Attenzione: la destra italiana sta preparando una operazione politico-culturale di grande portata non limitata al piano istituzionale e alla rottura dell’involucro politico dettato dalla Costituzione Repubblicana.
Non sarà sufficiente una risposta limitata al terreno del funzionamento degli organismi politici (e non bisogna considerare, ancora una volta, l’obiettivo del cambiamento della formula elettorale come salvifico).
La trazione a destra, infatti, non è frutto di formazioni improvvisate e misurate semplicisticamente sull’antipolitica ma condotta da un soggetto dotato di un complessivo background capace di produrre attrazione tra i ceti emergenti e aggregazione popolare.
Si pone una domanda: la destra italiana sta proponendo un enorme processo di “rivoluzione passiva” propedeutico, proprio sul piano della tanto reclamata egemonia culturale, all’installazione sul terreno istituzionale di una “democratura” capace di superare la democrazia repubblicana delineata con la Costituzione del ’48?
Un interrogativo che si può ritenere pertinente e al quale non è facile fornire risposta.
Così abbiamo tratto alcune argomentazioni di merito dal numero 6 (novembre/dicembre 2023) di “Critica Marxista” in cui due articoli affrontano temi gramsciani: Lelio La Porta tratta di “Gramsci di destra; pericoloso ma senza fondamento”; Antonio Di Meo scrive su “La Rivoluzione Passiva nell’universo concettuale gramsciano”.
Procediamo per ordine, preventivando le scuse per qualche forzatura nei passaggi ma ritenendo comunque tutto sommato di percorrere una via analitica sufficientemente corretta.
Nell’ultima parte del suo saggio Di Meo affronta il tema delle diverse declinazioni di “rivoluzione passiva” attraverso cui Gramsci affronta l’analisi di molti processi storici soprattutto a partire dalla Restaurazione post-napoleonica con l’affermarsi delle forme di blocco delle classi dominanti sia come modificazione al proprio interno, sia nei confronti delle classi subalterne.
Fenomeno di modifica nel rapporto tra classi dominanti e ceti subalterni (cui oggi punta apertamente la destra) che si esplicitò nell’istituzione delle forme costituzionali di monarchia e dell’allargamento lento ma progressivo della platea degli elettori, della riforma dei codici giudiziari e delle unità di misura oppure nel caso delle leggi eversive della feudalità e della manomorta ecclesiastica e così via.
La “rivoluzione passiva” era dunque intesa come modalità di ammodernamento degli Stati Europei senza una autentica rivoluzione popolare in un quadro che potrebbe essere definito di “corrosività riformistica“.
Il concetto di rivoluzione passiva dovrebbe essere quindi dedotto da due principi fondamentali della scienza politica di cui è necessario prendere atto:
1) che nessuna formazione sociale scompare fino a quando le forze produttive che si sono sviluppate in essa trovano ancora posto per un loro ulteriore movimento progressivo;
2) che la società non si pone compiti per la cui soluzione non siano già state onorate le condizioni necessarie.
Nel saggio di Lelio La Porta si affrontano i diversi passaggi relativi alle “prove” che la destra, a partire da De Benoist, ha sviluppato per cercare di annettersi almeno parti del pensiero gramsciano.
In sostanza si tratta del discorso di gran moda sull’egemonia che la destra recentemente arrivata al potere in Italia sta sviluppando esaltando i valori nazionalistici e costruendo, in questo senso, una sorta di Pantheon tenendo assieme Dante, Leopardi, Prezzolini, Gramsci, Gentile e Croce (utilizzando anche la contaminazione che il pensiero di Gramsci esprime al riguardo del lavoro di Croce e Gentile su Marx, svolto contemporaneamente a Labriola) e dimenticando le aspre critiche di Gramsci nel momento in cui individuava nella prassi la rimessa in circolazione proprio del pensiero di Labriola.
Leggendo i due testi sorge, a mio modesto giudizio, un ulteriore interrogativo: è possibile che la battaglia per l’egemonia che la destra sta conducendo non rappresenti una sorta di “veicolo” per un complessivo processo di “i”?
All’interno di questa fase di “rivoluzione passiva” si dovrebbe sviluppare, dal punto di vista della destra, almeno un elemento di fondamentale importanza: la ricostruzione, sul piano teorico, di un “senso comune” opposto a quello che la sinistra ha sviluppato nel corso dei decenni della sua affermazione storica a livello europeo, senza stroncarne la presenza ma con una operazione di “soffocamento sostitutivo”, assumendone anche valori e principi (i campi di “Patria” e “Nazione” appaiono almeno in apparenza i più indicati al proposito, tanto più in un clima crescente di spirale pre-bellica).
La destra intende sviluppare gli elementi fondativi di questo nuovo senso comune sul terreno culturale e sociale (verrebbe quasi da usare l’antico termine di “controcultura” intendendo il termine cultura nel senso della “kultur” nell’interezza del significato di questo termine che si trova nella lingua di Hegel, Kant e Marx).
Il terreno del contendere rispetto a questa operazione, dovrebbe indurre la sinistra ad una opera di vera e propria ricostruzione di un opposto “senso comune” (ed è a questo proposito che i due saggi citati, probabilmente in maniera involontaria, finiscono con l’intrecciarsi).
Per ingaggiare questo scontro, necessario da condurre nel tempo della “modernità” (tecnologia, velocità nella comunicazione di massa, IA e quant’altro) abbiamo allora più che mai bisogno della messa in opera di un’adeguata soggettività politica capace di porre al primo posto proprio la connessione tra cultura e politica, svolgendo funzione pedagogica e costruendo “quadri“.
Sarà sulla base dei modelli che potranno essere scelti a condizione di realizzare un forte dibattito di massa per decidere la forma da far assumere, nell’oggi, a questa soggettività, che si potranno costruire nel tempo le condizioni culturali e politiche adatte all’affermazione, a tutti i livelli, di una nuova, adeguata, élite dirigente.
L’élite dirigente della quale è necessario, indispensabile ed urgente procedere alla formazione partendo dalle tante avanguardie sparse in una pluralità di situazioni e attualmente prive di riferimento politico nelle fabbriche, nelle Università, nei nuovi movimenti sociali e che deve essere unificata all’interno di una organica visione dell’intreccio tra azione culturale e agire politico.
Élite dirigente dalla quale far ripartire quella lotta per l’egemonia che deve rappresentare il vero obiettivo del nostro agire culturale, sociale, politico.
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