Una manifestazione per la pace e per fermare l’escalation di guerra in Ucraina sarebbe il minimo sindacale per il nostro paese, eppure si sta trasformando in una sorta di giaculatoria. Viene evocata da molti, osteggiata da tanti, preparata concretamente da pochi.
Ci sembra di capire che la “paura” delle parole e degli obiettivi della manifestazione prevalga ancora sulla paura della guerra e della sua possibile declinazione nucleare.
Assistiamo dunque a evocazioni, a qualche personalissima fuga in avanti (vedi il governatore De Luca in Campania), ad aggiustamenti e sovrapposizioni su iniziative già convocate (la manifestazione del Terzo Settore del 5 novembre), ma ancora niente che chiami la gente in piazza su un’agenda sintetica ma chiara di opposizione alla guerra, soprattutto contro il coinvolgimento e alla complicità dell’Italia nella guerra.
Il nodo in fondo è proprio questo.
Chiunque, anche chi sta facendo la guerra, si dichiara “per la pace”, ma è il come si scardina il meccanismo bellicista che mette in crisi le ambiguità.
La mobilitazione per la pace è declinabile in modi diversi perché è per ragioni diverse che la maggioranza della società italiana è contro la guerra. C’è chi è contrario per motivi politici, chi per motivi etici, alcuni lo sono per motivi economici (l’economia di guerra, le sanzioni etc., stanno mettendo sul lastrico imprese e famiglie), altri solo per una legittima paura della guerra.
Alcuni ritengono che le responsabilità siano di Putin, altri ritengono invece che la Russia abbia buone ragioni da rivendicare nei confronti della Nato e dell’Ucraina, che ne è diventata la fanteria da mandare al macello.
Come metti insieme sensibilità, esigenze e punti di vista così diversi sulla pace e lo stop ai combattimenti in Ucraina?
Il leader del M5S Conte da giorni evoca la necessità di manifestare per la pace, ma stenta a concretizzare una data perché sa di pattinare su un ghiaccio sottile.
L’establishment guerrafondaio non gli perdonerebbe mai una manifestazione di aperta opposizione alle scelte di guerra fatte in questi mesi e su cui, fino a un certo punto, c’è stata anche la firma del M5S in Parlamento. E se pesti i piedi al combinato disposto tra Nato, Ue, governo, gruppi editoriali, sai che la vita politica futura ti verrà resa un inferno.
Per affrontarli serve una forte determinazione, che non sembra essere una costante dell’attuale leader del M5S.
Poi c’è la spinta “dall’alto”, che viene dagli appelli alla pace del Pontefice e di una parte del mondo cattolico. Un incentivo potente ma sostanzialmente etico, che fa fatica a tenere testa alle brutali accuse di “complicità con Putin” del fronte guerrafondaio nelle televisioni e nei giornali, in mano ai monopoli editoriali di destra o filo PD.
Infine c’è una spinta “dal basso” molto concreta: quella di settori imprenditoriali danneggiati dalle sanzioni alla Russia e dall’economia di guerra imposta al paese dalle scelte della Ue e della Nato, rese inamovibili dal governo Draghi e probabilmente confermate dal nuovo governo della destra.
Quella che stenta a palesarsi è l’opposizione politica a tutto tondo alle scelte di guerra, e questa dovrebbe vedere protagoniste le forze della sinistra alternativa, antagonista etc. Ma anche qui l’ipoteca dell’accusa di “complicità con il nemico” (Putin, in questo caso, ma era avvenuto anche con Saddam Hussein, Milosevic, Gheddafi etc.) è riuscita a seminare timori, discordia; dunque immobilismo.
Da troppo tempo, negli ambiti organizzati come nei cenacoli della “sinistra”, è venuta meno la consapevolezza che dentro una guerra il primo nemico da battere è sempre il proprio governo, i propri guerrafondai, il grado di coinvolgimento e complicità del proprio paese dentro una guerra che quasi sempre ha come protagonisti non i “buoni da una parte e i cattivi dall’altra”, ma Stati che perseguono i propri obiettivi.
Questa dannazione sta agendo non solo sulla sinistra in Italia, ma anche su quella tedesca, francese, europea.
Nel recente passato ci sono state guerre asimmetriche tra le coalizioni delle potenze occidentali imperialiste (con o senza la Nato e l’Onu) contro Stati immensamente più deboli (Iraq, Jugoslavia, Libia, Afghanistan etc.). Oggi questa asimmetria sulla carta sembra a ruoli invertiti (la Russia è decisamente più potente dell’Ucraina), ma il ruolino di marcia e lo schieramento della Nato sull’Ucraina hanno spazzato via ogni asimmetria strategica.
Ci stiamo avvicinando pericolosamente al “clash”, lo scontro tra potenze ben individuato e anticipato in un ponderoso volume collettivo nel 2004.
Ma se questo è lo scenario, rompere gli indugi non è più rinviabile. Chiamare alla mobilitazione di massa non può che avvenire sul comune denominatore: porre fine al coinvolgimento politico, economico e militare dell’Italia nella guerra.
Si tratta sostanzialmente di sottrarre il nostro paese all’escalation e agli apparati bellicisti che lo stanno trascinando nella guerra. Non riteniamo affatto che questo sia un “tradimento” verso l’Ucraina, un cedimento alla Russia o ai principi del diritto internazionale; al contrario ci sembra l’unica strada per rimescolare le carte in gioco e creare le condizioni per fermare innanzitutto i combattimenti, i bombardamenti, le dolorose ferite alle popolazioni civili e ai loro congiunti al fronte.
Se cessa il fuoco si può aprire lo spazio negoziale e in questo tutti i contendenti (Ucraina e Russia) perderanno e guadagneranno qualcosa. È già accaduto (Jugoslavia, Palestina, Corea) e accadrà ancora.
Non è la soluzione ideale ma è quella minima necessaria. Quello che dovremmo evitare che accada di nuovo è che i popoli si scannino nelle trincee mentre i governi emettono dichiarazioni altisonanti e i grandi gruppi capitalisti accumulano superprofitti: con le armi o con i farmaci, con l’energia o con le televisioni.
È tempo di scendere in piazza per fermare la guerra in corso, con ogni mezzo e alleanza necessaria. Se non ora, quando?
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