di Vincenzo Morvillo
Dopo aver finalmente visto “C’è ancora domani”, il film di Paola Cortellesi uscito lo scorso anno nelle sale e presentato alla Festa del Cinema di Roma, tre sono le convinzioni che s’impongono alla mia riflessione.
La prima, purtroppo molto pessimistica, è che non c’è alcun domani per il cinema italiano. La motivazione di quest’affermazione scorata e perentoria si chiarirà nel corso dell’articolo.
La seconda è che se il movimento per la liberazione della donna ha come riferimenti culturali pellicole come quella dell’attrice romana o anche “Povere Creature” – opera del greco Yorgos Lanthimos volontaristica, esperienziale e soggettivistica, che oserei definire ispirata al Nietzsche della “Trasvalutazione dei valori” e del “fardello della morale”, in bilico tra la filosofia di “La Genealogia” e quella della “Volontà di potenza”;
certo pellicola di ben altra caratura sul piano visivo, drammaturgico e narrativo, ma decisamente irrisolta sul versante “ideologico” e in tal senso ambigua sul piano della scrittura anche per quel che riguarda la riflessione sulla scienza positivistica;
che esita in un femminismo ammiccante e di maniera, liberista e in versione statunitense, viaggiando astutamente e a vele spiegate sulla rotta degli Oscar; in direzione tuttavia opposta rispetto al romanzo di Alasdair Gray, che viceversa possiede una chiara impronta socialista che determina nella trasposizione cinematografica la summenzionata ambiguità e irrisolutezza –
se il movimento per la liberazione della donna, dicevamo, percepisce in simili pellicole forme di rappresentazione a sostegno delle profonde problematiche di genere, non credo potrà trovare terreno fertile per un dibattito proficuo e risolutore delle discriminazioni e delle disuguaglianze.
Sia ben chiaro, non ho certo la pretesa di spiegare alle signore come e da chi farsi rappresentare sul terreno dell’arte. È solo l’umile impressione di un osservatore critico delle cose del mondo e della cultura, per giunta maschio.
La terza considerazione infine a farsi largo è che proprio la “critica”, in questo sciagurato paese e in questo tetro passaggio storico, non ha più alcun senso.
Leggere sui maggiori quotidiani e siti di cinema recensioni entusiastiche per il film della Cortellesi obbliga, a mio modesto avviso, ad una duplice considerazione consequenziale.
La subalternità dei critici alle logiche produttive e distributive, dunque alle ragioni del mercato; l’inevitabile abbassamento delle qualità analitiche dei suddetti critici e la loro progressiva incapacità argomentativa, derivante da un ridimensionamento della complessità culturale e dell’indagine dell’oggetto artistico, cui far riferimento.
Un deserto di ricerca e di studio che diventa inesorabilmente propedeutico alla oramai acclarata mediocrità del cinema (e del teatro) italiano.
Un cinema costruito per lo più su nepotismo e caste. Sul botteghino e sugli incassi. Sulla moderazione tematica e sugli equilibri politici. Su codici liberal e sintassi postmoderne.
Fatte or dunque queste doverose premesse, veniamo più precisamente al film della Cortellesi.
L'”opera prima“ dell’attrice romana risulta, sin dai primissimi quadri, un irritante concentrato di cliché senza alcuna potenza espressiva.
Enfatico nella proposizione delle scene topiche, prontamente appesantite da sottolineature recitative e registiche, finisce coll’apparire stucchevole nel suo quasi arrogante didascalismo “di sinistra”. Un film banale sul versante drammaturgico e slabbrato su quello stilistico.
Incapace di dosare commedia, cifra grottesca e dramma sociale, la regista/attrice romana sbanda paurosamente nell’impostazione linguistica, mandando fuori giri la pellicola anche sul terreno recitativo.
Dalla palude della mediocre caratterizzazione e dell’enfasi mimico-gestuale che coinvolge un po’ tutti i protagonisti, si salvano solo alcune figure comprimarie e Romana Maggiora Vergano (la figlia Marcella).
