella carica, alle presidenziali dell’aprile 2022.
Viste le difficoltà del paese, Vučić cercava di spuntare un prezzo di 500 dollari (le trattative erano iniziate un mese fa partendo da 790 dollari) almeno fino alla primavera prossima, mentre si è visto non solo accordare, ma quasi dimezzare il costo, portando a casa un risparmio complessivo di circa 1 miliardo di euro.
Senza entrare nei dettagli dell’accordo e del come tale prezzo del gas sia legato a quello del petrolio, è il caso però di fare alcune considerazioni di contorno.
Una, riguarda il via dato lo scorso 1 gennaio ai 400 km del tratto serbo del “Balkanskij potok” (Balcan stream), una delle due diramazioni del “Turkish stream” che, dalla Turchia, arriva in Bulgaria, Serbia e Ungheria, con una portata di circa 14 miliardi mc l’anno. Serve anch’esso, in qualche misura, ad aggirare in parte il “passante” ucraino e, soprattutto, a compensare un po’ la sospensione dell’avvio del “North stream 2” verso la Germania.
Ma, oltre a questo, come è che Mosca applica un prezzo così vantaggioso a un paese in continua altalena tra est e ovest e, soprattutto, augura la rielezione a un Presidente che, in patria, è inviso non solo alle élite liberali pro-occidentali, ma anche all’opposizione nazionalista-patriottica, che guarda proprio a Mosca quale baluardo per la difesa dalle influenze occidentali, e accusa Vučić di svendere gli interessi serbi a UE e USA sulla questione di Kosovo e Metohija?
Si tratta solo della tradizionale “fratellanza slava e ortodossa”, di cui pure, oggi, è difficile scorgere significativi momenti?
Sembrano passati i tempi in cui, come una trentina d’anni fa, partivano dalla Russia migliaia di volontari per andare a difendere i “Fratelli serbi”.
Non si può però dimenticare che Vučić, pur avvezzo a passare spesso “da una sedia all’altra”, con l’accordo sul gas sta andando contro alle principali pretese (alcune delle quali da lui stesso sottoscritte: ad esempio, proprio quelle riguardanti l’energia e le armi russe) di Washington e Bruxelles.
Per dire: l’accordo di “Normalizzazione economica” firmato a settembre 2020, a Washington, tra Belgrado e Priština, con la mediazione di Donald Trump, prevedeva, tra l’altro, la realizzazione di un’autostrada e collegamenti ferroviari diretti tra le città, l’adesione del Kosovo alla “mini-Schengen” del 2019 tra Serbia, Albania e Macedonia del Nord, l’impegno della Serbia a spostare la propria ambasciata in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme, ecc.
Ma, soprattutto, Belgrado si impegnava a non “cadere nella dipendenza energetica dalla Russia e tecnologica dalla Cina” e a consentire l’apertura di una rappresentanza della International Development Finance Corporation in Serbia.
Non si può dimenticare che Bruxelles e Washington, se non lesinano gli sforzi per far breccia tra quella stragrande maggioranza di serbi che guardano a Mosca (come diceva già Dostoevskij, ci sono due “Serbie”, una degli strati superiori, anti-russa, e una Serbia popolare, che considera i russi salvatori e fratelli), poi però non possono rinunciare agli obiettivi più direttamente “operativi” e strategici. E, in questi, la questione kosovara è più che mai all’ordine del giorno.
Se Vučić freme per aderire alla UE, da Bruxelles gli oppongono che prima di tutto debba rinunciare a considerare Kosovo e Metohija quale regione autonoma serba – quale in effetti è, anche in base alla risoluzione 1244 ONU, che parla dell’integrità territoriale della Serbia.
Ma, d’altra parte, a ovest si deve fare il possibile perché Belgrado non si avvicini troppo a Mosca e Pechino. E cosa si fa? Non bastasse “Camp Bondsteel” in Kosovo – la cui realizzazione iniziò subito dopo la fine dei bombardamenti del 1999 e che era allora considerata la più grande base yankee dalla guerra in VietNam – che consente agli USA di controllare il corridoio Nord-Sud, cioè il commercio tra Europa, Turchia, Medio Oriente e Asia minore, ora, con l’evidente via libera di Washington, poco distante dalla parte serba di Mitrovitsa, ecco che Priština realizza la più grande base dell’esercito kosovaro, destinata a ospitare “specialisti” anglo-americani e apparecchiature per contromisure elettroniche.
Di più: già dal 2017, il Pentagono sta mettendo a punto un nuovo servizio di supporto tecnico di intelligence per le forze yankee nei Balcani ed Europa orientale; a partire da Germania, Italia e Kosovo, tali “specialisti” operano in Polonia, Romania, Bulgaria, Paesi baltici e Kosovo, appunto.
