L’”asse euro-atlantico” mostra qualche crepa. Non sullo schieramento pro-Ucraina e contro la Russia, ma ancora più seriamente sul senso stesso di questa guerra e sulle sue conseguenze nella struttura del sistema mondiale.
Diversi osservatori, tra cui noi stessi, con orientamenti politici molto differenti, da tempo rilevano che la prosecuzione tendenzialmente infinita della guerra – inevitabile se si pone come obiettivo la “vittoria dell’Ucraina” o un cambio di regime a Mosca – metta l’Europa in una posizione impossibile.
Il Vecchio Continente, infatti, è ormai poverissimo di risorse energetiche proprie, ma ospita una poderosa struttura industriale, inevitabilmente energivora. È insomma una “economia di trasformazione” che deve importare materie prime (idrocarburi, minerali, ecc.) e tirarne fuori merci di ogni tipo (dai macchinari più complessi alle merci di lusso) da vendere sul mercato globale.
È insomma un continente che avrebbe bisogno – anche in un regime capitalistico – di una situazione di pace, senza troppe tensioni internazionali che possano mettere a rischio le importazioni e le esportazioni. Ossia ha tutto da perdere nella situazione che si è venuta a creare.
L’adozione di sanzioni su input statunitense “vieta” le importazioni dai fornitori più vicini (la Russia, per il gas e il petrolio), restringe il mercato dei clienti potenziali per i propri prodotti, alza verticalmente i costi di produzione e dunque mette in dubbio la sopravvivenza stessa di una parte rilevante del sistema industriale.
Oggi possiamo constatare che questa analisi è confermata da membri autorevoli del peggior establishment neoliberista europeo, che dopo otto mesi di guerra e inflazione galoppante indicano negli Stati Uniti un “alleato infame”, che sta usando la guerra per demolire il principale competitore all’interno dello stesso sistema neoliberista: l’Europa.
“Non possiamo accettare che il nostro partner americano venda il suo GNL a un prezzo quattro volte superiore a quello pagato dagli industriali americani“. Lo aveva detto, discretamente, Emmanuel Macron qualche giorno fa, e i media italiani si erano ben guardati dal riprendere un’affermazione che getta parecchi dubbi sulla compattezza della “santa alleanza neoliberista”. Guai a spargere il sospetto che non tutto stia filando d’amore e d’accordo…
Ora la “sofferenza” economica europea è stata certificata da tutti gli istituti di statistica, dal Fondo monetario internazionale, dalle associazioni imprenditoriali (tacciono i sindacati complici, come sempre, in attesa di ordini superiori), e dunque persino i servi obbedienti delle redazioni si sentono obbligati a riportare le parole di fuoco usate dal ministro dell’economia francese Bruno Le Maire nel corso di un dibattito all’Assemblea Nazionale a Parigi: “il conflitto in Ucraina non deve sfociare in una dominazione economica americana e in un indebolimento della UE“.
Per questa ragione – ha spiegato l’esponente del governo francese – “dobbiamo trovare rapporti economici più equilibrati tra i nostri alleati americani e il continente europeo”.
Non è il solo. Nel corso della riunione dei capi di stato e di governo della UE a Praga, la scorsa settimana, il cancelliere tedesco Olaf Scholz aveva parlato della necessità di creare un’alleanza tra UE, Giappone e Corea del Sud per evitare una corsa competitiva al rialzo con i produttori di gas alternativi alla Russia e avviare discussioni con Stati Uniti, Canada e Norvegia allo scopo di ridurre i prezzi dei nuovi contratti.
Nei primi sei mesi del 2022 gli Usa hanno consegnato all’Europa il 68% del loro export di GNL, per un totale di 39 miliardi di metri cubi di metano da rigassificare. In calo invece quello diretto verso Asia ed America Latina.
Ma non si tratta di un gesto dettato da generosità. Dopo gli aumenti fisiologici legati alla ripresa post-pandemia, in estate i prezzi sono ulteriormente aumentati, fino a sfiorare i 60 dollari per mmBtu in Europa. Che, però, negli USA è solo di 8 dollari.
Si capisce dunque che Le Maire abbia voluto essere piuttosto drastico, accusando gli Usa di vendere il loro Gnl «a un prezzo quattro volte più alto rispetto agli industriali americani».
Naturalmente non si tratta di una vera e propria rottura, visto che l’affondo è stato attenuato cercando di far capire agli Usa che «un indebolimento economico dell’Europa non è nell’interesse degli Stati Uniti».
Se si potesse ragionare solo in termini politici, Le Maire avrebbe molte ragioni. Ma siamo in un sistema capitalistico in crisi almeno da un ventennio (già prima della crisi dei mutui subprime e del fallimento di Lehamn Brothers), in palese crisi di sovrapproduzione (troppi capitali in cerca di valorizzazione, gonfiati dalla speculazione finanziaria senza un “sottostante” proporzionato).
E marxianamente dovremmo sapere che la via d’uscita "istintiva" da una situazione del genere viene cercata distruggendo il capitale in eccesso. Naturalmente questo non avviene secondo “un piano”, ma in modo disordinato e devastante. Tramite le guerre, in genere.
E infatti siamo nel pieno di una guerra mondiale, per ora concentrata nell’est europeo. Ma le conseguenze sono comunque mondiali, perché la massa di capitale da distruggere – sempre quello altrui, nelle speranze di ogni soggetto capitalistico – non ha confini insuperabili.
Se la guerra va avanti ancora a lungo il primo sistema industriale a frantumarsi sarà insomma quello europeo (anche qui in modo conflittuale e selettivo: prima i paesi più deboli, sollo alla fine Francia e Germania).
Bisogna essere proprio idioti per continuare a stare in una “alleanza” che mira a riportarti indietro di cento anni...
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