Intanto buon anno a tutti, se non è troppo tardi, e poi volevo dirvi
che il nostro adorato Occidente ha intenzione di mandare avanti la guerra contro
la Russia via Ucraina, almeno per quest’anno (e finché gli ucraini hanno gente
da mandare al macello) e sempre che nel frattempo non diventi mondiale, nel qual
caso non c’è più bisogno di preoccuparsi perché va avanti per conto suo, e
soprattutto dura poco.
Coloro che, come chi scrive, si sono
brevemente illusi che, magari, data la mala parata della situazione sul fronte
russo-ucraino, l’apertura di un nuovo fronte a Gaza dove è impegnato (in un vero
e proprio massacro a senso unico) il proprio fidato alleato locale, nonché
l’allargamento apparentemente incontrollato di quel conflitto ad altri attori
regionali, Washington cambiasse registro e decidesse di chiudere almeno il
fronte ucraino, rendendo possibile quanto meno un cessate il fuoco, chi si è
illuso in tal senso, si deve purtroppo ricredere.
È ben vero infatti
che gli Stati Uniti ormai appaiono molto “distratti” rispetto alla vicenda
ucraina e, come prevedibile, stanno entrando in un momento di introflessione
tipico del periodo pre-elettorale, e che oltretutto l’ultima tranche di aiuti “promessa”
da Biden all’Ucraina continua a rimanere bloccata dalle schermaglie parlamentari
[vedi
qui, NdR].
Ma d’altra parte la linea dell’Impero non cambia: guerra ad
oltranza contro la Russia, nonché sostegno incondizionato (a parte i distinguo
di facciata) a Israele nel suo massacro indiscriminato ai danni dei palestinesi
di Gaza, di cui si può ormai discettare serenamente della deportazione in
qualche paese africano o, perché no, su... un’isola artificiale, il tutto mentre
alla stessa Israele viene concesso (o addirittura viene... suggerito?) non solo di
condurre la propria pulizia etnica, ma di debordare da ogni lato (Siria, Libano,
Iraq) con continui attacchi provocatori, che non hanno mancato di determinare le
relative risposte.
E del resto, l'estensione del conflitto di Gaza
allo scenario mediorientale non è più una prospettiva ma una realtà.
Da mesi l’intervento dei famosi Houti yemeniti (notoriamente
sostenuti e guidati dall’Iran) non appare affatto un’iniziativa episodica ma un
organico contributo a quello che appare già un conflitto generalizzato o in via
di generalizzazione.
Il disturbo delle rotte nel Mar Rosso, infatti,
ha subito dato i suoi effetti: aumento delle assicurazioni, dei noli marittimi,
conseguente aumento dei costi di tutte le merci che passano di lì, con la
concreta prospettiva di un’ulteriore impennata dell’inflazione in Occidente
(basti pensare che il costo del viaggio di un container tra Shanghai e Genova è
salito tra metà dicembre 2023 e metà gennaio 2024 di quasi tre volte!). [1]
In altre parole: altro che “ribelli yemeniti”, questa è una
sofisticata operazione di guerra ibrida, volta a indebolire il mondo
occidentale, mandandogli un segnale (dopo quello che nel febbraio 2022 mandò la
Russia) che il mondo non è più disposto ad accettare qualunque cosa l’Occidente
collettivo decida di fare pro domo sua (in quest’ultimo caso, l’accanimento
terroristico su due milioni di disgraziati nella striscia di Gaza).
Non
è un caso che la milizia yemenita non intenda colpire il traffico mercantile nel
Mar Rosso in quanto tale, ma solo le navi israeliane o riconducibili a interessi
israeliani nell’area, mentre lascia passare le navi cinesi o russe ecc.
Quindi:
sostegno esterno – diciamo così – alla lotta dei palestinesi (facendo una grande
pressione sulle potenze occidentali, affinché a loro volta si decidano a fermare
la macelleria israeliana), come dichiarato; ma anche contributo allo scontro tra
Occidente collettivo e paesi insubordinati all’ordine globale. [2]
Uno
scontro a cui peraltro – è notizia di questi giorni – anche la nostra marina
militare si unirà quanto prima [l’articolo, ricordiamo ai lettori, è del 3
febbraio; ma resta attualissimo, ndr].
