In questi giorni, in Russia, si è tornati a parlare della tragedia del “Kursk”, il sommergibile atomico che il 12 agosto del 2000, durante manovre della Flotta del Nord nel mar di Barents, affondò a 108 metri, trasformandosi in una bara per tutti i 118 marinai e ufficiali dell’equipaggio.
All’epoca, la versione parlò dell’esplosione di un siluro a bordo e della successiva deflagrazione dell’intero munizionamento.
Ora, l’ammiraglio Vjačeslav Popov, al comando della Flotta del Nord dal 1999 al 2001, si dice convinto che la fine del “Kursk” sia stata causata dalla collisione con un sommergibile NATO.
In un’intervista a RIA Novosti, Popov afferma di poter, con un’approssimazione del 90%, fare anche il nome di quel vascello. Secondo vari media, russi e non, al momento della tragedia incrociavano in quell’area i “Memphis” e “Toledo” della US Navy e lo “Splendid” della Royal Navy.
Il vascello NATO, sostiene Popov, stava seguendo il “Kursk” e, con ogni probabilità, si era avvicinato troppo, oppure una manovra del “Kursk” aveva ridotto la sua rumorosità, portando alla perdita di contatto. Allora il sottomarino NATO “scatta in avanti” per riagguantare il segnale e quando il “Kursk” è ricomparso e ha manovrato di nuovo, l’altro sommergibile non è stato in grado di scapolare l’ostacolo.
La collisione interessa la prora del “Kursk”, causando l’esplosione di un siluro; il sommergibile va a posarsi sul fondo ed è allora che si verifica la deflagrazione più potente, il distacco delle prime tre sezioni e la distruzione della quarta.
Ma rimase danneggiato anche il vascello NATO, e i segnali di SOS captati quel giorno provenivano da quello: colpi emessi da un apparato e «dal momento che i nostri sommergibili non dispongono di simile apparato, potevano provenire solo dall’altro vascello, che fu poi scoperto dalla nostra aviazione antisom vicino alle coste norvegesi», dice Popov.
Prima del 2000, si erano verificate altre collisioni, ma senza le tragiche conseguenze del “Kursk”. Nel febbraio 1992, sempre nel mar di Barents, il sommergibile atomico “K-276” si era scontrato con l’analogo USA “Baton Rouge” e nel 1993, il “Borisoglebsk” era stato speronato dal “Grayling”, sempre della US Navy.
Le dichiarazioni di Popov non riportano certo in vita i 118 uomini del “Kursk”, ma testimoniano della facilità con cui, parafrasando Anton Čekhov, quando c’è un’arma, prima o poi finisce sempre per sparare.
Da mesi va avanti il dramma dei profughi alla frontiera polacco-bielorussa (non a caso, proprio in un’area che da sempre la NATO considera uno dei propri punti deboli: il cosiddetto “Przesmyk suwalski”: quell’ipotetico corridoio che va dal confine bielorusso alla russa Kaliningrad, coincidente grosso modo con la frontiera polacco-lituana) e nelle ultime settimane la situazione si è fatta incandescente.
Secondo vari media russi, la crisi migratoria viene alimentata per mettere in secondo piano le avventure USA nel Pacifico, in particolare per la questione di Taiwan. Secondo Washington, la Bielorussia, agli ordini di Mosca, avrebbe scatenato la crisi per distrarre dai preparativi russi di attacco all’Ucraina.
In ogni caso, a parere del capo del Centro per gli studi globali e le relazioni internazionali dell’Accademia diplomatica del Ministero degli esteri russo, Vadim Kozjulin, tra tutti i paesi dell’Europa orientale, la Polonia è quella ad avere le maggiori probabilità di veder stanziate sul proprio territorio armi nucleari USA.
Poi, in questi giorni, il capo dell’intelligence militare ucraina, Kirill Budanov, è arrivato a dire che la Russia attaccherà a fine gennaio-inizi febbraio 2022, avendo concentrato al confine oltre 92.000 uomini. E lo dice, sulla scia sia della CBS News, secondo cui le probabilità di un attacco russo all’Ucraina aumentano con l’inizio della stagione fredda, sia del “infallibile” The New York Times.
A detta di Budanov, Mosca attaccherà da est (a occhio e croce, sarebbe stato curioso se avesse detto “da ovest”), con incursioni aeree, mezzi corazzati e artiglierie, cui seguiranno lanci di paracadutisti e attacchi in forze, puntando anche su Odessa e Mariupol; una parte delle forze russe penetrerà in Ucraina dalla Bielorussia.
