di Vincenzo Comito
Il governo vorrebbe che l’Italia tornasse a produrre un milione di veicoli e apre all’ingresso di partner cinesi, che finora ha ostacolato. Un’operazione difficile, considerando gli investimenti già annunciati di Byd in Ungheria, la scarsa appetibilità del mercato elettrico italiano, la nebulosa dei piani di Stellantis
Il settore dell’auto, data la sua persistente importanza per la gran parte delle economie del nostro continente e considerando le grandi trasformazioni in atto, si è negli ultimi tempi conquistato un posto importante nella cronaca economica dell’Unione Europea e anche del nostro paese, in particolare per quanto riguarda i rapporti con la Cina, per la questione dell’auto elettrica e per le difficoltà dell’Italia sul tema; tali questioni sono tra di loro interconnesse.
Alcuni dati di base
Può essere utile ricordare preliminarmente alcuni dati di base relativi al settore.
Quella dell’auto è una delle tante attività economiche nelle quali il primato produttivo, tecnologico e di mercato si è andato spostando sempre più verso l’Asia e verso la Cina in particolare. Così nel 2023, rispetto a una produzione totale di veicoli a livello mondiale pari a circa 82 milioni di unità, in Asia ne sono uscite dalle fabbriche per un volume vicino al 60% del totale e nella sola Cina si è superato un terzo del totale. Anche per quanto riguarda le esportazioni, nel 2023 la Cina si è collocata al primo posto nel mondo, con 5,1 milioni di unità vendute all’estero, seguita peraltro nella classifica da un altro paese asiatico: il Giappone.
Ancora più rilevante il predominio cinese nel comparto delle vetture elettriche. Su una produzione totale di circa 9,5 milioni di unità nel 2023, con un aumento del 33% sull’anno precedente, la quota della Cina si è collocata vicino al 60%.
Negli ultimi mesi del 2023 le elettriche, comprese quelle ibride, hanno superato il 40% del totale dei veicoli venduti nel paese. A livello mondiale poi la quota di mercato delle full electric è stata del 14% (del 17% comprese le ibride plug-in), cifre comunque in crescita. A oggi protagonisti del settore sono i produttori cinesi e la statunitense Tesla; le case europee arrancano. In ogni caso le vetture del paese asiatico sono in generale più a buon mercato e contemporaneamente di migliore qualità di quelle occidentali.
Il predominio cinese appare ancora più importante se si considera l’intera filiera del comparto elettrico, dalla produzione e raffinazione delle materie prime, alla produzione di batterie, al montaggio delle vetture, al riciclaggio finale delle stesse. Sottolineiamo peraltro che tendenzialmente in una vettura elettrica il 40% del costo totale è ormai rappresentato dalle batterie e un altro 40% circa dal software. Tutto il resto pesa quindi soltanto per il 20%.
Così quella che era un’eccellenza europea, e in particolare tedesca, cioè la sofisticazione meccanica delle vetture, tema sul quale sono stati investite in passato in Germania somme enormi con grandi ritorni economici, sta perdendo sempre più di significato. Parallelamente qualche vettura elettrica cinese tende ormai a raggiungere una Porsche come prestazioni, costando però molto di meno. La situazione si aggraverà ulteriormente per il nostro continente con il prossimo avvento della vettura a guida autonoma; i consumatori cinesi sono già oggi spinti all’acquisto di vetture nuove considerando anche le prime funzionalità di questo tipo.
Mentre si discute molto dell’avvento dell’elettrico, poco si parla di una trasformazione dell’auto forse ancora più importante: il suo crescente tasso di digitalizzazione, il fatto cioè che le funzionalità dei veicoli sono sempre più definite dal software – si parla così di software defined vehicle – campo in cui dominano, insieme ai cinesi, anche gli americani.
Va ricordato come il settore dei veicoli sia ancora oggi all’origine di un grande livello di occupazione nel nostro continente. Così in Germania, paese di elezione se si considerano la produzione di vetture, quella della componentistica relativa e anche tutti i servizi connessi al loro utilizzo, si stima che il settore automotive dia lavoro a circa 15 milioni di persone.
La minaccia dei dazi
Da qualche tempo i dirigenti dell’Unione Europea, evidentemente seguendo le disposizioni di Oltreoceano, hanno aperto un’indagine sugli aiuti pubblici alle case dell’auto cinesi, minacciando di applicare dei dazi; minacce ai prodotti cinesi sono del resto all’ordine del giorno a Bruxelles in diversi altri settori di attività, con le scuse le più varie, sempre seguendo le direttive degli Stati Uniti.
