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25/03/2024

Pechino, vedi alla voce «Capitalismo di partito»

When the Going Gets Tough, the Tough Get Going. Il gioco a Pechino si sta facendo duro e i duri scendono in campo. Sono talmente forti da stimolare più che subire il conflitto, così determinati da far impallidire le testuggini. Licenziano i ministri che avevano nominato poco prima, lasciano fallire aziende come Evergrande, circoscrivono capitalisti come Jack Ma di Alibaba, non temono – anzi sfidano – le alleanze internazionali contro la Patria. Sono i 205 componenti del Comitato Centrale, dove prevalgono i 24 (tutti uomini, tutti di etnia Han) dell’Ufficio Politico del Partito Comunista Cinese. Si stringono intorno ai 7 suoi membri permanenti che coadiuvano il Segretario Generale, Xi Jinping, l’uomo forte al comando. Il centralismo si rafforza, il lessico non cambia: è quello della Terza Internazionale.

Nel 2010 Richard McGregor – giornalista australiano, sinologo, uno dei più importanti analisti – nel suo fortunato libro The Party usava queste espressioni per descrivere il Dipartimento Organizzazione del Pcc: «per avere un’idea del suo ruolo, può essere utile immaginare un organismo analogo a Washington. Questo ipotetico Dipartimento sarebbe incaricato di nominare i governatori e i loro vice negli Stati dell’Unione, i sindaci delle città più grandi, i presidenti delle Agenzie Federali, i Ceo di General Electric, Exxon Mobil, Walmart e di altre 50 grandi aziende del paese, i giudici della Corte Suprema, i direttori del New York Times, del Wall Street Journal e del Washington Post, i capi dei network televisivi, i rettori di Yale ed Harvard e delle altre grandi Università e i presidenti di think-tank come Brookings Institution e Heritage Foundation. Tutte le equivalenti posizioni in Cina sono detenute da persone scelte dal partito attraverso la sua organizzazione. Con poche eccezioni sostanzialmente simboliche, esse sono membri del Pcc». L’analogia è sicuramente suggestiva. Tende a divulgare un mondo di difficile lettura. A distanza di pochi anni, il controllo socio-politico non si è certamente alleggerito, anzi: è successo il contrario. La sorveglianza è aumentata, il dissenso, seppure iniziale, sconfina nel tradimento, i nemici servono a unificare il paese, la voce del nazionalismo diventa ancora più forte. L’imprenditoria viene sottoposta al vaglio dei dirigenti del Pcc, le vecchie aziende di stato – una volta simbolo di inefficienza – vengono protette, il loro accesso al credito garantito da canali opachi. La lotta alla corruzione infine si rivela uno strumento per la rimozione dei nemici politici.

Da Pechino giungono notizie di cronaca diverse, forse contraddittorie. Indirizzarle verso un’analisi unitaria è complesso, interpretarle nella ricerca di un fil rouge è arduo. Forse, probabilmente, la sintesi si trova nel vertice della piramide. Da lì, nelle segrete stanze, con la forza della propaganda e il fosforo dei centri studi, sono state lanciate nuove parole d’ordine. Sono indirizzi programmatici, certamente non slogan per facili mobilitazioni di massa.

Tra i più importanti, emerge la ricerca della common prosperity. Perché la ricchezza va condivisa? Già porsi la domanda, indica la risposta: le disuguaglianze sono forti. Nella distribuzione del reddito, l’indice di Gini rileva che la Cina contende agli Stati Uniti la supremazia tra le grandi potenze. Ci si alterna nel rilevare quale delle due sia più disuguale; un’altalena eccentrica per un paese formalmente comunista. Il problema è serio perché le disuguaglianze non sono state soltanto un prodotto dell’assunzione di logiche capitaliste, ma contemporaneamente il suo antefatto. Quando Deng Xiaoping, ormai 46 anni fa, sosteneva che non c’è nulla di socialista nella povertà, spianava la strada all’arricchimento personale. Il segreto di quell’operazione era insito nell’astuzia del leader: arricchendosi, il capitalista fa del bene a sé, alla sua azienda, al suo paese. Questo ottimismo celava un’amara premessa e sigillava la fine del collettivismo: l’imprenditoria privata è più attrezzata dei piani quinquennali per produrre ricchezza economica. Quest’ultima va poi distribuita, in un compito deciso ai massimi livelli. Ora quel momento sembra alle spalle: il successo economico è stato straordinario, il sottosviluppo sconfitto, la povertà sradicata. Si può provare a ridare al popolo alcuni frutti del suo lavoro: allentare le severità sociali, rendere disponibili maggiori beni di consumo, aumentare i salari, incoraggiare le proprietà individuali, infondere ottimismo.