Ebbene, tornando al fronte
russo-ucraino, gli Stati Uniti non hanno cambiato linea; hanno solo ridotto
l’interesse e mandano ora avanti di preferenza altri loro partner.
Così
si possono interpretare gli accordi bilaterali che in questo inizio d’anno Kiev
ha stretto con la Gran Bretagna (da sempre capofila del fronte antirusso), con
la Francia e con il Canada.
Si tratta di accordi molto importanti
(in particolare quello con Londra, che prevede lo stanziamento di 2,5 miliardi
di sterline nel biennio 2024/25), tesi a garantire all’Ucraina linee di
approvvigionamento sicure di qui al prossimo anno o due, a fronte – forse –
dell’incertezza che grava sul futuro degli Usa (se vince Trump, che succede?),
oltre che naturalmente profitti assicurati per le industrie militari di questi
sub-imperialismi. [3]
Qualcosa di simile vale per l’Unione Europea
che, il 1° febbraio, è riuscita a far passare un altro enorme finanziamento
all’Ucraina (50 mld. di euro per i prossimi anni), dopo aver superato le forti
resistenze dell’Ungheria che lo stava bloccando. Non per niente il presidente
del Consiglio europeo Charles Michel si è vantato: «L’Ue sta assumendo la
leadership e la responsabilità nel sostenere l’Ucraina». [4]
E poi
c’è la Nato.
Ed è qui che arriva la notizia più inquietante. Il 25
gennaio gennaio, infatti, ha preso inizio (con la partenza da Norfolk, Virginia,
di un’importante nave da sbarco alla volta dell’Europa) “Steadfast Defender 2024”, una colossale esercitazione militare che coinvolgerà 90.000 uomini , 50 navi
da guerra, oltre mille mezzi blindati, ed è la più grande operazione di questo
tipo dal 1988 e durerà fino al 31 maggio.
L’operazione si concentra
sui confini con la Russia, per mostrare la capacità di intervento della Nato per
difendere Paesi baltici e Polonia, ma sarà anche l’occasione per testare le
capacità di trasporto truppe e mezzi, tutta la logistica, la rapidità, la
«interoperabilità» ecc. [5]
Alla conferenza stampa di presentazione dell’operazione, svoltasi il
18 gennaio, i tre alti ufficiali presenti, l’ammiraglio Rob Bauer e i generali
Christopher Cavoli e Chris Badia [6] sembravano meno interessati alla
presentazione dell’operazione militare in sé che a fare una riflessione a voce
alta, di carattere sociologico e filosofico, e con scoperti intenti pedagogici,
sul tema della guerra e del suo rapporto con la vita sociale:
«Bisogna che comprendiamo tutti insieme – ha spiegato l’ammiraglio
Bauer – che la guerra non è qualcosa che riguarda solo i militari. Io credo
che una nazione debba capire che quando arriva una guerra come quella in Ucraina
ci troviamo di fronte a un fatto sociale totale [a whole of society event]. E
per molti decenni abbiamo avuto questa idea dell’esercito professionale che
avrebbe risolto tutti i problemi di sicurezza che avevamo (in Afghanistan, in
Iraq...).
