Presentazione


Aggregatore d'analisi, opinioni, fatti e (non troppo di rado) musica.
Cerco

23/03/2024

“Fiamme in Medio Oriente”: intervista ad Alberto Negri

Alberto Negri è un giornalista e reporter di guerra. Per «Il Sole 24 Ore» ha seguito dal 1987 al 2017 i principali eventi politici e bellici come inviato in Medio Oriente, Balcani, Asia Centrale e Africa. Ha vinto numerosi premi internazionali per la sua attività giornalistica, è un grande esperto delle dinamiche mediorientali ed attualmente riveste ruolo di editorialista per «Il Manifesto».

In questa intervista, di cui abbiamo riportato i temi principali, Negri ci parla dal suo punto di vista della preoccupante espansione della macchia bellica in Medio Oriente: il genocidio ai danni del popolo palestinese in corso a Gaza, sostenuto e finanziato dal capitale Usa ed europeo, ha spostato il suo epicentro a Rafah, nell’estremo sud della Striscia, dove sono accalcati 1,5 milioni di palestinesi sfollati. I civili vengono compressi dai tank israeliani col pretesto di scovare Hamas ma col reale obiettivo di costringerli a spostarsi nel Sinai egiziano.

Dall’altra parte del Mar Rosso la guerra civile dello Yemen iniziata nel 2014 tra gli Huthi, la fazione sciita filo-iraniana che dichiara di costituire il legittimo governo dello stato, e l’ex governo centrale, appoggiato da Arabia Saudita e Occidente, si svolge su un piano di scontro molto ampio che coinvolge le principali potenze globali, Usa, Cina e Russia, che si contendono il controllo di queste terre e delle loro risorse, petrolio e gas in primis. Una situazione estremamente complessa della quale cerchiamo di comprenderne le dinamiche in atto grazie alle risposte del famoso giornalista e inviato di guerra di lungo corso.

1) L’ipotesi dei due stati (Israele e Palestina) è definitivamente tramontata o c’è ancora la possibilità di una soluzione in tale direzione?

La soluzione a due stati sancita dagli Accordi di Oslo del 1993 sembra un mantra svuotato di ogni significato però possiamo dargli noi un significato e qui si tratta di riconoscere l’attuale stato palestinese (quello che gli europei e gli americani non hanno fatto), è quindi un passo fondamentale per non andare incontro a anni e anni di ulteriore destabilizzazione.

L’Onu ha riconosciuto la Palestina come Stato non membro con status di “osservatore permanente” con la risoluzione 67/19 dell’Assemblea Generale del 29 novembre 2012.

A seguito di ciò, dal 3 gennaio 2013 l’Autorità Nazionale Palestinese ha adottato il nome di Stato di Palestina sui documenti ufficiali.

Oggi si pensa che gli americani possano riconoscere lo stato palestinese, però essendo vicini alle elezioni di novembre i democratici hanno paura del mancato voto ebraico; questa è l’unica strada possibile per dare un senso sia ai palestinesi che per Israele, mettendo tutti davanti alle proprie responsabilità.

Riportando il discorso nel quadro giuridico internazionale si può procedere sulla strada della pace, che è lunga e non può prescindere dalla giustizia, vale a dire il rispetto del diritto internazionale.

2) Il patto di Abramo sarà riconsiderato e riprenderà vigore nei prossimi mesi?

Il patto di Abramo è un progetto politico voluto da Trump che mira, come fine ultimo, alla normalizzazione dei rapporti tra Arabia Saudita e Israele dal punto di vista politico ed economico. Il patto di Abramo è stato firmato il 15 settembre 2020 da Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Marocco e Sudan, e si compone di due accordi bilaterali e una dichiarazione congiunta. Da un punto di vista geopolitico, gli accordi si uniscono alle intese stipulate precedentemente da Israele con l’Egitto nel 1978 e con la Giordania nel 1994 rappresentando così il primo segnale ufficiale di collaborazione, in termini di leadership regionale. Il patto di Abramo è un’idea di Trump che Biden ha ereditato e portato avanti.

Trump ha commesso una violazione delle risoluzioni dell’Onu e del diritto internazionale: ha riconosciuto Gerusalemme capitale dello stato ebraico, mentre per l’Onu deve essere la capitale di 2 stati.

