Il problema è semplice, la soluzione devastante. L’attentato terroristico di ieri sera a Mosca è trasparente nei mandanti, nelle intenzioni, negli obiettivi. E nessuno, stavolta, può nasconderli sotto la solita coltre di voci e non detti incontrollabili.
Tanto meno sotto il messaggio targato “Isis”, di cui appare ormai non identificabile la “ragione sociale” e il campo d’azione. Un calderone fumoso in cui è possibile pescare “manodopera” da usare per altri scopi ma contro “nemici comuni” (la Russia, in questo caso).
Al momento di scrivere vengono contati almeno 93 morti [saliti intanto a 143] e 140 feriti, ma il fatto che molti spettatori del teatro Crocus City Hall si fossero rifugiati sui tetti lascia purtroppo immaginare che le vittime finali possano essere molte di più.
Quattro o cinque uomini in mimetica hanno assalto una sala concerti al centro di Mosca, senza nemmeno nascondere il proprio volto. Tecnicamente – come si dice in Sicilia – sono “carne morta”, o kamikaze in giapponese; insomma, attentatori suicidi per cui non è stata prevista nessuna via di fuga.
Il che significa anche che sapremo presto, a distanza di ore o giorni, l’identità dei killer: e dunque dei mandanti.
È vero infatti che Putin e la Russia hanno un numero sconfinato di nemici, e molti hanno anche buone ragioni per cercare vendetta (è la logica della guerra, non c’è da stupirsene...). Ma alcuni di questi sono “raggiungibili” con una certa facilità, altri magari no (perché nel frattempo non contano più niente).
Purtroppo per gli strateghi statunitensi questo è stato l’attentato più annunciato del mondo, finanche nei dettagli. Quindici giorni fa, infatti, l’ambasciata statunitense in Russia aveva pubblicato una nota suicida in cui annunciava “attentati” a Mosca.
A voler essere precisi: “L’ambasciata sta monitorando notizie secondo cui estremisti hanno piani imminenti per prendere di mira grandi raduni a Mosca, inclusi i concerti, e i cittadini statunitensi dovrebbero essere avvisati di evitare grandi raduni nelle prossime due settimane”.
“Inclusi i concerti”, come quello dell’attentato.
Non bisogna essere neanche dei lettori di spy story per intuire che, se qualcuno conosce prima i dettagli operativi di un attentato questo vuol dire che ha con gli attentatori delle “solide frequentazioni”. Oppure che, banalmente, è il mandante delle loro azioni. Tertium non datur...
Con queste poche certezze “ambientali”, nel frattempo, le forze di polizia russe hanno fermato due (o quattro) uomini di nazionalità tagica sospettati di essere tra gli autori della carneficina di Mosca. Una volta identificati (ove effettivamente colpevoli), ricostruita la loro appartenenze e probabilmente anche i loro mandanti (non penseremo mica che gli eredi del KGB non sappiano come “far cantare un fringuello”...), la filiera di comando sarà allo scoperto.
Nel caso fortuito (eufemismo) che i mandanti siano effettivamente quelli immaginabili – i servizi ucraini supportati da quelli statunitensi – ci troveremmo inevitabilmente davanti a uno scenario fuori controllo.
Lasciamo perdere per cautela la sortita del “vice” Medvedev («Se l’Ucraina è coinvolta, uccideremo i suoi leader»), che chiuderebbe il lungo “patto non scritto” per cui i Zelenskji ed i Kuleba hanno potuto continuare a girare per oltre due anni a condizione che non venissero provocato i russi oltre misura, sul proprio territorio.
Lo hanno fatto sempre, anche nel caso dell’attentato a Dugin e per il camion bomba sul ponte di Kersh. Se andate a ritroso per episodi simili, vedrete che si tratta di una “narrazione” fissa: “i russi si bombardano da soli”.
Se venisse provata quella che sembra l’ipotesi più probabile dovremmo concluderne che il messaggio Usa che anticipava l’attentato era una sorta di avvertimento alla controparte russa, un “noi non lo volevamo, ma questi pazzi sono andati avanti lo stesso”, oppure un tentativo estremo di fermare – appunto – “i pazzi” rivelando il loro piano prima che fosse messo in atto.
Ma sembra una distinzione comunque troppo sottile per diventare una “esimente” per i servizi Usa. La macchina bellica che hanno messo in piedi si muove anche al di fuori del loro controllo, certo, ma la responsabilità del trentennale “allargamento ad Est” della Nato non ne viene certo ridimensionata.
Anzi, semmai aumenta, visto che ha fatto largo utilizzo di forze e soggetti che ufficialmente nessuno chiama per quel che sono (nazisti, nazionalisti suprematisti).
In questa prospettiva, l’attentato al teatro rappresenta un altro piolo per la scalata che sta portando alla guerra totale.
La sua gravità è tutta sul terreno politico, non su quello militare. Colpire civili a casaccio nella capitale nemica non ha alcun significato militare, non sposta di un millimetro i rapporti di forza al fronte.
Ma sollecita il governo del paese a dare una risposta “proporzionale” alla rilevanza mediatica e psicologica dell'attentato, perché deve ovviamente dimostrare di essere in grado di proteggere la sicurezza dei propri cittadini, o almeno di “punire” con altrettanta violenza i responsabili di questi attacchi.
L’intento dell’attentato appare insomma quello di “sollecitare” da parte del Cremlino una risposta violentissima contro il “sospetto numero 1”.
Da questo punto di vista appaiono quasi altrettanto “profetiche” le parole che IlSole24Ore, per la firma di Adriana Cerretelli, riferiva a carico di un anonimo ma “rilevante” esponente dei vertici dell’Unione Europea: “L’Europa ha bisogno dell’effetto Pearl Harbour, di uno shock devastante che ne scuota le democrazie, polverizzi la trincea di dubbi, egoismi ed esitazioni infinite, costringendola ad agire con il consenso delle sue opinioni pubbliche.”
Per “convincere” le popolazioni dell’Occidente neoliberista ad accettare la guerra e le sue conseguenze – nessuno può pensare che la Russia sia militarmente inabile a restituire i colpi, come fu per Milosevic, Saddam, Gheddafi e tanti altri – serve insomma un “evento monstre” che “ polverizzi la trincea di dubbi, egoismi ed esitazioni infinite”.
Quelle che anche nell’ultimo vertice UE hanno riproposto il solito balletto di “vorrei ma non oso” sul riarmo o sull’aumento degli aiuti militari a Kiev (attraverso il sequestro almeno degli interessi maturati dagli asset russi congelati in Occidente).
Questo establishment occidentale sta insomma “sperando” che la Russia faccia “qualcosa di clamorosamente inaccettabile”. E siccome non lo fa – la strategia militare in Ucraina, dopo due anni, è palesemente della del “logoramento” progressivo, senza strappi improvvisi – bisogna provocarla in modo che lo faccia.
Ne va della “conquista del consenso popolare” alla guerra. Mai così basso, in Occidente, come oggi.
È quasi ridicolo dirlo, ma sembra che tocchi sperare nella capacità del vertice russo di “non cadere nelle provocazioni”...
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