In effetti le case cinesi – forti di un dominio produttivo, tecnologico e di rapporto qualità/prezzo dei loro prodotti, in relazione alle economie di scala raggiunte, agli enormi investimenti fatti da lungo tempo nel settore, alla feroce lotta competitiva all’interno del paese (ancor oggi sono presenti in Cina 150 produttori), con una capacità produttiva nazionale molto abbondante – stanno ora cercando di investire i mercati asiatici, europei, americani, africani. Così la società Byd sta varando ben 7 grandi navi specializzate per raggiungere celermente con i suoi veicoli tutti i continenti.
La mossa contro la Cina dell’UE non appare del tutto tranquilla e non è detto che alla fine possa riuscire a raggiungere i suoi obiettivi (anche se la cosa non è da escludere, viste anche le già citate forti pressioni statunitensi in tale senso) e questo per diverse ragioni.
Intanto le case dell’auto tedesche producono e vendono in Cina una parte molto consistente del loro totale, derivando in loco la maggiore quantità dei loro profitti, mentre hanno anche stretto diverse joint venture con le case automobilistiche cinesi; quelle francesi, che pure non riescono a penetrare in misura significativa il mercato asiatico, votate quindi presumibilmente a grandi difficoltà in un prossimo futuro, non hanno comunque evitato di concludere anch’esse importanti accordi con i produttori del paese asiatico. Questi accordi franco-cinesi vanno dalla messa in comune di alcune importanti attività per quanto riguarda la Renault, alla presa di una partecipazione significativa da parte di Stellantis in una casa locale, con cui poi produrre vetture da distribuire in qualche paese terzo. Appare quindi realistico pensare che tutti i produttori europei si opporranno con forza a eventuali misure contro quelli cinesi, se consideriamo anche che importano dal paese asiatico una rilevante quantità di auto a proprio marchio prodotte localmente.
Parallelamente, per contrastare i dazi della UE, il paese asiatico potrebbe adottare delle contromisure verso i prodotti europei, nel settore dell’auto come in altri campi; si pensi ad esempio quanto l’industria del lusso francese e italiana dipenda oggi dal mercato cinese, dipendenza che dovrebbe crescere ancora in importanza nei prossimi anni. Per il momento, come segnale di avvertimento, i cinesi si sono limitati ad aprire un’indagine sul settore dei cognac.
Comunque, anche se a Bruxelles si riuscisse a varare dazi elevati contro le auto cinesi, i produttori del paese asiatico presentano tali margini di redditività sui loro prodotti che potrebbero sopportare tranquillamente la cosa. “I cinesi possono ridurre i prezzi a un livello più basso di quanto si possa anche immaginare”, riconosce un operatore del settore (Campbell, Gabert-Doyon, 2024). Ricordiamo ad esempio che la vettura elettrica più economica disponibile sul mercato cinese, una Byd, si vende nel paese a 12.000 dollari (e una vettura ibrida a meno di 10.000 dollari), mentre la Tesla più economica ha negli Stati Uniti il prezzo di 39.000 dollari (The Economist, 2024).
Per altro verso, appare molto difficile dal punto di vista tecnico districarsi dalla Cina; si ritarderebbero i tempi di passaggio all’elettrico, mentre si aumenterebbero i costi delle vetture, rendendo più difficile la transizione energetica (The Economist, 2024).
Va infine considerato che anche in vista di potenziali misure ostili diverse da parte della UE delle case cinesi stanno varando progetti di insediamento produttivo nel campo delle batterie e in quello delle vetture in alcuni paesi europei, in particolare in Germania, in Slovacchia e in Ungheria, ma non solo.
La resistenza europea all’invasione cinese
Appare del tutto incerto quale potrebbe essere la quota di mercato che i produttori cinesi potrebbero riuscire a conquistare nell’UE, dopo che essi hanno preso d’assalto senza colpo ferire quello russo, disertato per ragioni politiche dai nostri campioni. Una stima (Forbes) parla di un 12% nel 2025, ma tale cifra è soggetta a molte incertezze. Dei modelli cinesi, a parte quelli di MG, Volvo e DR (con quest’ultima che opera solo in Italia, montando peraltro parti di produttori del paese asiatico) che sono già presenti in Europa con un successo crescente, prodotti da marche originarie di tale paese stanno già concretizzando le prime penetrazioni, in particolare nel Nord Europa, anche se risultati importanti si potranno conquistare solo superando molte difficoltà.