Il patto avrebbe dovuto riconoscere anche lo stato palestinese, altrimenti non sarebbe stato valido; tuttavia, alla fine questo punto non è stato rispettato da Israele che continua a non riconoscerlo. Patto che è venuto ad avere problemi con l’attacco di Hamas del 7 ottobre e in questo momento risulta bloccato dalla guerra a Gaza, soprattutto per quanto riguarda l’adesione dell’Arabia Saudita. A causa del forte sostegno che la causa palestinese ha fra la popolazione del regno saudita, il principe erede al trono Mohammed bin Salman, di fatto plenipotenziario del regno, si guarda bene dal compiere un passo così azzardato.

3) Questa domanda riguarda la situazione attuale: secondo lei Rafah è un obiettivo strategico oppure la pressione militare che si ha sulla popolazione sfollata è semplicemente la continuazione della volontà di espulsione dei palestinesi dalla striscia di Gaza?

Siamo al tentativo di espulsione dei palestinesi da Gaza, il valico di Rafah è controllato da Israele che fa entrare col contagocce gli aiuti umanitari, c’è un tentativo israeliano di farli morire di carestia e spingerli così verso il Sinai, se l’Egitto prende con se i palestinesi sarebbe come dire di portare a casa i soldi. Noi europei abbiamo contribuito con 9 miliardi di euro per contenere i flussi migratori dall’Egitto e almeno altri 50 miliardi sono già pronti ma per ora il presidente egiziano Al-Sisi sta resistendo alle pressioni.

Inoltre siamo alla ricerca di una via alternativa alla via della seta cinese e al canale di Suez coinvolgendo l’India con tratto marittimo fino all’Arabia Saudita, per poi proseguire via terra fino in Giordania e ad arrivare a Israele, per poi sfociare nel Mediterraneo (Imec).

4) Ci può dire quale è lo status della conflittualità in quella parte del mondo?

Gli Huthi sono un gruppo armato dello Yemen del nord che è in conflitto con l’ex governo centrale dal 2014 e con i sauditi dal 2015. I sauditi nonostante l’appoggio americano hanno perso la guerra, perché gli Huthi controllano circa il 70% del territorio occidentale. In seguito i sauditi e l’Occidente hanno continuato a bombardare gli Huthi. Nel 2019 gli Huthi bombardarono i terminali petroliferi sauditi sul Golfo del Persico, dimostrando la loro forza.

L’Iran e l’Arabia Saudita con la mediazione cinese hanno aperto i canali diplomatici ponendo fine alla reciproca ostilità e ciò per arrivare anche al riconoscimento internazionale degli Huthi, ma con essi non risulta esserci nessun negoziato diretto, infatti i bombardamenti contro di loro stanno continuando, colpendo anche punti lontani dal Mar Rosso.

5) È possibile che gli Huthi abbiano la possibilità di mettere veramente a repentaglio tante transazioni commerciali soprattutto attraverso il bombardamento delle navi dirette in Israele e addirittura la distruzione dei cavi delle telecomunicazioni che passano sotto le coste dello stretto di Bab el-Mandeb e poi secondo lei è possibile che se non si dovesse risolvere il “problema” Yemen il prossimo focolaio è dall’altra parte del Mar Rosso?

Nel Mar Rosso si sta combattendo una partita strategica per definire quali saranno i flussi commerciali e tecnologici che domineranno sia nel corno d’Africa che in tutto il Medio Oriente, in cui l’intervento degli americani è evidente per il controllo del Canale di Suez in uno scontro con Russia e Cina. Il Canale di Suez oggi ha, ed ha sempre avuto, un’importanza strategica per l’economia mondiale: la sua posizione (in Egitto, a ovest della penisola del Sinai, tra Porto Said sul mar Mediterraneo e Suez sul Mar Rosso) lo rende un collegamento chiave per la spedizione degli idrocarburi da paesi come l’Arabia Saudita e Qatar all’Europa e al Nord America. Ogni anno vi transita circa il 12% del commercio mondiale, dal petrolio greggio ai cereali. In particolare da qui passano il 30% dei container, il 10% delle merci, il 4,4% del petrolio greggio mondiale e il 40% dei commerci Europa-Asia.

I ribelli yemeniti sostengono che le loro azioni sono una riposta alla guerra di Gaza, in sostanza una manifestazione di solidarietà ai palestinesi, contro Israele e contro il suo principale alleato, gli Stati Uniti. I missili che vengono mandati dagli Usa contro gli Huthi non sono soltanto contro essi, ma sono anche diretti a Mosca e a Pechino (che ha in particolar modo allargato la sua influenza sul Mar Rosso).