Tutto ciò è strumentale alla seconda grande ambizione: costruire una dual circulation, dare cioè finalmente fiato ai consumi interni. Finora la loro compressione aveva compensato il disequilibrio a favore di risparmi e investimenti. I record nell’export, la «fabbrica del mondo» ne rappresentano i fenomeni più conosciuti. Queste glorie, seppur redditizie, appartengono al passato, o almeno tendono a sbiadire nel tempo. Non esiste alcun riscatto nell’infrangere nuovi record nella produzione di manufatti ormai maturi, di scarso valore aggiunto, di basso prezzo unitario. Non è più possibile rincorrere crescite a due cifre, ingaggiare sfide tra le diverse Province per acquisire meriti e ricompense. Oggi la stabilità è ancor più importante della crescita, i suoi passaggi dirompenti sono stati già assorbiti. In sintesi: se qualcosa è prodotto in Cina, va consumato in Cina; se un bene è offerto dall’estero, sarà possibile acquistarlo. Maturità, fiducia, vasta platea di consumatori.

Non si tratta soltanto di un cedimento alle richieste della società, quanto di un’obbligata strategia economica. Essa è dettata da una complessità relazionale che la globalizzazione ha innestato, in maniera che al momento sembra irreversibile. Da una parte appare scongiurato il pericolo – per Pechino – del decoupling. Non è percorribile – ormai ne è convinta anche la Casa Bianca – un disaccoppiamento delle economie cinesi e statunitensi (o addirittura orientali e occidentali). I frequenti richiami a ridurre l’importanza produttiva della Cina – e dunque l’eccessiva dipendenza degli Stati Uniti – valgono la durata di una campagna elettorale. Un impianto produttivo di titaniche dimensioni, una rete infrastrutturale come quella cinese, non si costruiscono in pochi mesi. Altri paesi non possono sostituire Pechino nelle global value chain. Appare irrealizzabile, se non irresponsabile, tentare di porre la Cina ai margini, dopo averla aiutata a costruire uno sterminato opificio al servizio di tutti. Gli eventi lo confermano. I flussi di export e import cinesi sono in continuo aumento, quelli di capitale non conoscono freni politici. La flessione manifatturiera imposta in altri paesi dal Covid-19 ha acuito l’offerta globale e i colli di bottiglia logistico-distributivi di cui le lentezze nei porti sono stati l’espressione più conosciuta. Dai microprocessori per l’industria automobilistica alle decorazioni per Natale, dalle biciclette per la nuova mobilità urbana ai pannelli solari, al momento la Cina non è sostituibile.

Se il decoupling è un pericolo soltanto rimandato – perché politicamente motivato ma economicamente impraticabile – un altro aleggia concretamente: il timore di nuove crisi internazionali. Tre in quindici anni sono più di un campanello d’allarme. Sia che derivino da motivazioni economiche, sanitarie o militari, tolgono alla Cina l’ossigeno della domanda. La clientela si riduce, la produzione ne soffre, la disoccupazione minaccia. Ecco perché bisogna stimolare la domanda interna. Va sostituito cioè il traino delle esportazioni con una domestic-led growth, dove i consumi devono appaiare gli investimenti. Esiste infine un valore che in Occidente viene spesso trascurato rispetto alle menti di Pechino: il destino di un grande paese non può dipendere dall’andamento degli altri. Non è dignitoso metterlo a rischio del consumo di middle class lontane. Il benessere dei cittadini cinesi solo strumentalmente va affidato al ciclo internazionale. Sarebbe fuorviante ricordare sempre l’orgoglio dei propri 5.000 anni di storia e poi affidare il proprio riscatto alle committenze straniere. Scritto in prosa: se all’estero non ci sono i soldi per comprare giocattoli made in China, vanno fatti acquistare a Pechino o Shanghai; oppure bisogna smettere di produrre giocattoli.

Altri indizi – verosimilmente già prove di un nuovo corso – si scorgono dentro la Grande Muraglia. I media promuovono moderazione nell’ostentazione della ricchezza, castigano la decadenza occidentale, si scagliano verso atteggiamenti maschili considerati effeminati, inappropriati al costume cinese. Il governo vara restrizioni all’uso dei videogiochi per i ragazzi, limita le ore e le retribuzioni per le ripetizioni private, irride gli American Idol. Inasprisce le pene per i reati sulla persona. Tutti vengono chiamati a rendere conto delle proprie azioni in maniera più stringente del passato.

