C’è una domanda che continuiamo a porci, incessantemente, da qualche mese: la crisi è davvero alle spalle? Certo, nel 2021 le cose stanno andando un po’ meglio, poiché l’epidemia, grazie soprattutto alla campagna vaccinale, si attesta su numeri molto più bassi rispetto a quelli dello scorso anno. Di conseguenza, il mancato ricorso a misure draconiane per contenere i contagi, quali i famigerati lockdown, ha fatto sì che l’economia abbia tirato qualche boccata d’ossigeno. Tuttavia, a ben guardare gli ultimi dati sulla disoccupazione, la povertà, la disuguaglianza e lo sfruttamento, dovremmo dare, oltre ogni ragionevole dubbio, una risposta negativa alla domanda di apertura: la crisi è tutt’altro che finita, e le politiche messe in campo da Governi e Unione Europea si sono rivelate largamente insufficienti a fronteggiare un anno e mezzo di emergenza sanitaria, economica e sociale.
Nonostante ciò, dalle pagine de La Stampa ha recentemente fatto capolino un contributo di Carlo Cottarelli, personaggio che è spesso apparso sulle pagine di questo blog, purtroppo non per prendersi i nostri applausi. C’è un aspetto dell’attuale situazione economica che preoccupa il nostro: un aumento troppo sostenuto dei prezzi. Il tema non può che essere caro, e altrettanto preoccupante, anche per il nostro universo di riferimento. Sono molte le categorie che hanno ben ragione di preoccuparsi del carovita: lavoratori (precari e non) con salari da fame, pensionati che percepiscono mensilità indecorose, disoccupati che non sanno come sbarcare il lunario perché non hanno un reddito, e più in generale tutti coloro che si trovano in una condizione economica non agiata, sono tutti soggetti che vedono nell’aumento dei prezzi una dolorosa perdita di potere d’acquisto – e quindi di consumo e di benessere. Se, ad esempio, il nostro salario da un mese a quello successivo resta fermo a 1000 euro, ma allo stesso tempo i prezzi crescono del 10%, gioco forza con quei mille euro potremmo comprare meno beni e servizi, andare una volta in meno dal barbiere, fare una lavatrice in meno, e via di seguito. Per farla semplice, i 1000 euro del nuovo mese varrebbero circa quanto 900 euro del mese precedente. Se, invece, all’aumentare dei prezzi crescesse proporzionalmente anche il nostro salario – passando, seguendo l’esempio di cui sopra, a 1100 euro – non avvertiremmo nessuna perdita nel nostro potere d’acquisto, e potremmo acquistare la stessa quantità di beni e servizi che potevamo comprare il mese precedente con 1000 euro. Peccato che la dinamica dei salari e quella dei prezzi non siano ‘legate’ da nessuna regola d’oro, ragion per cui un aumento dei prezzi (la famigerata inflazione) finisce per creare inquietudine in molti di noi.
Indice dei prezzi al consumo in Italia (dati mensili, 2015 = 100). Fonte: OCSE.
In effetti, negli ultimi mesi abbiamo registrato una discreta crescita dei prezzi. Ad ottobre, i prezzi sono cresciuti, in media, del 3% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Tale crescita, tuttavia, non fa seguito ad una caduta dei prezzi registrata nei mesi più duri della pandemia: come si può notare dal grafico, tra il 2018 e il 2020 i prezzi sono stati tendenzialmente stabili, per poi iniziare a salire a inizio del 2021.
L’inflazione è stata in larga parte trainata dall’aumento dei prezzi dei beni energetici: se non considerassimo tali articoli, la crescita dei prezzi dell’ultimo anno non si attesterebbe al 3%, bensì ad un più modesto 0,8% (quella che viene chiamata inflazione core). Tuttavia, per quanto si possa pensare che il costo dell’energia non sia così importante nella vita di tutti noi in quanto compriamo solo quella necessaria ad uso domestico, o la benzina per l’auto, si tratta di una componente assai importante nel nostro bilancio in quanto, a cascata, gli aumenti dei prezzi dei beni energetici si trasferiscono sui nostri acquisti di ogni giorno: se, ad esempio, le imprese che producono beni alimentari devono sostenere costi più elevati per acquistare l’energia necessaria a far funzionare i loro impianti, venderanno i generi alimentari ad un prezzo più alto. Va da sé che un aumento del prezzo dei combustibili – come quello registrato negli ultimi mesi – finisce per scaricarsi in larga parte sulle spalle dei consumatori finali. A fronte di salari stagnanti (o in molti casi azzerati a causa della crisi pandemica), le fasce meno abbienti della popolazione vedono quindi diminuire drammaticamente il loro potere d’acquisto e sono spesso costrette a ricorrere ai loro esigui risparmi per fronteggiare le spese quotidiane. Ecco che un fenomeno come l’inflazione, in assenza di adeguate politiche volte a tutelare il potere d’acquisto dei salari, può rappresentare un serio problema.
Potrebbe sembrare, dunque, che per una volta siamo d’accordo con Cottarelli, il cui messaggio può essere sintetizzato come segue: l’inflazione è un male, e pertanto occorre frenare questa ripresa dell’inflazione. Purtroppo, anche stavolta non è così. Quello su cui occorre ragionare sono le ricette, le soluzioni proposte da Cottarelli, alfiere del pensiero economico dominante, per risolvere il ‘problema’ dell’inflazione. Senza troppi giri di parole, Cottarelli asserisce che la causa principale dell’inflazione è stata l’eccessiva generosità delle politiche attuate dalle varie istituzioni nazionali ed europee per fronteggiare l’emergenza: secondo Cottarelli, per quanto si possa tener conto delle possibili strozzature sul fronte della produzione (di fatto, la macchina produttiva mondiale ha rallentato per un anno a causa del Covid), potrebbe infatti essere stata “l’abbondanza di potere d’acquisto nel mondo” e quindi l’effetto “combinato dell’azione delle politiche macroeconomiche di tutti i paesi” a far crescere i prezzi dei beni energetici e quindi l’inflazione. Un’inflazione che, nelle parole dello stesso Cottarelli, “non viene da Marte”.