Sotto il Mar Rosso passano i cavi delle comunicazioni e, dall’altra parte, nel Corno d’Africa c’è una partita fondamentale: l’Etiopia, che vede una presenza cinese molto forte (vi è in corso la costruzione della diga più grande dell’Africa) cerca uno sbocco al mare e sembra averlo trovato con l’accordo con la Somaliland, il territorio corrispondente all’ex Somalia britannica che si è sottratto al controllo di Mogadiscio rendendosi di fatto autonomo.

Nel Corno d’Africa sono dunque in atto molte pressioni oltre a quella cinese e a quella russa la cui presenza nella guerra civile sudanese si è moltiplicata in questi anni.

Tutti stanno giocando in questa area, dove vi sono gli interessi delle superpotenze, cercando di mobilitare le pedine locali: pirateria navale, divisioni etniche e contrasti tribali.

Ecco perché questo intervento occidentale contro gli Huthi, la missione Usa-Regno Unito Prosperity Guardian e quella Ue Aspides non sono operazioni solamente di polizia internazionale come vogliono farla passare gli americani e gli europei, ma si tratta di un conflitto di portata ben maggiore.

6) Ci può spiegare il ruolo dell’Iran e della Siria (anch’essi colpiti dalle bombe Usa e israeliane), essendo il loro legame con il blocco asiatico evidente?

L’Iran è il principale paese sciita del Medio Oriente, ma anziché compiere azioni contro Israele ha colpito con attacchi missilistici obiettivi circoscritti di forze avverse in Iraq, Siria e Pakistan. Di questi tre attacchi soltanto uno (quello in Iraq) riguardava la presenza militare Usa, mentre gli altri due avevano più che altro a che fare con contrasti legati alla politica iraniana. Il Pakistan ha risposto all’attacco iraniano bombardando a sua volta il territorio dell’Iran, e tutto questo avviene mentre gli Stati Uniti bombardano il gruppo dei ribelli Huthi in Yemen, che sono alleati dell’Iran e compiono attacchi nel Mar Rosso contro le navi commerciali israeliane o comunque dirette in Israele.

L’Iran non ha mai attaccato qualcun altro negli ultimi 40 anni; sono gli americani che hanno consegnato l’Iraq all’influenza dell’Iran dopo l’omicidio di Saddam Hussein, visto che il 60% della popolazione irachena è sciita, mentre il regime di Saddam era espressione della minoranza sunnita; inoltre su ordine di Trump ad inizio 2020 vi hanno ucciso il generale iraniano Sulemani, il fautore della sconfitta dell’Isis in Iraq.

La Siria, che è costata tantissimo all’Iran sia dal punto di vista delle perdite militari che dell’impegno economico, è rimasta in piedi solo grazie all’impegno iraniano e russo, nella decennale guerra civile internazionalizzata, altrimenti sarebbe stata smembrata.

Israele tutti i giorni compie in Siria bombardamenti grazie all’accordo, che c’è da tempo, tra Putin e Netanyahu; inoltre, nessun paese del Medio Oriente ha messo mai una sanzione contro la Russia di Putin. Per questo c’è un legame di guerra e l’Iran oggi gode di un vantaggio strategico importante, che è l’appoggio della Russia, a cui fornisce armi per la guerra in Ucraina, e della Cina.

Ad inizio febbraio in Iraq e Siria c’è stato un attacco condotto dagli Stati Uniti su postazioni delle milizie filoiraniane che ha portato la Russia a richiedere una riunione d’emergenza del Consiglio di sicurezza dell’Onu “in relazione alle minacce alla pace e alla sicurezza create dagli attacchi statunitensi in Iraq e Siria”.

7) Secondo lei sarebbe plausibile in questo momento un intervento diretto da parte dell’Iran a tutela dello Yemen?

L’Iran non è mai intervenuto direttamente, fin ora, da nessuna parte. L’unico momento di intervento vero è stato in Iraq con l’avanzata dell’ISIS nel 2014. L’Iran non credo che muoverà pedine, se non in casi estremi, perché non ha intenzioni di bruciare altre risorse.

8) Secondo lei, tornando a Israele, sarebbe plausibile immaginare che Netanyahu andrà avanti con la definitiva distruzione di quello che rimane della Palestina, così alla fine un po’ tutti gli stati che lo appoggiano in Occidente si tireranno indietro lasciando a lui la responsabilità unica?

In realtà il consenso a quello che Israele sta facendo in Palestina non è tacito, è esplicito.

