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25/03/2024

En attendant la coesione: PNRR mon amour!

di Walter Tortorella

Marzo è pazzo! Piove e c’è il sole, fa freddo e caldo, la primavera è alle porte. Il meteo però sta facendo un brutto scherzo e colpa del continuo starnutire causa allergie e raffreddori improvvisi, nella testa di molti ritornano i tormentoni da spiaggia amplificati dalla fine di San Remo; ecco, allora, che “ce ne stiamo distesi, sopra soldi già spesi”. Peccato però che non siano quelli del PNRR e neanche i fondi strutturali della Politica di Coesione perché a ben guardare gli ultimi dati della Quarta Relazione sullo stato di attuazione del PNRR di febbraio 2024, piuttosto che l’ultimo Bollettino RGS di chiusura dei fondi SIE (2014-2020) pubblicato a marzo 2024 tra i beneficiari, solo i comuni italiani potrebbero starsene un pochino distesi a godersi un influenzale brodino vegetale piuttosto che “colazioni francesi”.

In termini di avanzamento del Piano, infatti, è possibile rilevare proprio dalla Quarta relazione che dei 194,4 miliardi di euro post revisione l’Italia ne ha già incassati circa 102 ma spesi meno di 43. Considerando nei 43 miliardi Superbonus vari e Transizione 4.0, voci che da sole valgono 26 miliardi – ossia incentivi, agevolazioni, aiutini, aiutoni, a metà tra strada tra spesa surrogata ed infertilità da investimenti – dei complottisti mal pensanti e disfattisti potrebbero chiedersi se non vi sia una certa difficoltà di spesa. Senza contare che alcune amministrazioni centrali dello Stato, proprio quelle impegnate nelle materie per cui è stato pensato il PNRR – Ministero Salute, Ministero Lavoro e Politiche sociali, Ministero di infrastrutture e trasporti – appaiono in notevole crisi di saturazione, forse da Covid-19.
Tradotto: il risultato più rilevante del PNRR per l’Italia in questi 4 anni sembra essere stato quello di incassare denaro, che per i due terzi è debito. Cioè, siamo stati bravissimi a portare il nostro debito pubblico a circa 2.790 miliardi di euro; è come vincere un campionato di calcio ed essere retrocessi.

L’estrema fluidità che ha caratterizzato l’attuale governance del PNRR in cui si vede – “lei che bacia lui che bacia lei, che bacia me mon amour, amour, ma chi baci tu?” – ha fatto il resto. Cabine di Regia smontate e rimontate; cambi di programmazione e progettualità in corsa come se piovesse; minacce di clausole di responsabilità retaggio di un feudalesimo che si sperava superato, neocentralismo al nero di seppia (oltre che incostituzionale secondo la Corte dei Conti) ma nessuno che si soffermasse su due semplici numeri: oggi, utilizzando i dati rilasciati da Regis a dicembre 2023 sembrerebbe che l’82,4% delle gare pubblicate è bandito dai comuni, il 79,6% delle gare assegnate è assegnato dai comuni. E il resto del mondo impegnato sul PNRR? In particolare, sarebbe molto interessante porre un pizzico, non molta, di attenzione su quello che sta succedendo rispetto all’operatività delle grandi aziende di Stato verso le quali la rimodulazione del PNRR, con il RePowerEU, ha volto lo sguardo riponendo la massima fiducia.

Se lo facessimo rivedremmo un copione già noto. Concentriamo la maggior parte delle risorse su pochi grandi interventi e affidiamoci nelle mani di chi queste cose le sa fare. Nel merito si aprirebbe un capitolo che rinvierei ad altro approfondimento ma certamente, nel metodo, se c’è una sola cosa che la Politica di Coesione (peraltro completamene a fondo perduto) ci ha insegnato in 40 anni è il quasi totale fallimento delle grandi opere! Ossia la strategia di concentrare le risorse in pochi grandi interventi nelle mani di una ventina di soggetti; a proposito di coesione, a marzo 2024 è stato pubblicato il bollettino della Ragioneria Generale dello Stato in merito alla chiusura del ciclo di programmazione 2014-2020, ossia al 31 dicembre 2023. Enfasi comunicativa: nessuna, eppure si tratta della relazione finale dalla quale si evince sia come è andato il ciclo di programmazione che, difatti, è durato 10 anni (n+3) ma anche i primi dati sul nuovo settennio 2021-2027.