Abbiamo capito bene: 144 milioni di posti di lavoro persi nel mondo (un milione solo in Italia), disuguaglianze in crescita, povertà e miseria dilaganti, una ‘ripresa’ per nulla in grado di rimediare al disastro economico e sociale della pandemia e di trent’anni di austerità, e secondo Cottarelli le politiche economiche messe in campo dai Governi e dalle Banche centrali sarebbero state troppo espansive, a tal punto da generare questa odiosa inflazione. Numeri alla mano, nulla di più tendenzioso. Viene da pensare, piuttosto, che interventi come quelli dei Cottarelli di turno servano da apripista a politiche economiche restrittive: come abbiamo già visto, nonostante gli interventi messi in campo in questi anni si stiano rivelando largamente insufficienti, il Governo italiano è già all’opera per riportare il Paese dentro le maglie più strette dell’austerità, scrivendo nero su bianco che si appresta a tagliare il deficit e la spesa sociale per i prossimi anni. Ma c’è di più: se, fino ad oggi, il ricorso all’indebitamento pubblico (figlio dei maggiori deficit fiscali per cercare di mettere una toppa alla crisi) ha potuto beneficiare dell’ombrello della Banca centrale europea (BCE) che ha garantito tassi di interesse bassi, la spinta inflattiva potrebbe mettere in guardia anche i responsabili della politica monetaria, che potrebbero rispondere con un aumento dei tassi di interesse (opzione richiamata esplicitamente da Cottarelli nel suo pezzo, e recentemente non esclusa dalla presidente della BCE). Insomma, il pretesto dell’inflazione viene agitato per ‘giustificare’ le politiche restrittive. Non v’è dubbio che i decisori della politica monetaria potrebbero sfruttare il pretesto di questo aumento dei prezzi, come hanno fatto già altre volte non appena si paventa il “rischio” che qualche governo attuasse politiche redistributive e a favore dei salari, per effettuare una nuova, ulteriore, stretta monetaria (leggasi, un aumento dei tassi di interesse). Ciò, tuttavia, non rappresenterebbe affatto una necessità tecnica, tutt’altro: una scelta del genere, anzi, confermerebbe ancora una volta il carattere reazionario e antipopolare delle istituzioni europee, BCE in testa.
Infatti, un modo per poter combattere gli effetti dell’inflazione sulle nostre tasche ci sarebbe: far sì che i salari crescano almeno in linea con i prezzi, giungendo al risultato che milioni di persone non vedano depauperato il proprio potere d’acquisto. Non vi è alcuna ragione, infatti, per ritenere che gli aumenti dei prezzi debbano scaricarsi interamente sui salari lasciando inalterati, e anzi gonfiando, i profitti. Lo Stato, anzi, potrebbe agire per porre un argine alla crescita dei profitti intervenendo nella regolamentazione delle tariffe energetiche. Si tratta, evidentemente, di una ricetta diametralmente opposta a quella paventata da Cottarelli e da chi detiene le leve della politica economica e monetaria in Italia e in Europa. La politica economica e monetaria ha in sé gli strumenti per tutelare una classe, invece che un’altra: se questi strumenti tutelino i profitti o i salari, è una questione di equilibri politici e noi sappiamo bene che quelli in cui ci muoviamo sono del tutto spostati a favore del capitale. Si tratta, altresì, di una soluzione che per qualcuno (la classe padronale e coloro che fanno gli interessi delle imprese) non può che rappresentare fumo negli occhi. Fronteggiare l’inflazione attraverso politiche restrittive, ossia riducendo la spesa pubblica e alzando i tassi di interesse, significa, in estrema analisi, tenere sotto controllo i prezzi grazie ai salari da fame, alla disoccupazione e alla precarietà: una ricetta tanto vicina ai meccanismi di funzionamento intrinseci dell’Unione europea, quanto lontana agli interessi delle classi subalterne.
Al contrario, una politica marcatamente espansiva e votata a tutelare e accrescere l’occupazione potrebbe portare anche a risultati insperati dalle classi dominanti. Una stagione di rinnovata combattività del lavoro potrebbe ottenere aumenti dei salari reali (che quindi considerano il potere d’acquisto dei lavoratori) senza determinare necessariamente una continua crescita dell’inflazione, se a ridursi fossero i profitti. Bisogna infatti pensare all’inflazione come l’emersione di un conflitto tra percettori di salario e di profitto per la divisione dell’intero prodotto nazionale. L’esito di questo conflitto non è affatto predeterminato e dunque la crescita dell’inflazione potrebbe interrompersi se i padroni fossero costretti ad accettare salari più alti. È proprio questa consapevolezza che ha ispirato le politiche deflazioniste dell’Unione europea: austerità e precariato sono serviti, camuffati anche dallo spauracchio dell’inflazione, a determinare alta disoccupazione e a indebolire i lavoratori nella contrattazione salariale.
Ecco che la vera ricetta contro il carovita non può che essere una sola: affrontare seriamente la questione salariale, che attanaglia il nostro Paese da decenni, rimettendo al centro dell’agenda politica politiche di piena e buona occupazione e un’adeguata regolamentazione dei mercati per tutelare i salari invece che i profitti. Prescrizioni in totale controtendenza rispetto alla rotta neoliberista che ha caratterizzato gli ultimi quarant’anni e i desiderata dell’attuale Governo Draghi, sempre più prono alle richieste di Confindustria.
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