Sono le ultime lettere di 39 ufficiali, sottufficiali e soldati, scelte fra le migliaia di ultime lettere scritte fra il dicembre del 1942 e il gennaio del 1943 ai loro cari dai combattenti della Wehrmacht, ormai accerchiati a Stalingrado dalle truppe russe, e portate in Germania dall’ultimo aeroplano tedesco partito da lì prima che i russi rioccupassero l’aeroporto.
Le lettere, che in un primo tempo Hitler pensava di poter utilizzare a scopo di propaganda, finirono invece, quando il ‘Führer’ si rese conto che non erano suscettibili di un tale uso, nell’archivio dell’esercito a Postdam, dove vennero ritrovate al termine della guerra per poi vedere la luce anche nel nostro paese nel 1958, opportunamente selezionate e tradotte, con il titolo di “Ultime lettere da Stalingrado”.
Sono sessantaquattro pagine in tutto, da cui emerge una galleria di formidabili ritratti che si accampano nello scenario apocalittico della battaglia decisiva della seconda guerra mondiale.
Viene subito alla mente, come è ovvio, l’altro volume, ben più folto, delle lettere di partigiani condannati a morte. Sennonché qui l’effetto è forse ancora più struggente, perché noi sappiamo che quegli sventurati non fecero più ritorno, e loro stessi, tranne qualche eccezione, si rendevano conto di essere condannati senza appello.
I combattenti tedeschi, infatti, erano ormai discesi nel gorgo della tempesta, ma gli sguardi erano ancora rivolti alla cara vita, alla cara casa, alla donna lontana, ai sogni del futuro.
Da ciò deriva al loro dramma una potenza di ‘pathos’ e una tensione poetica, quali forse si ritrovano, ai giorni nostri, nei messaggi scambiati dai combattenti ucraini o russi con i loro familiari e con gli amici.
Certo, la scelta è stata fatta da un tedesco e si ispira ad un intento apologetico, poiché neppure una di queste confessioni depone a sfavore di chi scrive.
Tuttavia, malgrado quell’intento, in esse l’orrore del male, che scaturisce dalla costrizione militare e che segue la logica inesorabile della dottrina per cui “homo homini lupus”, si mescola con la ‘pietà omicida’ (un ossimoro che solo la guerra è capace di creare) verso il nemico dilaniato, con gli affetti elementari legati alla famiglia lontana e irraggiungibile e con le considerazioni impietose su quell’amalgama di sangue, di carne umana bruciata, di materia organica e di fango, che prende il nome, allora come oggi, di guerra imperialista per l’accaparramento delle materie prime e per la spartizione delle sfere d’influenza.
Troviamo così, sfogliando con il fiato sospeso le epigrafi di questo cimitero di vivi, il rigido ufficiale che manifesta il suo disprezzo verso i compagni: «…Uno eguale all’altro. Cioè tutti vigliacchi. Non possiamo vincere una guerra con gente come questa e tanto meno questa guerra… Ho imparato in questi quattro mesi certamente di più di quanto non avrei potuto imparare in una vita di cent’anni. Mi rincresce soltanto di dover finire i miei giorni in così miserevole compagnia».
Troviamo perfino chi scrive al padre, pastore protestante, con disperato sarcasmo, e la descrizione sembra attagliarsi perfettamente al quotidiano spettacolo dello sterminio, della deportazione e dell’umiliazione, cui il mondo intero assiste, tra impotenza e indifferenza, nella “terra dei profeti”:
«Dio non si è mostrato quando il mio cuore gridava a lui. Le case erano distrutte, i camerati erano tanto eroici e così vigliacchi quanto me, sulla terra c’erano fame ed omicidio e dal cielo cadevano bombe e fuoco. Soltanto Dio non c’era. No, padre, non c’è nessun Dio. Lo scrivo di nuovo e so che è una cosa terribile e per me irreparabile. E se proprio ci deve essere un Dio è solo presso di voi, nei libri dei salmi e nelle preghiere, nelle pie parole dei preti e dei pastori, nel suono delle campane e nel profumo dell’incenso. Ma a Stalingrado, no».
Proseguendo, troviamo chi è tormentato dall’incubo: «Martedì ho fatto fuori con il mio carro due T-34 che la curiosità aveva spinto oltre le nostre linee. Era un quadro meraviglioso e impressionante. Poi passai davanti ai rottami fumanti. Dallo sportello pendeva giù un corpo, la testa all’ingiù; i piedi erano incastrati e bruciavano fino al ginocchio. Il corpo era vivo, la bocca rantolava.
Il dolore deve essere stato spaventoso e non c’era nessuna possibilità di liberarlo. Anche se fosse stato possibile, sarebbe morto lo stesso fra dolori atroci. Gli ho sparato, mentre le lacrime mi colavano giù dalle guance. Ora piango già da tre notti, per quel carrista russo assassinato da me…».
E troviamo anche una dignità, una generosità e una forza d’animo tali da intimidire: «Sentirai molto la mia mancanza, ma non fuggire gli altri per questo. Lascia passare un paio di mesi, non di più. Gertrud e Claus hanno bisogno di un padre. Non dimenticare che devi vivere per i figli… Guarda bene all’uomo che scegli, sta attenta ai suoi occhi e a come stringe la mano, come abbiamo fatto noi, e non sarai delusa…».
Né si può tralasciare, eccezionale documento della civiltà nella barbarie, quella scena memorabile, descritta in una di queste lettere, in cui un pianista, «in una piccola strada laterale alla Piazza Rossa, su un pianoforte a coda, ha suonato l’“Appassionata”. Il pianoforte era proprio là sulla strada. La casa era stata fatta saltare, ma lo strumento, certo per compassione, l’avevano sistemato sulla strada. […]
Quelle cento reclute sedevano, nei loro mantelli, le coperte tirate fin sulla testa. Si sentiva sparare da tutte le parti ma nessuno si lasciava distrarre, ascoltavano Beethoven a Stalingrado, anche se non lo capivano».
Così, il significato più profondo e universale di queste testimonianze epistolari si riassume in una parola che supera ogni confine, ogni razza, ogni politica e ogni bandiera: una parola che dice che tutti gli uomini sono uguali:
«Non mi si può far credere che i camerati muoiano con sulle labbra le parole “Deutschland!” o “Heil Hitler!”. Si muore, questo sì, non si può negarlo; ma l’ultima parola è per la mamma o per la persona più cara, oppure è solo un grido di aiuto».
Una volta scossa dai venti impetuosi della storia e dagli eventi bellici della politica internazionale la polvere dell’oblio che le ha ricoperte per motivi più o meno confessabili durante i passati decenni, queste lettere costituiscono una straordinaria lezione dall’inferno, perché parlano di cose a cui nessuno al mondo è estraneo.
Gli italiani poi sono stati direttamente implicati, e con una parte di pesante responsabilità, nella terribile vicenda testimoniata da quelle lettere, anche se le generazioni che l’hanno vissuta in prima persona non sono più fra noi e quelle che le hanno seguite hanno beneficiato a lungo dell’oblio di cui si è detto poc’anzi.
Una lezione straordinaria, dunque, che parla non solo di un periodo lontano che risale ad ottant’anni orsono, ma parla a noi dell’oggi e del domani. Perché se gli italiani avessero saputo dire no al momento opportuno, probabilmente una quantità spaventosa di lacrime e di sangue sarebbe stata risparmiata, e quelle lettere – le ultime scritte da Stalingrado – nessuno le avrebbe scritte mai per il semplice motivo che non ve ne sarebbe stato il bisogno.
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