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20/03/2024

Gli antisemiti al governo di Tel Aviv

Nel linguaggio ordinario si è soliti chiamarla “eterogenesi dei fini”, indicando le conseguenze inattese o sorprendenti di comportamenti considerati logici in senso lineare.

Il pensiero dialettico, che cerca invece di rispettare e riflettere il movimento della realtà, è più pronto a riconoscervi il classico rovesciamento della “tesi” in “antitesi”. Che non è una “magia” astratta, ma una necessità del reale.

Scendiamo subito sul piano politico concreto, anche se occupandoci comunque di “concetti” che nella narrazione dominante sembravano saldi come la roccia pur essendo prodotti di un’operazione tanto furbesca quanto criminale.

Parliamo dell’identificazione assoluta tra “antisionismo, antigiudaismo e antisemitismo”, ovvero della pratica politica e comunicativa per cui si mette all’indice ogni critica all’operato dello Stato di Israele qualificandola come “antisemitismo”, “odio razziale verso gli ebrei” e amenità varie.

Coloro che hanno pensato, praticato e imposto questa ferrea identificazione tra concetti e soggetti diversi (un ebreo può non essere sionista; al ceppo semita appartengono anche tutti gli arabi, i siriaci, ecc; Israele è uno Stato come tutti gli altri, senza alcuna “eccezionalità” di origine divina, ecc.) aveva immaginato un “meccanismo perfetto”.

Di fatto: siccome gli ebrei sono stati certamente vittime dell’Olocausto (ma non solo loro), ossia di un genocidio pianificato con logica industriale nei campi di sterminio, per estensione qualsiasi critica alla “forma statuale” sionista nata dopo la Seconda guerra mondiale può e deve essere ridotta a una “nuova variante” di quell’aberrazione razzista che ha prodotto l’Olocausto.

Geniale, in effetti. Falsario, certo, ma geniale.

In questo modo Israele – con il sostegno decisivo di quell’Occidente imperialista che aveva prodotto i campi di sterminio – è stato per quasi 80 anni posto al riparo da tutte le convenzioni internazionali (leggi, trattati, risoluzioni Onu), libero di impadronirsi di tutto il territorio che riusciva ad annettersi, senza confini precisi riconosciuti internazionalmente, e soprattutto libero di cacciare il popolo palestinese che quei territori abitava da sempre.

Fin quando si è arrivati al genocidio di Gaza come rappresaglia per gli attacchi del 7 ottobre (dopo 75 anni di massacri unilaterali). A questo punto la sproporzione abissale tra danno subito (1.200 morti circa) e danno provocato (32.000 vittime finora, in maggioranza bambini) ha messo tutto il mondo davanti a un orrore che non può essere impedito dallo sventolio a sproposito dei termine “antisemita”. Anche perché sono numerosissimi gli ebrei in tutto il mondo che esprimono apertamente il proprio disgusto e la condanna per quel che Israele sta facendo.

Avevamo, nel nostro piccolo, intuito e scritto che quella “narrazione” integralista che identifica Israele con “tutti gli ebrei” e rifiuta di distinguere tra credenze religiose, ambizioni millenaristiche di un movimento politico (il sionismo) e politica effettiva di uno Stato (Israele) poteva diventare un pericolo per tutti gli ebrei sparsi per il mondo. A prescindere dal loro consenso o meno verso i crimini di Netanyahu o Ben-Gvir.

E non solo nella “giungla” – come amabilmente Borrell ha definito tutto il mondo non euro-atlantico – ma anche qui, nel “giardino” del neoliberismo che deve affrontare la propria crisi di egemonia.

Per esemplificare citiamo un articolo del Corriere della Sera – “Concerti saltati, articoli rimossi, la censura anti israeliana dall’Eurovision ad Amos Oz” – peraltro scritto dai due corrispondenti a Parigi e New York, città certo non famose per l’antisemitismo.

“Concerti cancellati, serate annullate, articoli rimossi. In un disprezzo indistinto verso israeliani (pro o contro il governo Netanyahu non importa), sionisti ed ebrei, negli Stati Uniti e in Europa si fa largo dopo il 7 ottobre quel filone della cancel culture che contesta ciò che ha a che fare con l’identità ebraica o Israele, sentiti come parte di un unico problema.”

Quella identificazione forzata e forzuta pensata per annichilire ogni contestazione a Israele si sta trasformando nel suo contrario. Sorvoliamo sulla sciocchezza del riferimento alla “cancel culture” (un’idiozia anti-storica nata in alcune università statunitensi) e restiamo sul concreto. Se per decenni impedisci di “distinguere tra ebrei, sionisti e Israele” – bollando come “antisemita” chi provava a farlo – non puoi poi attenderti che quella distinzione sia oggi “senso comune”.

Hai lavorato duro per sopprimerla, ci eri quasi riuscito... ed ecco che sei costretto a richiamarla in vita per limitare i danni che possono arrivare ad ebrei innocenti per colpa di sionisti suprematisti genocidi al vertice di uno Stato-canaglia, che opera al di fuori di ogni regola internazionale e lo rivendica come proprio “diritto” per grazia divina.

È forse esagerata l’immagine elaborata da Thomas Friedman sul New York Times – “Le scelte del premier Netanyahu, i bombardamenti e le decine di migliaia di vittime civili hanno aggravato la situazione tanto che Israele sta diventando «radioattiva» e la diaspora ebraica nel mondo sempre più insicura” – ma è certo che l’orrore di Gaza sta alienando definitivamente ogni simpatia verso tutto il mondo “ebraico-sionista-israeliano”.

Tutti i meccanismi linguistici e retorici elaborati per stigmatizzare i critici di Tel Aviv possono essere ora utilizzati in senso opposto. Non perché sia “giusto”, ma perché è stato reso possibile da chi li ha creati. Sono “strumenti”, come ogni arma...

Perché sarà magari possibile tracciare una qualche distinzione semantica tra “genocidio”, “massacro”, mattanza”, “sterminio” e altri termini suggeriti dai media mainstream per descrivere quel che accade a Gaza.

Ma l’orrore supera i confini delle parole. E chi non vuole mettervi fine – Netanyahu e Ben-Gvir in testa – opera per coinvolgere milioni di ebrei senza colpa in una reazione che faticherà a “distinguere”. Sono loro, dunque, i veri “antisemiti” di questo tempo infame.

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