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31/03/2024

Il regalo Usa a Netanyahu in marcia su Rafah: 2mila bombe e 25 jet

Cinquecento bombe Mk82 da 230 chili e oltre 1.800 Mk84 da più di 900 chili: è il pacchetto di aiuti militari di cui, secondo il Washington Post, l’amministrazione Biden ha appena autorizzato l’invio a Israele.

Le Mk84 non sono bombe qualsiasi: sono quelle accusate di aver causato le peggiori stragi a Gaza. «Abbiamo continuato a sostenere il diritto di Israele a difendersi – ha commentato un funzionario anonimo della Casa bianca al quotidiano – Gli aiuti condizionati non sono mai stati la nostra politica».

La scorsa settimana il Dipartimento di Stato aveva autorizzato l’invio di 25 jet F35, per un valore totale di 2,5 miliardi di dollari. Nei giorni in cui si preparava ad astenersi, con una decisione storica, nella risoluzione 2728 che ha chiesto il cessate il fuoco immediato nei giorni che restano di Ramadan (sempre meno, l’Eid cade il 10 aprile) e mentre insisteva con Tel Aviv per farsi dire come usa le armi statunitensi, Washington continuava a inviarne.

Consapevole che il premier israeliano non intende fare un passo indietro: Rafah, la città considerata dagli Usa una «linea rossa», vedrà presto l’arrivo delle truppe israeliane.

È probabile che l’approvazione finale alle mega fornitura sia arrivata durante la visita del ministro della difesa israeliano Yoav Gallant a Washington della scorsa settimana. È in quell’occasione, ha scritto Axios, che avrebbe presentato la sua ultima idea: una forza multinazionale per assicurare la consegna di aiuti umanitari a Gaza.

A comporla, secondo Axios, sarebbero tre paesi arabi «amici» (tra cui l’Egitto) che resterebbero per un periodo limitato di tempo a fare la guardia al porto che gli Stati Uniti stanno costruendo lungo le coste gazawi. Negoziati sarebbero già in corso – continua Axios – ma i paesi coinvolti non intenderebbero mandare truppe adesso. Forse in futuro, dopo la guerra, con compiti di peacekeeping.

Ai boots on the ground arabi spetterebbe anche il compito di scortare i convogli in partenza dal porto. Di nuovo, l’ennesimo modo per bypassare le agenzie delle Nazioni unite attive sul campo, soprattutto alla luce della denuncia di Ocha, l’agenzia per gli affari umanitari, secondo cui Israele ha negato l’autorizzazione a otto delle 19 missioni di consegna degli aiuti al nord di Gaza programmate tra il 23 e il 29 marzo. Da inizio marzo il diniego ha riguardato 18 missioni, il 30% del totale.

«Tale mossa – ha commentato un funzionario israeliano ad Axios – costruirà un ente governativo nell’enclave che non è Hamas e che permetterà di risolvere i crescenti problemi con gli Usa quando si parla di situazione umanitaria».

L’idea di Gallant fa il paio con quella di un altro membro del gabinetto di guerra Gadi Eisenkot: supervisione araba e statunitense su una fantomatica nuova leadership palestinese che si occupi di «garantire la sicurezza di Israele e di modificare il sistema scolastico». Difficile che avvenga: Israele non ha mai autorizzato nessuna forza multinazionale, nemmeno sotto il cappello Onu, a svolgere ruolo di interposizione dentro Gaza.

Anzi, a sentire il quotidiano israeliano Haaretz, le autorità israeliano stanno allargando la zona cuscinetto, da anni unilateralmente imposta nell’est della Striscia e inutilizzabile dai palestinesi: una volta completata, la buffer zone arriverà a occupare il 16% di Gaza e si accompagnerà alla costruzione di un corridoio controllato dall’esercito israeliano che dividerà la Striscia in due. Israele, insomma, è rientrato fisicamente a Gaza per restarci.

A quattro giorni dalla risoluzione del Consiglio di Sicurezza Onu, a Gaza si muore comunque. Il più colpito è stato il quartiere orientale di Shujaiyah, a Gaza City: sono stati presi di mira un centro sportivo diventato rifugio per gli sfollati (15 uccisi), una stazione di polizia (17 vittime, di cui un agente), una pattuglia che accompagnava un convoglio di aiuti e la casa del giornalista Mahmoud Aliwa (tre uccisi).

E poi di nuovo Rafah: colpita una casa privata, 12 uccisi, per lo più donne e bambini. A Gaza city è stata centrata un’auto che viaggiava su Salah al-Din Street, otto morti (cinque bambini, due donne e un uomo), mentre il raid sulla moschea Saad Abi Waqqas di Jabaliya ha provocato due feriti.

Resta nel mirino l’ospedale al-Shifa, sotto assedio da dieci giorni: alla distruzione sistematica degli edifici intorno, ieri si è aggiunta l’uccisione di un giornalista di Al Quds Radio, Muhammad Abu Sakhl, abbattuto da un cecchino israeliano.

È il 137esimo reporter ammazzato in quasi sei mesi di offensiva. Il bilancio si è così attestato sui 32.623 palestinesi uccisi dal 7 ottobre e oltre 75mila feriti.

C’è anche un altro bilancio, quello della distruzione della vita sociale ed economica, una devastazione di strutture e infrastrutture che impedirà per anni la vivibilità di quel pezzo di terra.

Ieri Forensic Architecture, dopo l’analisi di immagini satellitari, ha denunciato la distruzione da parte dell’esercito israeliano di oltre 2mila siti agricoli, tra fattorie e serre, un terzo del totale: «La distruzione è stata più intensa nel nord di Gaza, dove il 90% delle serre è stato colpito nelle prime fasi dell’invasione via terra» iniziata a fine ottobre, scrive Forensic Architecture.

Nelle stesse ore usciva l’ultimo rapporto di Ocha: il 67% delle scuole è distrutto o danneggiato, il 38% (212 istituti) è stato deliberatamente preso di mira e una parte «usata per operazioni militari, come centri di detenzione e interrogatorio e basi militari».

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