La riunione dei “Grandi” del Pianeta, il G20 di Roma si è svolto all’Eur, quartiere progettato negli anni trenta del secolo scorso, quando Mussolini candidò Roma per la futura esposizione universale del 1942, che avrebbe permesso di celebrare i vent’anni della marcia su Roma e proporre il “successo” del fascismo di fronte a un pubblico internazionale.
Il Palazzo dei Congressi, dove si sono svolte tutte le riunioni ufficiali, è lo stesso luogo dove, a conclusione della conferenza nazionale dei consigli generali e dei quadri di Cgil, Cisl e Uil (12-13 febbraio 1978), si decretò un cambiamento di linea, tristemente noto come la “svolta dell’EUR”, che proponeva un contenimento salariale in cambio di una politica economica che sostenesse lo sviluppo e difendesse l’occupazione.
Celiando un po’, con queste premesse, come si poteva sperare in qualcosa di positivamente decisivo?
Simbolismi a parte, di solito fra enunciare buoni propositi e realizzarli c’è di mezzo il mare; proprio in questa area grigia si annidano innumerevoli insidie che finiscono per palesarsi proprio nella fase della messa in pratica dei bei progetti promessi, quando ciò che era stato “assicurato” si rivela essere rispettato solo in parte, se non completamente disatteso e sostituito all’ultimo minuto con i soliti palliativi, se non addirittura trasformato in qualcosa di opposto.
La “svolta” dell’Eur infatti produsse altro: le parole di Luciano Lama, l’allora segretario della Cgil, suonando come l’eco di quelle già pronunciate da Giulio Andreotti “...sebbene nessuno quanto noi si renda conto della difficoltà del problema, riteniamo che le aziende, quando sia accertato il loro stato di crisi, abbiano il diritto di licenziare...” preparavano la demolizione di decenni di conquiste operaie.
I lavoratori si dovevano abituare a “stringere la cinghia”, ma si chiedeva “collaborazione”, “condivisione” per uscire dalla crisi economica. Le rinunce le faremo tutti, questa l’infame promessa.
L’introduzione torna utile per immaginare cosa era opportuno aspettarsi dall’ennesima riunione che ha finito per partorire il classico topolino dove, come sempre, è stato negli incontri “a margine”, nei cosiddetti “bilaterali”, che si sono prese le decisioni più importanti.
Quello che ne è uscito è stato un nulla di fatto, appunto, tanti “impegni” ma niente di realmente vincolante, da parte dei “grandi” del Pianeta, riguardo i temi principali in agenda.
Fare un focus sui messaggi che Joe Biden ha fatto arrivare ai suoi alleati europei – soprattutto a Francia ed Italia – con un particolare occhio di riguardo al governo Draghi, è però interessante. Se non altro perché ha toccato il tema delicato della Difesa.
I media mainstream, con tutta la carne al fuoco che c’era, fra il G20 romano ed il COP26 scozzese, come sempre hanno “dimenticato” di sottolineare con la dovuta inquietudine un paio di passaggi nei discorsi del presidente Usa.
Partiamo dall’assunto che Joe Biden ha bisogno di recuperare “autorevolezza” agli occhi del mondo e del proprio paese, pena un disastro già alle elezioni di mid term, l’anno prossimo; e a dimostrarlo sono i risultati delle elezioni locali di governatori e sindaci, quasi tutte a favore dei candidati repubblicani.
Stenta a far ripartire economicamente il suo paese causa mala gestione della pandemia (in gran parte per colpa di Trump, ma dopo un anno chi se ne ricorda?), i problemi interni al suo partito si sprecano, il paese è ancora spaccato politicamente e soprattutto culturalmente e nella politica estera ha deciso di “delegare” altri. Primo fra tutti il nostro paese.
L’Italia è uno degli Stati fondatori della NATO. Per quanto sconfitta nella seconda guerra mondiale, vi è stata ammessa fin dal principio ed ha partecipato alla sua costruzione. L’Italia partecipa all’Alleanza Atlantica anche (forse soprattutto) economicamente: contribuisce alle spese NATO per il 9,2% del totale.