Sembra più che naturale che a Mosca, se si scorge la minima possibilità di inserirsi con maggior peso in un’area in cui USA e UE non nascondono di volerla fare da padroni, colga l’occasione.
In questo caso, forse puntando anche proprio a quel 85% di popolazione serba che guarda a Mosca e che, confermando un instabile Vučić nella carica, gli sia “riconoscente” per aver assicurato un inverno al caldo e lo spinga quindi a spostare un po’ il timone verso nordest e, pur nella sua smania di essere ammesso al tavolo europeista, a dimostrarsi più deciso nei confronti dell’ovest.
Non come, ad esempio, un paio di mesi fa, quando era scoppiata l’ennesima crisi di “confine” tra Belgrado e Priština, congelata con la “mediazione" di NATO e KFOR. In quell’occasione, come accaduto anche in precedenza, forze speciali kosovare avevano occupato l’intera area settentrionale di Kosovo e Metohija, contravvenendo agli accordi di Bruxelles del 2013, che prevedevano la creazione in Kosovo di una Comunità dei comuni serbi, quale organismo di autogoverno dei serbi che vivono in questa provincia autonoma della Serbia.
Commentando quegli avvenimenti, il nazionalista serbo Mlađan Đorđević, originario del Kosovo, aveva scritto che «la Serbia negli ultimi otto anni ha dato ai separatisti praticamente tutto ciò che poteva – ha accettato di trasferire loro il proprio sistema giudiziario, sistemi di sicurezza, approvvigionamento energetico, telecomunicazioni, ecc. – senza ricevere in cambio nemmeno un ente non governativo, quale in sostanza sarebbe la Comunità dei Comuni serbi».
Firmando gli accordi di Bruxelles, affermava Đorđević, Vučić ha «ufficialmente distrutto tutti gli elementi dello stato serbo in Kosovo e Metohija: sono stati sciolti difesa civile, amministrazione statale, ufficio del pubblico ministero e magistratura», costretti a prestare giuramento «davanti alla “costituzione” e ai simboli del cosiddetto Kosovo».
Poi, quasi in contemporanea con le uscite del primo ministro albanese Edi Rama, che ribadiva l’intenzione di unire il Kosovo all’Albania, nuovi scontri si erano verificati in ottobre a Mitrovitsa settentrionale (la parte della città a maggioranza serba, sede di tutte le istituzioni serbe in Kosovo, riconosciute da Belgrado ma non da Priština) e a Zvečan, quando la polizia kosovara aveva lanciato lacrimogeni e bombe assordanti contro residenti serbi di Mitrovitsa nord, riunitisi per protestare contro un’operazione condotta dalla polizia kosovara.
Anche in quell’occasione, Vučić si era limitato a ordinare alle forze armate di innalzare il livello di allerta, ma non aveva agito in alcun modo. Di nuovo nei giorni scorsi, si sono ripetute provocazioni contro esponenti serbi nei pressi di Gjilan, nel sud del Kosovo.
Ancora Mlađan Đorđević, dopo Vučić si era incontrato in estate col Primo ministro del Kosovo, Albin Kurti, per continuare, sotto egida UE, i negoziati per la firma del cosiddetto “accordo giuridicamente vincolante”, in base al quale Belgrado riconosce di fatto l’indipendenza del Kosovo e gli assegna un seggio all’ONU, constatava come continuino ad aumentare in Kosovo gli attacchi alla comunità serba, con bastonature, molestie, con politici e organizzazioni albanesi che minacciano in ogni modo i serbi per costringerli ad andarsene.
Tutto questo, scriveva Đorđević «ricorda il pogrom del marzo 2004, quando folle organizzate di albanesi kosovari attaccarono gli insediamenti serbi in Kosovo e Metohija, espulsero migliaia di serbi, ne uccisero 11, bruciando case, chiese e monasteri. Oggi, l’escalation di violenza contro i serbi in Kosovo e Metohija coincide con l’ascesa al potere di Albin Kurti, leader del movimento “Autodeterminazione”, presentato da Berlino come progressista e di sinistra, in realtà ultranazionalista, che sostiene la creazione di una “Grande Albania”».
Ora, è più che dubbio che le stesse Bruxelles e Washington diano il via libera a Tirana. Ma, in ogni caso, in questo quadro complessivo di rapporti tra Belgrado, Priština e l’“Occidente collettivo”, il “regalo” fatto da Putin a Vučić non ha nulla di sorprendente.
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