Ma per una difesa collettiva gli apparati militari attuali
non sono più sufficienti, tu hai bisogno di più gente che sostenga gli eserciti,
hai bisogno che l’industria produca più munizioni, più carri armati, più navi,
più velivoli, più pezzi d’artiglieria... Tutto questo rientra in questa
riflessione sulla guerra come fatto che coinvolge l’intera società. [...] È
l’intera società che deve sentirsi coinvolta, che le piaccia o no». [7]
Non sappiamo se il simpatico trio di generali siano appassionati
della letteratura tedesca del primo dopoguerra e se conoscano Ernst Jünger, ma
la mente corre al concetto di «mobilitazione totale» [totale Mobilmachung],
introdotto appunto dallo scrittore tedesco per indicare la novità introdotta
dalla Prima guerra mondiale: la guerra non più come un evento a sé stante, ma
come un fenomeno organicamente collegato al movimento complessivo della nuova
realtà sociale e produttiva, della società ridotta a sua volta ad apparato
tecnico-industriale. [8]
Alla domanda di una giornalista svedese,
che descriveva l’isteria che si sta diffondendo nel paese per la paura di
un’invasione russa (gente che fa scorte, che compra radio a batteria ecc.), il
generale Bauer ha risposto che va benissimo così, perché così la gente si
prepara a «sopravvivere alle prime 36 ore» in caso di attacco nemico, perché
«non si può dare per certo che nei prossimi vent’anni tutto sia pianificabile e
tranquillo» («non dico che sarà domani, ma bisogna che ci rendiamo conto che non
è un dato scontato che saremo in pace, ed è per questo che abbiamo i piani, per
questo che ci stiamo preparando al conflitto con la Russia e con i gruppi
terroristi se dovesse accadere»).
Molto chiare e spaventose le
«riflessioni» dei tre militari: le nazioni europee si abituino all’idea di
spostare grandi risorse all’esercito e al settore militar-industriale; la
questione del reclutamento di massa sia riaperta; i civili si preparino a uno
sconvolgimento generale del loro modo di vivere per far fronte alla
mobilitazione bellica che ci attende; la stessa possibilità che si debba
affrontare il nemico sul nostro stesso territorio sia tenuta in
considerazione.
Talmente inquietanti che non stupisce che la stampa
più acquiescente alla Nato (cioè praticamente tutta) abbia creduto bene di
tenere la notizia per ora totalmente sotto traccia (il Corriere la dava in un
micro-box a fondo pagina…).
Ora, che gli stati maggiori militari, ovunque nel mondo, lavorino a
tutti gli scenari possibili è normale, ma perché ce lo dicono con chiarezza in
conferenza stampa?
Perché ci insistono così tanto? Cosa sanno, che
noi non sappiamo?
E cos’hanno da aggiungere i politici a queste dichiarazioni dei
militari, che da loro dipendono?
Queste sono le domande spaventose che ci dovremmo fare, mentre la
nostra stampa preferisce intrattenerci sulla crisi della azienda di Chiara
Ferragni, sui 30 chilometri all’ora, o sul mistero della malattia di Kate
Middleton (cui auguriamo comunque una pronta guarigione).
Non c’è
niente da fare.
Le classi dirigenti dell’Occidente collettivo
(dovremmo dire gli Stati Uniti ma gli europei hanno perduto – posto che mai
l’abbiano avuto – qualunque margine di azione autonoma e appaiono come dei
ventriloqui della Casa Bianca) non hanno un piano B e non se lo vogliono
dare.
Si sono troppo esposte nella guerra totale contro la Russia,
apice visibile di un ben più vasto cozzo di blocchi che vede come posta in palio
il mantenimento dell’ordine geopolitico a egemonia americana. Non hanno – da
decenni – niente più da dire o da promettere alle loro masse, che infatti ormai
votano sistematicamente movimenti populisti o variamente “anti-sistema” (e ormai
si apprestano a farlo anche nella un tempo “affidabilissima” Germania!), quando
non disertano del tutto le elezioni.
Negli ultimi decenni, hanno governato con i buoni vecchi panem et
circenses, nella forma adeguata ai tempi post-moderni; ma ora è sempre più
chiaro che il pane scarseggia e con i soli circenses, che pure sono
abbondantemente distribuiti, non si campa.
Sono al comando di una economia totalmente finanziarizzata, basata
su un esercito di lavoratori precarizzati e impoveriti e seduta su un debito
gigantesco non solvibile reso sostenibile solo dallo strapotere militare del
Pentagono, e ora vedono con preoccupazione la crescente insubordinazione di una
vasta porzione di mondo, che per comodità potremmo chiamare “Sud globale”. Hanno
scelto come soluzione la guerra [9], che già negli anni Quaranta del Novecento
si rivelò il modo in cui il capitalismo risolse la sua crisi generale esplosa
nel 1929.
E noi, cosa aspettiamo a mobilitarci contro questa follia?