Gli europei hanno deciso con gli americani di fermare gli aiuti all’Unrwa (l’agenzia Onu che assiste i profughi palestinesi, ndr), cioè il maggiore datore di lavoro e fonte di assistenza per i palestinesi. Questa a mio parere è una chiara espressione di complicità, oltre all’evidente ruolo e responsabilità che hanno ad oggi gli USA e che hanno avuto gli europei sin dall’origine del conflitto israelo-palestinese. Di fatto questo ha avuto origine dalla spartizione del Medio Oriente su base coloniale fra britannici e francesi all’inizio della prima guerra mondiale (Accordo Syks-Picot del 1916, ndr) e con la successiva promessa inglese al movimento sionista, la famosa “Dichiarazione Balfour” Nel novembre del 1917, l’allora ministro degli esteri inglese Arthur Balfour scrisse una lettera a Lord Rothschild, principale rappresentante della comunità ebraica inglese e referente del movimento sionista, con la quale il governo britannico affermava di guardare con favore alla creazione di un “focolare nazionale per il popolo ebraico” in Palestina, allora parte dell’Impero ottomano. Così dopo il 1920, con la concessione ai britannici del Mandato da parte della Società delle Nazioni (la progenitrice dell’ONU, ndr), iniziò l’emigrazione ebraica in Palestina.

Successivamente l’ONU ha emanato la Risoluzione 181 (29 novembre 1947) che avrebbe dovuto sancire la nascita di due Stati: uno ebraico, l’altro arabo-palestinese, senza avere però una reale capacità e volontà di intervento per fermare il progetto di colonizzazione dell’intera Palestina da parte del movimento sionista (Piano Dalet, ndr). Un po’ a causa della colpevolezza e del ruolo degli stessi europei che da sempre hanno avuto come obiettivo quello di conquistare e sfruttare territori per loro vantaggiosi, ma soprattutto a causa della successiva forte dipendenza economico-militare dagli Stati Uniti, futuri alleati di ferro di Israele. Infatti, successivamente, entrano in gioco gli Stati Uniti a partire dal 1967, vale a dire dalla guerra dei 6 giorni, quando hanno iniziato a dare il loro sostegno praticamente incondizionato a Israele. Dapprima come mossa strategica per bloccare l’avanzata sovietica in Medio Oriente durante la Guerra Fredda: gli americani si concentrarono nel fornire sostegno economico e militare a Tel Aviv per tenerlo lontano dal blocco sovietico, con il quale era stato in buoni rapporti fino a quel momento.

Il coinvolgimento americano negli affari mediorientali, iniziato nel periodo della Guerra Fredda, si è mantenuto tale anche a partire dagli anni ’90, dopo la caduta del muro di Berlino, fino ad oggi. Questo ovviamente a causa del mercato del petrolio, ma non solo. Nel corso degli anni gli USA in Medio Oriente hanno avviato alleanze strategiche piuttosto solide con: Egitto, Arabia Saudita e Giordania, tutti paesi che vedono di buon occhio il mantenimento del controllo regionale americano, oggi peraltro in crisi. Al contrario, Iran, Siria, Iraq (dei tempi di Saddam Hussein) volevano che gli americani “se ne andassero” dalle proprie terre. Ma a differenza di questi ultimi tre stati arabi alleati, per Washington Israele ha sempre avuto un ruolo di primo piano, visto come la “forza stabilizzante” nella regione: il proxy israeliano (situazione in cui gli attori statali egemoni, in questo caso gli USA, perseguono i propri interessi attraverso soggetti statali e non, chiamati “agenti”, ndr) era considerato il vettore per creare opposizione davanti alle minacce, qualora si fossero create problematiche interne all’area mediorientale.

Nel ruolo americano rientra anche quello di mediatore nel processo di pace israeliano-palestinese ma in realtà non hanno mai avuto una posizione neutrale. Qui si spiega come mai le ultime tre amministrazioni, Clinton, Bush jr e Obama, oltre a quella di Trump la più sbilanciata a favore di Israele, seppur nelle loro grosse diversità hanno tutte sostenuto Tel Aviv. Il processo di pace, e l’ampia stabilità regionale, molto collegata a quel processo, secondo gli americani è uno degli interessi strategici degli Stati Uniti ma, avendo sempre sostenuto la sponda israeliana, hanno condannato il Medio Oriente all’instabilità permanente e i palestinesi a rimanere fino ad oggi sotto occupazione militare israeliana.

L’articolo è stato tratto dall’intervista realizzata da Radio Grad e ampliato in alcuni passaggi per renderlo più fruibile nella comprensione nel passaggio dall’espressione orale, per sua natura più sintetica, a quella scritta.

Fonte

Nessun commento:

Posta un commento