di Fulvio Scaglione
Non era ancora definitivo il numero dei civili uccisi nel Crocus City Hall di Mosca, venerdì sera, che già circolavano falsi idenkit dei presunti attentatori e falsi video, girati con l’intelligenza artificiale, in cui il segretario del Consiglio di sicurezza ucraino Danilov ridacchiando si assumeva la responsabilità della strage.
Il Cremlino taceva, a livello ufficiale non una parola su presunti colpevoli o mandanti. Eppure nei salotti Tv e su Twitter (pardon, X) si era già riversata la solita pletora di cazzari pronta a parlare di false flag, operazione organizzata da Putin (curioso, la stessa tesi diffusa dalla veloce propaganda ucraina) e così via.
Per non parlare di quelli che spiegavano che la strage conviene a Putin, che bisogna stare attenti a come la sfrutterà. Pensate se qualcuno avesse applicato un simile modo di pensare alla strage di Hamas del 7 ottobre: come ne approfitterà ora Israele? Come converrà a Netanyahu? Sarebbe stato linciato in piazza...
Al di là del classico “ha stato Putin” (curiosamente allo Zar conviene tutto: la morte di Navalny subito prima delle elezioni, la strage nel teatro subito dopo...) che ha francamente rotto le scatole a tutti tranne che alla Rai, quel modo di sragionare è una delle cause della nostra perenne e totale incomprensione delle cose russe. La stessa, tra l’altro, che ci ha portato clamorosamente a sbattere anche in questi due anni di sanzioni e di guerra.
In attesa di conferme di parte russa, i servizi segreti Usa (che nelle settimane scorse avevano avvertito di un rischio attentati e consigliato ai cittadini Usa di non partecipare a eventi di massa a Mosca e in altre città) hanno detto di ritenere credibile la pista dell’Isis.
Attendiamo gli eventi e, soprattutto, di capire se coloro che sono stati arrestati nei pressi di Bryansk, a poca distanza dal confine con l’Ucraina, sono davvero, come dice il Comitato investigativo russo, alcuni degli attentatori. Se spuntassero connessioni con i servizi segreti ucraini la valutazione politica e militare dell’accaduto, ovviamente, assumerebbe altre connotazioni.
Ma è indubbio che la dinamica dell’attentato ricorda molto altri due eventi simili, la strage nel Teatro Dubrovka di Mosca (ottobre 2002, 129 ostaggi e 39 terroristi ceceni morti) e quella nel Teatro Bataclan di Parigi (130 morti). In entrambi i casi, la matrice era quella del terrorismo islamista. La stessa matrice che pare oggi da seguire per il massacro al Crocus City Hall.
Si parla ora, per quanto accaduto a Mosca, di cittadini tagiki. Il ministero degli Esteri del Tagikistan ha smentito (per meglio dire: ha detto che Mosca non conferma la presenza di tagiki sul luogo del massacro) ma il particolare, ora, è di secondaria importanza. Il nocciolo della questione sta nel rapporto tuttora irrisolto della Russia con il suo fianco Sud, ovvero con il Caucaso.
All’inizio di marzo l’Fsb (il controspionaggio russo) aveva intercettato ed eliminato a Karabulak (in Inguscetia) sei membri dell’Isis, ma solo dopo una battaglia campale durata ore. Pochi giorni fa, alla periferia di Mosca, altra operazione per fermare due terroristi islamisti che progettavano un attacco a una sinagoga della capitale.
E a fine ottobre, nell’aeroporto di Makachkala (capoluogo del Dagestan), centinaia di persone avevano inscenato un pogrom antisemita all’arrivo di un aereo che riportava in Russia un folto gruppo di cittadini russi evacuati da Gaza.
Tornando ancora più indietro, fin dal 2011 è ben documentata la presenza di miliziani ceceni nelle file di Al Qaeda e dello Stato islamico in Siria. Si pensa che i combattenti ceceni dell’Isis fossero tra 3 e 4 mila, tanto da costituire il secondo gruppo etnico più numeroso. E uno dei più noti e temuti comandanti militari dell’Isis fu appunto Tarkhan Tayumurazovich Batirashvili detto Abu Omar al-Shishani, georgiano di passaporto e ceceno di origine, un ex sergente dell’esercito della Georgia morto nel 2016 sotto un bombardamento americano.
Tutto questo (e il molto altro che si potrebbe dire) per ricordare che il rapporto della Russia con il Caucaso è tutt’altro che risolto, a dispetto del proconsole Ramzan Kadyrov che in Cecenia gli ha procurato, nelle recenti elezioni presidenziali, un fantasmagorico 98% di consensi.
Nel Caucaso ribolle un jihadismo incrociato con ambizioni indipendentiste che nemmeno due decenni di guerre e operazioni militari, e vaste elargizioni di denaro come quelle che sono state riversate sulla Cecenia, sono riusciti a estirpare.
Noi sappiamo che Vladimir Putin ha costruito parte delle proprie fortune politiche sul fatto di essere riuscito, prima da premier sconosciuto e poi da presidente eletto come successore di Boris Eltsin, nei primi anni Duemila, a stroncare la rivolta cecena. E sappiamo come lo fece: conducendo prima una guerra feroce e spietata, poi comprando la fedeltà di una dei clan ceceni più potenti, quello appunto dei Kadyrov.
Quello che non ci siamo mai chiesti, invece, è se davvero avremmo preferito, venticinque anni fa, la nascita di un califfato islamista nel Caucaso, finanziato dalle petromonarchie del Golfo Persico (com’è poi avvenuto con i Fratelli musulmani e l’Isis stesso), e la probabile disgregazione di gran parte della Federazione Russa, potenza nucleare, perché alla Cecenia si sarebbe certo unito il Dagestan e forse anche l’Inguscetia.
La stessa domanda che dovremmo farci a proposito della Siria: solo l’intervento russo del 2015 (e poi i bombardamenti decisi da Donald Trump nel 2016) impedirono che la Siria del dittatore Bashar al-Assad fosse travolta dagli islamisti di Al Qaeda e dello Stato islamico.
Avremmo preferito (diciamo pure: ci sarebbe convenuto) veder nascere un califfato tra Raqqa e Aleppo? Alternative al momento non ce n’erano, perché non erano certo le forze democratiche interne alla Siria a guidare gli eventi, in quegli anni.
Finché non troveremo il coraggio e l’onestà di farci le domande giuste non potremo capire la Russia né le sue motivazioni. Tanto meno riusciremo a a instaurare un rapporto proficuo con il Cremlino, né a contrastre adeguatamente le sue ambizioni quando sono ingiuste o spropositate.
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