Ora, i produttori europei stanno cercando di parare il colpo in vari modi. Oltre a stringere accordi con il “nemico” su vari fronti – come già ricordato lo sforzo in particolare dei produttori francesi che in questo seguono anche le politiche del loro governo – lo sforzo maggiore è quello di riuscire a produrre auto elettriche a buon mercato. Così (Campbell, Gabert-Doyon, 2024) la Renault 5, che costa 25.000 euro, dovrebbe aprire la strada fra qualche anno a modelli ancora più economici; la Spring, sempre della Renault, dovrebbe avere un prezzo inferiore ai 20.000 euro, ma è fabbricata in Cina; la società ha inoltre aperto colloqui con la Volkswagen per portare avanti un altro progetto low cost. Intanto Stellantis spera di offrire presto un modello elettrico che dovrebbe costare meno di 20.000 euro, ma forse sempre costruito con la collaborazione cinese.
Insediamenti cinesi in Italia?
È noto come la produzione di auto in Italia abbia negli ultimi decenni subito un tracollo e come nel 2023 ne siano uscite dalle linee di montaggio circa 750.000 unità in tutto, compresi i veicoli commerciali leggeri, pur con un incremento del 9,6% sull’anno precedente; e questo con ricadute difficili anche sull’indotto, che si trova in una fase di difficile transizione, con diversi punti interrogativi dopo la crisi di qualche tempo fa che ha già toccato diverse realtà, la più nota delle quali è stata quella della ex GKN.
Oggi ci si preoccupa dal sito di Crevalcore della Marelli, dello stabilimento di Bari della Bosch che è da riconvertire, della Lear, della Denso, ecc. (Greco, 2024, a). Critica, in particolare, la situazione a Mirafiori, dove la crisi dei volumi ha pesanti ripercussioni sull’indotto, tanto che si parla di circa 3.000 posti di lavoro in bilico nel comparto (Greco, 2024, b). Va a questo proposito ricordato che alcuni decenni fa si era raggiunta nel nostro paese una punta di 1,7 milioni di vetture costruite in un anno; sottolineiamo anche come diversi stabilimenti del gruppo continuino ad andare avanti solo grazie alla cassa integrazione, mentre si assiste di anno in anno a un calo rilevante degli organici. Una evidente contraddizione della situazione è costituita dal fatto che in Italia si producono molte meno vetture di quanto se ne vendano.
È anche noto che l’attuale governo mira a far produrre almeno un milione di vetture all’anno all’interno dei confini nazionali. Ma i colloqui in tale senso con Stellantis non sembrano andare nella direzione desiderata, anche perché alcuni modelli del gruppo, della Maserati come dell’Alfa, non sembrano ottenere i risultati sperati, mentre più in generale le intenzioni di Stellantis sembrano avvolte nella nebbia, anche se con una spiccata tendenza a ricercare altri lidi.
Ecco allora che il governo lascia intravedere la volontà di aprire dei colloqui con altri produttori per convincerli a insediare qualche unità produttiva nel nostro paese. Si sono a questo proposito fatti circolare soprattutto i nomi della cinese Byd e della statunitense Tesla, mentre la stessa Stellantis sembrerebbe star valutando l’ipotesi che una sua associata cinese, la Leapmotors – in cui la società francese ha preso una quota di partecipazione rilevante, formando una joint-venture con la stessa – produca una vettura a Mirafiori; si parla di 150.000/200.000 pezzi all’anno. Un incremento della produzione da parte della Stellantis e/o da parte di un altro produttore, cinese o no, aiuterebbe a dare una boccata d’ossigeno a un settore della componentistica in rilevante difficoltà, come abbiamo già ricordato.
Queste ipotesi appaiono però di difficile realizzazione. Nel caso della Byd, la casa d’auto cinese ha già annunciato il via a un insediamento produttivo in Ungheria e la prospettive di vendita nel nostro continente non sono ancora tali da pensare subito a un secondo sito. Del resto, se a questo si dovesse arrivare, nel caso della Byd come in quello di Tesla, sembrano esserci possibili paesi di insediamento che presentano migliori prospettive di mercato o di livello dei costi rispetto al nostro paese nel nostro continente e altrove: sono molto di moda in questo momento paesi come il Marocco e l’Algeria, mentre nell’UE vanno forte paesi come la Spagna e la Serbia, paese di insediamento, quello iberico, di ben 5 produttori. L’Italia vede tra l’altro vendite di auto elettriche a livelli molto bassi e pari soltanto al 4% del mercato totale, mentre lo stesso governo appare molto freddo su tutta la questione ambientale.