Valerio Mastandrea dal suo canto oscilla tra l’incoerenza dei registri mentre la stessa Cortellesi è costantemente sopra le righe. Ma il problema, come dicevamo, sta nel manico che imposta la regia.
Mescola – la Cortellesi – stilemi neorealistici e registri onirico/surreali; tuttavia, non essendo né Rossellini né Buñuel, sortisce effetti destabilizzanti se non addirittura ridicoli.
Emblematica, in tal senso, è la scena fuori dalla carrozzeria di Vinicio Marconi quando, colta da improvvisa pulsione, Delia – il personaggio della Cortellesi – fa dono, al suo vecchio innamorato, di una tavoletta di cioccolata americana.
La regista cala tutta l’inquadratura in un’insopportabile atmosfera di rarefazione trasognata che risulta involontariamente grottesca e simile ad uno spot dei Baci Perugina.
Si aggiunga poi, a tutto ciò, un bianco e nero ineffettuale e pleonastico nel suo intento puramente calligrafico e il melange indigesto è servito.
Attesa pertanto tale imbastitura linguistica, il tema centrale del lavoro autoriale della Cortellesi, ovvero il patriarcato e la conseguente violenza di genere, si smarrisce e depotenzia proprio tra i rivoli dell’incertezza stilistica.
Le scene di violenza fisica e verbale – che pur si preannunciano con il loro carico di brutalità maschilista – tra squinternati balletti, incursioni buñuelliane sul terreno del surreale, dialoghi sul filo di un grottesco che non riesce mai a risolversi in una chirurgica critica del patriarcato – sottoproletario, borghese o piccolo-borghese che dir si voglia – naufragano malamente tra le onde del pedagogismo di basso profilo, dell’insensatezza e, purtroppo, del macchiettismo.
Ancor più grave, poi, si rivela l’ambientazione sociale scelta dalla Cortellesi.
Una famiglia del sottoproletariato urbano post bellico, con immancabili aspirazioni piccolo-borghesi, dove la violenza sembra albergare quasi per endemica necessità di classe. Mentre, tra gli strati sociali più benestanti, seppur imperi il patriarcato, quella prepotenza si risolve in mere declinazioni verbali ed anche notevolmente smussate.
Uno stigma classista che non fa certo onore ad un’attrice che ha sempre voluto distinguersi per le sue idee progressiste.
In tal senso, ancor più sconcertante risulta il finale. Laddove lo spettatore si attenderebbe una fuga d’amore con l’innamorato dei tempi giovanili per sottrarsi alle violenze domestiche, Delia fugge sì, ma... al seggio elettorale.
Per votare, nel Giugno del 1946 – quando finalmente le donne ottennero per la prima volta in Italia il diritto di voto – e scegliere tra Monarchia e Repubblica.
Un gesto che dovrebbe simboleggiare, nelle intenzioni dell’autrice, la presa di coscienza politica ed esistenziale delle donne italiane. Nonché un gesto di ribellione, emancipazione e liberazione.
Se non fosse una tragica ingenuità ci sarebbe da ridere. Una simile illusione poteva darsi nell’immediato dopoguerra, all’indomani della dittatura fascista. Oggi, nel presente del film, il voto, declinato al maschile o al femminile, è un’irrimediabile truffa. Poco democratica e molto oligarchica.
Ma soprattutto ancora inserito in una dimensione patriarcale e immancabilmente di classe. Da cui sono tenuti significativamente ai margini proprio i ceti subalterni e le categorie socialmente ed economicamente più deboli. Come appunto le donne.
Insomma, un film sbagliato e sconcertante dal punto di vista linguistico, formale e ideologico. Cui però il pubblico e la critica plaudono come a un capolavoro di Godard.
Forse dovrei rivedere le mie coordinate critiche e interpretative. O forse no. È solo, il mio, un mantenere ferme alcune basilari chiavi di lettura attinenti ad un’estetica marxista.
Sarò inattuale, sarò vetero-comunista. Ma sempre meglio che venduto al mercato o narcotizzato dall’ideologia dominante.
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