Note
[1] Per un quadro d’insieme sulle conseguenze
del conflitto in Mar Rosso si veda: Paolo Mastrolilli, Il collo di bottiglia del
Mar Rosso fa tremare l’economia globale, “Affari&Finanza”, 22 gennaio 2024,
p. 2-3. Numerosi dati, a cura dell’ISPI, sono raccolti qui.
[2] Nota Emiliano Brancaccio che l’intervento militare degli Houthi
può essere letto come risposta al progetto Usa che punta a riconfigurare la
globalizzazione per linee di “amicizia” geopolitica (il cosiddetto
friendshoring) (cfr. Emiliano Brancaccio, Yemen e Occidente, un Mare rosso di
vergogna, “il manifesto”, 24 gennaio 2024, p. 1 e 9).
[3] Cfr. Macron insegue Sunak nelle intese militari con l’Ucraina,
“Analisi Difesa”, 17 gennaio 2024; La Gran Bretagna rinsalda i rapporti militari con l’Ucraina, “Analisi Difesa”,
13 gennaio 2024; Il Canada ha preparato un accordo di sicurezza con l’Ucraina, 15 gennaio
2024, “AgenPress.it”
[4] Francesca Basso, I leader disinnescano Orban. Accordo Ue per i
fondi a Kiev, “Corriere della Sera”, 2 febbraio 2024, p. 2.3.
[5] Duccio Fioretti, Steadfast Defender è la più grandeesercitazione Nato dalla Guerra Fredda. Ecco i dettagli, “Formiche”, 19/01/2024; La Nato lancia un’esercitazione anti-Russia da 90mila uomini, “Ansa”, 18
gennaio 2024.
[6] Essi sono, rispettivamente, Chair of the Military Commettee,
Supreme Allied Commander Europe (SACEUR) e Deputy Supreme Allied Commander
Transformation.
[7] Qui si può vedere la conferenza stampa del 18 gennaio.
[8] Superata la fase di pura esaltazione nazionalistica della
guerra, l’intelligenza di Ernst Jünger si applicò negli anni Trenta all’analisi
delle trasformazioni profonde rivelate dalla prima guerra mondiale. Prima
testimonianza di questa attenzione è il formidabile piccolo saggio La
mobilitazione totale (1930), che anticipa, in forma di fulminante intuizione, la
ricerca che decenni di storiografia condurranno sulla Prima guerra mondiale come
momento di svolta (non solo nell’apparato militare, ma nella struttura
economico-sociale generale) nelle società contemporanee.
In esse –
scrive Jünger – «con la liquidazione dei ceti e con l’abolizione dei privilegi
della nobiltà, scompare contemporaneamente anche il concetto di casta guerriera;
la rappresentazione armata della nazione non è più dovere e prerogativa soltanto
del soldato di professione, ma diventa compito di tutti coloro che in generale
sono atti alle armi. Così, l’enorme aumento dei costi rende impossibile
provvedere alla condotta della guerra con un tesoro di guerra ben definito, e
diventa piuttosto necessario, per mantenere in moto la Macchina, utilizzare al
massimo tutti i crediti e ricorrere anche all’ultimo centesimo. Così anche
l’immagine della guerra come di un’azione armata sfuma sempre più nell’immagine
ben più ampia di un gigantesco processo di lavoro» (Ernst Jünger, La
mobilitazione totale, “Il Mulino”, n. 301 / 1985, p. 753-770).
[9] Non sanno neanche come farla, in verità, perché le società
postmoderne, postreligiose e postideologiche che hanno edificato non sono capaci
di sostenere il sacrificio di vite umane che una guerra comporta (tanto è vero
che tutte le guerre che abbiam condotto in questo ultimo trentennio sono guerre
“da remoto”, tecnologiche e teleguidate, col minor numero possibile di boots on
the ground, e sempre contro stati poveri e arretrati), ma intanto ci dicono che
ci aspettano tempi duri e che la futura austerità non sarà finalizzata al solito
pareggio di bilancio, ma all’aumento delle spese militari. In altre parole, si
passa dal: «Tirate la cinghia, che poi si sistemano i conti pubblici» al «Tirate
la cinghia, che poi vi mandiamo in guerra».
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