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18/11/2021

La crisi al confine europeo mostra il vero volto della UE

La crisi apertasi al confine tra Bielorussia, Polonia e Lituania deve essere compresa all’interno delle dinamiche di accelerazione delle frizioni tra i diversi attori di differente taglia che vi sono coinvolti.

È un tassello di un quadro di più ampio respiro in cui si intrecciano differenti aspetti: la volontà della Russia di rispondere al suo accerchiamento da parte della NATO spalleggiando un proprio alleato, una risposta della Bielorussia ai tentativi dell’Unione Europea di delegittimarne il corso politico – a suon di sanzioni – dopo le elezioni dello scorso anno, la spinta da parte anglo-americana di forzare l’UE ad un atteggiamento più risoluto nei confronti della Federazione Russa e non da ultimo i vari contenziosi che riguardano la Polonia e l’Unione Europea su un’ampia gamma di questioni su cui Varsavia e Bruxelles non sembrano giungere ad un accordo.

Giova ricordare infatti che la Polonia, insieme agli Stati Baltici, sono i più ostili a Mosca e quelli su cui gli anglo-americani puntano di più per minare la coesione all’interno della UE.

In questo rebus, la competizione rispetto alle risorse energetiche che transitano dalla Bielorussia non è affatto secondaria, ma quello che va colto in sé non è il casus belli particolare ma il contesto di accesa competizione che lo genera, le dinamiche che sviluppa e le conseguenze nei rapporti di forza in un sistema di relazioni in cui è sempre più difficile, per gli attori in campo, governare le contraddizioni scatenate dalla crisi del modo di produzione capitalista.

In generale possiamo affermare che vi è una linea di faglia sempre più marcata che va dal Mar Baltico al Mar Nero che sarà sempre più teatro di sommovimenti, provocazioni, forzature e crisi diplomatiche per mutare gli equilibri dati, ma che per ora non sembrano cambiare radicalmente, anche se non sono da escludere precipitazioni belliche localizzate.

L’ipotesi di un conflitto armato in questa linea di faglia che si prolunga in un arco di instabilità che arriva fino all’Asia Centrale e che comprende altri attori, in primis la Turchia, è sempre latente come ci dimostrano la guerra civile ucraina e la più recente escalation bellica tra Armenia ed Azerbaijan.

Naturalmente, come in altre occasioni, in questo caso tale contesa si gioca sulla pelle di una parte di quelle popolazioni che hanno subito la guerra guerreggiata o quella economica portata avanti dall’Occidente e dal suo modello di sviluppo: Iraq, Siria, Libano in primis.

L’unica colpa di queste persone “intrappolate” nei boschi che costituiscono i confini naturali tra i tre paesi coinvolti è quella di avere perseguito un progetto di fuga da quei contesti resi sempre più invivibili anche da quegli Stati occidentali che hanno partecipato all’invasione militare, o alla destabilizzazione, dei paesi di provenienza degli immigrati.

L’Occidente non si vuole accollare alcuna responsabilità rispetto alla gestione delle sue fallimentari campagne militari, in primis riguardo ai flussi di profughi che vengono ospitati per la maggior parte dai paesi confinanti: si tratti dell’Afghanistan, dell’Iraq o della Siria.

Naturalmente questo “effetto boomerang” li tange in maniera molto ridotta, ma ha comunque fornito una arma diplomatica importante a coloro che la usano come strumento di pressione in più sulle cancellerie europee.

Vogliamo concentrare l’attenzione su un aspetto che riguarda l’ulteriore sconfitta “ideologica” dell’edificio politico dell’UE che non può più nascondere la sua propensione bellicista ed il suo processo di militarizzazione.

Innanzitutto i media nostrani faticano a relativizzare il cortocircuito, innescato dalla spregiudicata tattica bielorussa, tra la narrazione che l’UE da di sé e la realtà fattuale.

L’editoriale dell’“Avvenire” di questo martedì, a firma di Nello Scavo, coglie in pieno il profilo della fortezza Europa dove si pianta filo spinato e si alzano muri.

L’UE ha costruito un quarto dei muri eretti negli ultimi anni a livello mondiale per ciò che concerne il contenimento delle migrazioni forzate, e negli ultimi 30 anni si è dotata di oltre mille km di recinzioni in via di ampliamento. A questi si devono aggiungere i circa 500 chilometri che la Lituania ha deciso di puntellare con pali d’acciaio e filo spinato, mentre la Polonia ha preso la decisione di erigere un muro al confine bielorusso.

L’agenzia della UE Frontex, che però la Polonia ha deciso di non far intervenire con i suoi effettivi ai propri confini orientali, vedrà incrementati i suoi uomini dai 1.500 attuali a 10mila nel 2027, di cui 7mila distaccati dalle forze dell’ordine nazionali, e avrà nel bilancio un budget superiore alla maggior parte delle agenzie dell’Unione Europea: circa 5,6 miliardi di euro fino al 2027.

Tra i principali beneficiari ci saranno proprio le aziende dell’apparato militare industriale europeo e consociate, che diverranno organicamente la realizzazione di quegli auspicati campioni europei nella produzioni di beni e servizi.

Che la denuncia venga dalla prima pagina di un quotidiano cattolico, è un segnale di come oramai la pistola fumante dell’imperialismo della UE abbia sempre più difficoltà a nascondersi dietro alla retorica della pace e dell’accoglienza, e della supposta superiorità valoriale.

Ma i progetti di sicurezza ai propri confini e la proiezione della propria potenza all’esterno sembrano viaggiare a braccetto.

Infatti nel 2023 la UE darà vita alle sue prime manovre militari, come è stato rivelato dal quotidiano spagnolo “El Pais” questo lunedì, acquisendo in via confidenziale il documento che è servito da base di discussione per il confronto tra i Ministri della Difesa e dell’Estero della UE per l’orientamento geostrategico dell’Unione nel prossimo decennio.

Nel documento di 28 pagine si può leggere espressamente che “a partire dal 2023 organizzeremo in maniera regolare manovre, comprese manovre navali”. Questo è uno dei tanti obiettivi che – se il prossimo marzo verrà adottato questo documento dal Consiglio Europeo – guiderà la politica estera e la difesa della UE.

Sempre secondo questo testo, nel 2025 l’UE potrà contare su una forza d’intervento realmente operativa di 5000 militari, che potrà svolgere missioni di combattimento, e non solo di addestramento, e dal prossimo anno svolgerà manovre anche nel campo cibernetico.

In sintesi sono state messe “nero su bianco” le indicazioni emerse con forza dopo la sconfitta in Afghanistan accelerando il processo della difesa europea e di un ruolo più marcato della sua politica estera nella competizioni globale.

Come Rete dei Comunisti ciò che sta avvenendo ci appare come ulteriore conferma della necessità di una battaglia a tutto campo contro il polo imperialista europeo e la NATO, e la necessità di prefigurare l’uscita del nostro Paese dalla gabbia dell’Unione e dall’Alleanza Atlantica.

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