Si parla anche di altri produttori cinesi che potrebbero essere interessati, dalla Great Wall alla Volvo, alla Chery, alla MG (Greco, a, 2024). Infine, per quanto riguarda sempre le case del paese asiatico, potrebbero ricordare il pessimo trattamento dei possibili investimenti cinesi nel nostro paese: diversi partner sono stati respinti in malo modo, a partire dalla Iveco e da alcuni piccoli produttori di componentistica e di sementi, mentre altri sono stati scoraggiati in anticipo. Nel caso della Pirelli il governo italiano è giunto sino a togliere i diritti di decisione alla società cinese che deteneva il controllo azionario del gruppo, cosa del tutto inaudita.
Segnaliamo incidentalmente come il gruppo Stellantis, dopo la vendita a suo tempo della Marelli, sembrerebbe volere ora disfarsi di un altro gioiello della corona: Comau. Si scrive che sarebbe interessata all’acquisto un’azienda cinese. Ora, ci sembra abbastanza negativo che un’altra società nazionale ad alto livello tecnologico prenda la strada dell’estero, ma in assenza di un qualche interesse da parte di capitali privati nazionali, che sembrano latitanti (e la Brembo?), un intervento di un’azienda cinese, come eventualmente quella di qualche altra importante società straniera, potrebbe essere accettata se all’operazione partecipasse anche un gruppo pubblico italiano, per garantire tra l’altro gli interessi del nostro paese. Il caso indica peraltro come non si possa chiedere l’intervento cinese da un parte e respingerlo poi dall’altra.
Il quadro italiano più complessivo
Certo, bisogna considerare che se anche si riuscisse a ottenere che qualche casa straniera arrivi a varare un insediamento produttivo nel settore dei veicoli e che si riuscisse a ottenere che la produzione italiana nel settore raggiunga o anche superi il milione di unità all’anno, il risultato non potrebbe essere considerato soddisfacente. E questo su molti fronti. Consideriamo l’intera filiera del settore; non abbiamo nel nostro paese impianti per la raffinazione delle materie prime, per la produzione di batterie si profila un solo investimento, nel Molise, peraltro relativamente modesto, realizziamo una ridotta produzione di vetture elettriche, non abbiamo né progettiamo impianti di riciclaggio (almeno uno sarebbe certamente importante); sono quasi inesistenti le spese di ricerca e sviluppo in tutta la filiera, come nel cruciale campo del software. Bene che vada, siamo destinati a essere un paese di terza categoria.
Conclusioni
L’industria cinese sembra essere in grado, almeno in termini puramente economici, di schiacciare potenzialmente l’industria occidentale in moltissimi settori di attività. In particolare, appare imbattibile nelle attività legate alla transizione ecologica, dalle vetture, alle batterie, al software e ai materiali relativi, alle pale eoliche, ai pannelli fotovoltaici. Il tentativo di risposta degli Stati Uniti di fronte a tale realtà appare quello di chiudersi sistematicamente al “nemico”, cercando di bloccare in tutti i modi e con tutte le forze la sua ascesa, trincerandosi dietro barriere protezionistiche, dopo aver cercato, dal dopoguerra in poi, di farle cadere in tutto il mondo.
L’UE si trova oggi di fronte a un bivio; seguire acriticamente gli Usa nella loro strategia di conflitto generalizzato, strada che non appare molto produttiva e che comporterebbe in particolare un vero suicidio per la Germania – paese cui l’industria del Nord Italia è strettamente legata – oppure cercare un accordo complessivo con la Cina e con le altre realtà asiatiche emergenti.
Per quanto riguarda il quadro italiano, che non appare in generale molto brillante, bisogna perseguire a tutti i costi una strategia di rilevante aumento dei livelli produttivi nel settore, spingendo Stellantis e altre case, cinesi e non, a operare su tale linea, essendo però consapevoli della difficoltà dell’operazione. Si tratterebbe in ogni caso di raggiungere una linea di pura sopravvivenza e forse di corto respiro, mentre le avanguardie del settore cavalcano davanti a noi a grande distanza.
Bibliografia
Campbell P., Gabert-Doyon J., “Can european carmakers stop China’s electric behemoth BYD?”, www.ft.com, 29 febbraio 2024
Greco F., “Auto, produzione italiana lontana dal milione di veicoli”, Il Sole 24 Ore, 6 febbraio 2024, a
Greco F., Mirafiori, indotto in affanno: vertenze aperte su 3 mila addetti, Il Sole 24 Ore, 9 marzo 2024, b
The Economist, “China’s EV onslaught”, 13 gennaio 2024
Fonte
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