La costanza e la coerenza di tutte queste misure potrebbero suggerire una conclusione seducente per molti, esiziale per altri: la Cina sta superando il turbo-capitalismo, ritorna a Mao, riscopre l’egualitarismo. La realtà è molto diversa, decisamente più complessa. In un famoso articolo del dicembre 1929 – Al diavolo la NEP – Stalin rinnegava la nuova politica economica sovietica, consegnando alla storia un’apertura inedita, un esperimento breve, fruttuoso e lungimirante. In Cina l’equivalente della NEP, la Politica di apertura e riforme di Deng Xiaoping, dura dal 1978 e mostra al massimo delle correzioni. Non ne sono in discussione i vantaggi, ovviamente non se ne disconosce l’impatto storico. Soprattutto, si riafferma il principio che le concessioni ai capitalisti possono nascere e crescere soltanto se l’autorità politica lo consente. A loro è stata affidata una delega, comunque sempre subordinata all’autorità di chi l’ha emessa, cioè al Partito comunista cinese. Nel caso di società dei Big data, nelle proibizioni e nei moniti di Pechino il messaggio è chiarissimo: il possesso dei dati è appannaggio delle autorità. Nessuna similitudine con gli Stati Uniti – dove le grandi aziende della Silicon Valley si mantengono impermeabili dalla Casa Bianca – è ipotizzabile. Per la sorveglianza, la sicurezza, le previsioni economiche, i dati appartengono a chi maneggia il timone.

Tutte queste decisioni all’apparenza slegate trovano il cemento politico nel Pcc. A 75 anni dalla nascita della Repubblica popolare – e a 103 dalla sua fondazione – il suo compito non è finito; vi sono ancora ampi terreni di intervento. I suoi meriti, sempre secondo il pensiero cinese dominante, sono inequivocabili, inattaccabili, eterni. Da ciò deriva una conclusione ineludibile, dove si impernia l’assetto del paese: il Partito comunista è già legittimato a governare. Il ruolo gli appartiene per la Liberazione dal Giappone, la sconfitta dei nazionalisti in fuga a Taiwan, la difesa della patria dalle influenze straniere, la sconfitta dell’arretratezza, la riconquista del ruolo storico. Questa miscela di cuore, orgoglio e portafoglio si spiega con i fatti, non ha bisogno di verifiche elettorali. Il consenso si misura con la crescita; se ci fossero grandi opposizioni, il sistema crollerebbe; è già successo. Non è necessario – anzi, sarebbe deleterio – il multipartitismo. Il Pcc è così grande da assorbire tutta la società. L’innovazione politica dell’ex Segretario Jang Zemin ha introdotto una novità ideologicamente epocale, probabilmente trascurata dagli osservatori. Secondo la «Teoria delle tre rappresentanze» l’appartenenza all’organizzazione non deve essere prerogativa di operai e contadini, ma aperta ad altri settori della società proprio perché il partito li rappresenta tutti. Quando il socialismo è da costruire invece che da conquistare, anche altri soggetti possono far parte dell’organizzazione, segnatamente gli imprenditori e gli esponenti della cultura e della società civile. L’organizzazione leninista mantiene il controllo e il centralismo, pur declinandoli. Il partito, allargandosi, si rafforza. Stimola la concordia, ambisce al sogno cinese, a una società armoniosa, certamente non organizza la lotta né favorisce l’instabilità. I suoi 90.000.000 di iscritti sono fedeli, preparati, disciplinati. Non potrebbe non essere così per gli incarichi loro assegnati.

Le previsioni di un adeguamento della Cina ai sistemi politici occidentali si sono rivelate fallaci, ancora una volta. L’arricchimento del paese, l’emersione di nuove classi sociali non hanno condotto a partiti diversi, dato che quello esistente, l’unico, era in grado di assorbire tutte le istanze, mediare gli interessi, prevenire qualsiasi frattura. Un’organizzazione dunque motore del cambiamento, sentinella dell’ordine, cervello dell’innovazione. Siamo lontani anni luce dal pluralismo, dall’evoluzione naturale verso la democrazia parlamentare, dal conflitto che promuove lo sviluppo. Sbiadiscono anche le analogie con il capitalismo di stato, con l’intervento pubblico nell’economia. Il welfare, le socialdemocrazie, le sofisticazioni di Keynes non sono in agenda. Il partito è la classe dirigente. Il progresso deriva dall’ordine, la crescita dalla regolarità. I quadri, i militanti sono investiti di un compito storico: migliorare il loro paese, così come gli imperatori dovevano riempire i granai e garantire la pace. Il loro è un dovere, non un diritto, certamente non un privilegio. Se utilità personali derivano dal potere, esse vanno prima ricondotte e poi punite. Il popolo è padrone della Cina e, affidandolo al Pcc, del proprio destino. Sa interpretare i risultati, partecipa alla società, giudica se le promesse siano state mantenute. La narrazione di Pechino si impernia su concetti più duraturi delle svolte politiche: coesione, obbedienza e soprattutto controllo. Le derive individualiste sono pericolose; quando esondano, vanno riportate all’ordine.

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