La regionalizzazione dell’istruzione, uno dei punti cardine dell’autonomia differenziata nella versione della bozza recentemente licenziata dal Ministro Calderoli, rischia di contribuire a impoverire culturalmente ed economicamente non solo il Mezzogiorno, ma anche il Paese nella sua interezza.
Si tratta della proposta di far gestire le scuole direttamente alle Regioni, che dovrebbero occuparsi in via diretta del reclutamento dei professori, attingendo al loro bilancio.
Non è questa la sede per trattare aspetti di natura qualitativa, relativi al contenuto degli insegnamenti regionali. Avremo bisogno di qualche anno per valutarne l’impatto – verosimilmente molto negativo – sulla produttività del lavoro dei giovani.
Quello che interessa maggiormente valutare, ad oggi, è l’effetto stimabile (per grandi linee) della revisione istituzionale in corso sui bilanci regionali al Sud: è acclarato, infatti, nella letteratura scientifica specialistica che i costi monetari complessivi del disegno autonomista, pur essendo molto alti per quanto attiene alla sottrazione di risorse al Sud, non sono facilmente quantificabili.
Occorre innanzitutto chiarire che l’idea della scuola regionale ha il suo fondamento (teorico, in senso lato) nella convinzione che occorre formare individui da destinare, come lavoratori, a impieghi immediatamente utilizzabili nelle imprese già esistenti al Nord.
In più, la scuola regionale, secondo soprattutto la Lega, trasmetterebbe l’identità locale alle future generazioni, secondo una logica di trasmissione ereditaria della “piccola patria” lombardo-veneta.
Questo processo impone all’intera economia italiana una perdita secca: nel lungo periodo, nessuno ci guadagna e ciò è facilmente dimostrabile. Infatti, la sottrazione di risorse al Mezzogiorno non può che incentivare ulteriormente, nell’immediato, un’accelerazione delle migrazioni intellettuali.
Il Nord assorbe molti giovani che emigrano dal Sud e dovrebbe essere suo interesse e sua convenienza – per disporre di forza-lavoro produttiva ed efficiente – avere una scuola ben funzionante al Sud.
In più, dovrebbe essere primario interesse del Nord avere una scuola ben funzionante innanzitutto nelle sue regioni.
Ma così non è, come ripetutamente certificato nelle analisi degli Istituti di ricerca nazionali e internazionali sulla formazione dei giovani italiani.
Questa convinzione si associa all’idea per la quale il Paese ha bisogno di differenziare anche le sedi universitarie, andando nella direzione di creare teaching universities – nelle quali si erogano solo lauree triennali – e research universities – nelle quali si offrono anche lauree magistrali e dottorati di ricerca.
Questa “riforma”, sollecitata da molti economisti, alcuni dei quali vicini al PD e comunque della sinistra liberista, viene sollecitata dall’idea per la quale è solo finanziando “centri di eccellenza” che si produce buona ricerca scientifica.
L’attuale normativa sui Dipartimenti di eccellenza, combinata con l’abolizione degli assegni di ricerca e la loro sostituzione con costosissimi contratti di ricerca, si muove, di fatto, ancorché non formalmente, in questa direzione.
Si va – ed è questo “il non detto” (perché politicamente difficile da far digerire alle famiglie meridionali) – verso la differenziazione fra sedi universitarie di serie A e sedi universitarie di sedi B, con le prime localizzate a Sud.
Le poche e decrescenti risorse che l’Italia, da molti decenni (da quando, cioè, la classe politica post-tangentopoli ha deciso di smettere di scommettere sulla conoscenza come fattore di crescita), destina al settore della formazione danno risultati pessimi per quanto attiene all’apprendimento.
Le tecnologie già oggi usate nei centri dello sviluppo capitalistico (Cina, Germania, USA), e che sempre più inevitabilmente conteranno, richiedono, come diffusamente osservato da ingegneri e psicologi, competenze trasversali e non immediatamente utilizzabili nelle imprese.
Richiedono, cioè, la capacità di imparare ad apprendere, non il semplice (novecentesco) learning by doing, l’imparare facendo. L’imparare studiando (il learning by schooling) assume un ruolo ancora più importante.
Una recente ricerca dell’Università di Bari certifica che, già oggi, nel Mezzogiorno, la scuola è notevolmente più costosa che al Nord, a ragione della maggiore anzianità di servizio dei professori.
La sottrazione di fondi derivante dalla scuola regionale in regime di autonomia differenziata non potrà che comportare ulteriore invecchiamento della classe docente (e probabile aumento dei supplenti, con invece eccesso di domanda di insegnanti al Nord), con conseguente peggioramento della qualità della didattica (essendo il personale stanco, demotivato e poco aggiornato) e conseguente ulteriormente riduzione della produttività del lavoro.
Si ricordi, a riguardo, che già oggi le scuole del Mezzogiorno hanno una produttività bassissima e di gran lunga inferiore a quella media europea: a testimoniarlo è soprattutto INVALSI.
Il problema nasce dal fatto che la produttività del lavoro – tramite migrazioni intellettuali, dei diplomati, dei laureati, dei dottori di ricerca (pochi in numero questi ultimi) – verrà trasferita nelle regioni del Nord. L’impoverimento culturale del Sud, in sostanza, non conviene a nessuno.
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