Il 17 novembre, il sito del ECFR (European Council on Foreign Relations; tra i partner del ECFR Roma spiccano “Leonardo”, “Sparkle”, “UniCredit”, ecc.) riportava diligentemente il vangelo diffuso il 10 novembre dal Segretario di stato Antony Blinken, che ammoniva la Russia a non commettere il «grave errore» di intensificare la guerra contro l’Ucraina.
Vale a dire: a Washington, come a Bruxelles o a Roma, si divulga come “verità rivelata” la parabola di Mosca già in guerra con Kiev. Ecco dunque che il 23 novembre la CNN può titolare che «Gli Stati Uniti stanno valutando l’invio di ulteriori armi in Ucraina dato che aumentano i timori per una potenziale invasione russa».
Per l’appunto, proprio Kirill Budanov aveva detto che gli USA potrebbero scoraggiare l’invasione russa (che lui sembra dare per certa) fornendo a Kiev ulteriore assistenza militare e aggravando le sanzioni anti russe: «siamo convinti che gli USA debbano fornirci tutto quello che non abbiamo ricevuto sinora. E che debbano farlo immediatamente. Ora è il momento giusto, perché dopo potrebbe essere troppo tardi», ha detto, come se il mondo non fosse a conoscenza dei 25 miliardi di dollari di armamenti forniti dagli USA ai golpisti ucraini da sette anni a questa parte.
A questo proposito, RIA Novosti scrive che proprio Budanov ha dato la notizia che le truppe di Kiev hanno ora usato per la prima volta in Donbass lanciarazzi anti-carro “Javelin”, così come un mese fa, sempre “per la prima volta”, avevano impiegato un drone d’attacco “Bayraktar TB2” contro le milizie.
Che si tratti veramente di “Javelin”, forniti da tempo all’Ucraina dagli USA, o di altro, il fatto più sconcertante è che un video pubblicato su TikTok e ripreso da Donbass Insider mostra soldati ucraini che usano lanciarazzi simili al “Javelin”, ma che in realtà sono “Apilas” (Armor-Piercing Infantry Light Arm System) di produzione francese, cioè di un paese garante, insieme a Germania e Russia, degli accordi di Minsk per la “soluzione pacifica” del conflitto in Donbass. Tanto basti.
In questa situazione, il vice Segretario del Consiglio di sicurezza russo, Aleksandr Grebenkin, ha dichiarato che nelle ultime settimane si è di molto accresciuto il pericolo che Kiev ricorra a qualche provocazione armata nei pressi dei confini russi, in particolare contro la Crimea.
Per chi si fosse scordato del Donbass, basti ricordare che anche lo scorso 17 novembre le forze ucraine avevano bersagliato il rione Kirovskij, alla periferia di Donetsk, impiegando mortai da 120 mm e artiglierie da 122 mm, danneggiando diversi edifici civili, fortunatamente senza causare vittime; e il 21 novembre, ancora nella DNR, a essere colpiti sono state una fabbrica di macchinari da miniera e la caserma dei vigili del fuoco a Jasinovata.
Di fatto, da mesi USA e NATO battono in permanenza sul tasto del “dispiegamento di forze russe”, quasi a voler assordare il pubblico per celare i propri movimenti di truppe, che siano già presenti in Ucraina (forze yankee e britanniche, per esempio) o in procinto di arrivarvi.
Del tutto ovvia la constatazione del portavoce presidenziale russo Dmitrij Peskov, secondo cui a ovest, con una «isteria montata ad arte», si sta cercando di provocare la Russia, diffondendo voci su presunti piani d’attacco all’Ucraina.
Nelle ultime ore, si sono distinti in particolare Bloomberg (usato come trombone per diffondere falsificazioni, ha detto Peskov) e la solita Radio Svoboda, aggiungiamo noi.
Ora, le aree di crisi sparse per il mondo sono già troppe, dall’Africa, al Medio Oriente, al mar Nero, al Pacifico, all’Ucraina, al Caucaso, perché qualcuno brighi così alacremente per aprirne un’altra – o, perlomeno, per creare le condizioni perché il mondo vi si prepari psicologicamente – che sarebbe di ben più vaste proporzioni e ben più tristi conseguenze.
Come nel caso della tragedia del “Kursk”, a forza di “tallonare” l’avversario, si finisce prima o poi per speronarlo e non è affatto detto che siano le “ombre rosse” ad andare a fondo, mentre “i nostri” (i loro) riescano a risalire in superficie.
Come ai tempi di Giovenale, «A Delfi gli oracoli tacciono e la caligine che avvolge il futuro preme sul genere umano».
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