Ebbene le cose non sembrano essere andate benissimo al di là della percentuale dell’impegno sul programmato fermo al 95% circa (ossia parrebbe che non si sia raggiunto il 100%) a preoccupare di più è quel 74,6% di pagamenti sul programmato. Dopo 10 anni! Insomma, stessa solfa: non riusciamo a spendere, con la differenza, però, che nel caso dei fondi SIE questi soldi sono da “scontrinare” e l’effetto spiazzamento del PNRR di progetti già in essere da farsi pagare “sottratti” alla Coesione si è già palesato. Una sorta di guerra tra poveri.
A rovinare ulteriormente la drakoniana impresa italica di riuscire a portare a casa così tanti soldi da custodire nei nostri forzieri, i dati sull’andamento del nuovo ciclo di programmazione 2021-2027 che definire preoccupanti sembra un eufemismo, tanto è che su questo dato è calata una sorta di autocensura alla Carlo Emilio Gadda. Per continuare con il nostro tormentone ci ritroveremmo di fronte ad un probabile “sorso con l’arsenico”. Praticamente è come se non fosse mai partita; circa 75 miliardi a fondo perduto di cui meno del 6% impegnati ed una spesa che non arriva all’1% in attesa della riforma della Coesione ad opera del Dicastero competente che, magicamente, fornirà quella spinta risolutiva che sosterrà la sperata accelerazione.
È probabile che questa riforma – che ha preventivamente smontato la governance della Coesione dall’Agenzia stessa ai Conti Pubblici Territoriali – conterrà gli stessi ingredienti della rivisitazione del PNRR: concentrazione degli interventi, poteri sostitutivi, spostamento delle risorse verso nuove priorità, accentramento dei processi decisionali, predilezione per interventi indiretti fino al pubblico dileggio per gli incapaci. E qui ritorna in mente un pezzo cult di fine anni ’80 che invocava parossisticamente che “quella macchina qua devi metterla là, quella macchina là devi metterla qua”, ovvero un movimentismo sterile, quando non dannoso – pensiamo ai programmi di rigenerazione urbana piuttosto che ai programmi integrati urbani – che non sottende a nessuno specifico indirizzo di politica economica. Il problema rimane lo stesso perché il Re è nudo: non riusciamo a spendere. Per oltre due lustri abbiamo abbaiato contro l’Europa che con il Patto di stabilità frenava la nostra esigenza di fare gli investimenti necessari al Paese invocando risorse ed ora, che da quattro anni ne siamo letteralmente sommersi, il cavallo non beve!

Del resto, non vi è letteratura scientifica nell’economia dello sviluppo che sostenga l’assioma grandi investimenti (nelle mani di pochi) uguale sviluppo assicurato. Così come non è sostenibile il contrario ma è del tutto evidente che, come nella Politica di Coesione anche con il PNRR, una buona parte dei beneficiari sta continuando ad utilizzare prevalentemente le risorse per “quella economia della manutenzione” che ormai nella nostra Italia, dove le leggi di bilancio servono a coprire prevalentemente il sistema di welfare e gli interessi sul debito, sono le uniche disponibili. Se questo modo di operare, ovvero di utilizzare le risorse straordinarie, non dia sviluppo e crescita duratura è questione di politica industriale ma sembra essere l’unico modo per mandare avanti l’ordinario. Ecco, politica industriale; il nostro male oscuro. Di fronte ad un sistema economico depresso capace di alimentarsi per lo più attraverso risorse a debito la mancanza di una politica industriale è il lusso che non ci si può permettere e se la risposta è una rivisitazione della politica del laissez faire in cui “le imprese non vanno disturbate”, allora pronti a mettersi l’elmetto. Nonostante un numero ciclopico di riforme – orizzontali, abilitanti, settoriali – previste dal PNRR si fa fatica a comprendere che Paese vogliamo essere da grandi. Tra funambolici ponti allo studio da 60 anni e tratte ferroviarie più simili a dei rash cutanei che ad una mappa consolidata delle principali direttrici del Paese necessarie a sostenerne la crescita, i nostri investimenti pubblici appaiono contingenti. Emerge un patchwork di interventi in cui a prevalere sono più interessi di parti che una strategia di sviluppo; rivalse politiche invece che valori comuni; riequilibri di bilancio tra controllato e controllante; finalità di corto raggio piuttosto che visioni di lungo periodo.

N.b.: Il lavoro riflette esclusivamente l’opinione dell’autore senza impegnare la responsabilità dell’Istituzione di appartenenza.

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