Finora. Nel prossimo futuro, secondo la richiesta a stelle-e-strisce, gli impegni militari ed economici sono destinati a crescere.
I due leader, nell’incontro “a margine”, hanno ribadito lo stretto legame tra Roma e Washington sui principali dossier internazionali.
Sembra che Biden abbia preso al volo le dichiarazioni rese qualche tempo fa dal generale Vincenzo Camporini, già capo di stato maggiore della Difesa, che sottolineava la “grande opportunità” che si spalancava per l’Italia di Mario Draghi, con la Germania alle prese con il dopo Angela Merkel e la Francia attesa alle urne in primavera.
Tra Joe Biden e Mario Draghi è emersa infatti piena sintonia sulla “utilità” del progetto con l’alleanza transatlantica. Ma nel G20 di Roma abbiamo assistito anche all’affermazione di una linea italiana sulla Difesa europea.
Il presidente statunitense riconosce un ruolo al nostro paese e sottolinea l’importanza di una stretta collaborazione “dell’Unione europea con gli Stati Uniti nella regione dell’indo-pacifico”, anche sulla base della recente strategia Ue (che non è soltanto militare) e soprattutto dice che “gli Stati Uniti riconoscono l’importanza di una difesa europea più forte e più capace, che contribuisce positivamente alla sicurezza globale e transatlantica e che è complementare alla NATO”.
La piena complementarietà è d’obbligo, prima forza militare si riconferma l’Alleanza Atlantica che supervisiona sulla eventuale “difesa europea”. Viene perciò riaffermata la forza del legame transatlantico, in completa controtendenza con la vecchia amministrazione Trump; ma indiscrezioni ci dicono di una richiesta sempre più forte di presenza del nostro paese su una serie di scenari di crisi.
Quello che pensava il generale Camporini, un “Mario Draghi a capo di un nucleo di Europa unita costituito da tutti i grandi, i Paesi fondatori”, potrebbe essere un modo che eviterebbe all’Europa di restare senza possibilità alcuna di incidere nella storia.
A noi, visto come si stanno muovendo il presidente del Consiglio, in casa e fuori, ed altri paesi europei, questo preoccupa non poco.
Una forza che possa essere dispiegata in aree di crisi in tempi rapidi e probabilmente anche senza il consenso unanime di tutti gli Stati membri, secondo quanto anticipato nei giorni scorsi dall’agenzia Bloomberg, dal momento che la bozza propone una maggiore flessibilità con l’adozione della “astensione costruttiva” per consentire di non sostenere la decisione di impiegare la forza congiunta senza impedire agli altri partner di farlo, ci sembra un esercizio di equilibrismo fortemente pericoloso. Anche perché la vorrebbero operativa per il 2025.
La tabella di marcia proposta in una bozza di 19 pagine che definisce la cosiddetta “Bussola strategica”, sarà presentata formalmente a una riunione dei ministri degli esteri il prossimo15 novembre dall’alto commissario Josep Borrell.
Fonti riferiscono che “i leader dovrebbero discutere il progetto a dicembre e approvare una versione finale a marzo durante la presidenza francese dell’UE. Il presidente francese Emmanuel Macron ha reso prioritario lo sviluppo dell’autonomia strategica del blocco nella difesa. La bozza potrebbe ancora essere modificata prima di essere presentata ai ministri degli esteri”.
Nel frattempo come dimenticare che Biden deve pensare a bloccare l’avanzata economica di Pechino, e deve tenere sotto stretta osservazione la situazione nell’indo-pacifico?
Ma deve delegare necessariamente ad altri la situazione in Asia Centrale e nelle aree di crisi “classiche”: Afghanistan, Iraq, Siria ma soprattutto Libia. E il lavoro sporco deve pur farlo qualcuno.
Illazioni a parte, terrei gli occhi puntati sulla nuova dichiarazione Nato-Ue, attesa entro fine anno.
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