I ciarlatani del caso Moro, quelli che Marco Clementi definisce «storici da bar», hanno riempito in questi decenni scaffali di librerie con le loro pubblicazioni, fatto uscire articoli a pioggia sulla stampa (ancora il 16/3 ne sono apparsi un paio), realizzato trasmissioni televisive, Report su tutti (ma anche lo scomparso Purgatori non scherzava), dando vita a surreali commissioni parlamentari.
Ultima quella antimafia che si è chiusa nella passata legislatura con una relazione dell’ex magistrato Guido Salvini, seguita ai lavori della precedente commissione Moro 2, presieduta da Giuseppe Fioroni.
Tra i ciarlatani non mancano di primeggiare, con dichiarazioni alle agenzie, diversi membri del governo attuale.
Questo fiume di ipotesi mai suffragate, congetture azzardate, ricostruzioni sgangherate – spiega Clementi – resta sempre sul terreno della cronaca, sezionando al millesimo minuti, ore e giorni del sequestro, ripetendosi all’infinito come un disco rigato, eludendo così non solo le smentite ma ancor di più il «tempo storico», le domande di fondo che sole possono aiutare a dare senso e comprensione a quella vicenda.
La burocrazia della memoria
La responsabile di un noto archivio che si occupa di «terrorismo e stragi degli anni ’70» ha tenuto nei giorni scorsi presso una università romana un corso di formazione per insegnanti delle scuole secondarie, attività finanziata dalla regione Lazio.
L’eminente specialista ha raccontato, in barba alle evidenze storiche fino ad ora acquisite, che in via Fani c’erano, la mattina del 16 marzo, non meno di 30 brigatisti, ovvero quasi tre volte i regolari della colonna romana in attività in quel periodo.
Alla richiesta di spiegare come fossero fuggiti dal luogo, visto che le macchine descritte dai testimoni sono sempre e solo state tre e nessun pullman è mai stato avvistato nei paraggi, ha risposto che si erano... dileguati a piedi per i prati.
Di fronte alla stupefacente risposta (accanto a via Fani non ci sono prati...) qualcuno ha voluto sapere se fosse mai stata in via Fani: la risposta è stata “no”.
Le istituzioni hanno creato una ‘burocrazia della memoria’ pubblica cui è stata demandata la funzione di amministrare la produzione pubblica sulla storia di quelli anni, presenziando in commissioni che vigilano sulle modalità di apertura degli archivi, sulla gestione di portali informativi e sulla formazione culturale.
L’eminente responsabile dell’archivio di cui stiamo parlando, membro a tutti gli effetti di questo apparato, deve aver confuso le 27 persone, condannate a vario titolo per il sequestro nei quattro diversi processi che si sono susseguiti tra gli anni ’80 e ’90, con i partecipanti diretti all’azione del 16 marzo.
Avrà così pensato che tutti e 27 affollavano via Fani e le strade adiacenti quella mattina. In realtà solo 9 di loro sono stati indicati in sede giudiziaria come presenti direttamente sul luogo dell’agguato. Oggi sappiamo che ve ne fu anche una decima, assolta però durante il processo ma condannata comunque per altri fatti.
I restanti 17 sono stati ritenuti responsabili per altre ragioni: perché membri dell’esecutivo nazionale o aventi funzioni apicali, oppure perché avevano gestito la custodia del sequestrato nella base-prigione di via Montalcini o ancora perché avrebbero preso parte ad alcune fasi della inchiesta preparatoria.
Nessuno di loro era in via Fani. Eppure i ciarlatani del caso Moro possono raccontare impunemente quel che vogliono.
Paolo Persichetti, Insorgenze.net
Ultima quella antimafia che si è chiusa nella passata legislatura con una relazione dell’ex magistrato Guido Salvini, seguita ai lavori della precedente commissione Moro 2, presieduta da Giuseppe Fioroni.
Tra i ciarlatani non mancano di primeggiare, con dichiarazioni alle agenzie, diversi membri del governo attuale.
Questo fiume di ipotesi mai suffragate, congetture azzardate, ricostruzioni sgangherate – spiega Clementi – resta sempre sul terreno della cronaca, sezionando al millesimo minuti, ore e giorni del sequestro, ripetendosi all’infinito come un disco rigato, eludendo così non solo le smentite ma ancor di più il «tempo storico», le domande di fondo che sole possono aiutare a dare senso e comprensione a quella vicenda.
La burocrazia della memoria
La responsabile di un noto archivio che si occupa di «terrorismo e stragi degli anni ’70» ha tenuto nei giorni scorsi presso una università romana un corso di formazione per insegnanti delle scuole secondarie, attività finanziata dalla regione Lazio.
L’eminente specialista ha raccontato, in barba alle evidenze storiche fino ad ora acquisite, che in via Fani c’erano, la mattina del 16 marzo, non meno di 30 brigatisti, ovvero quasi tre volte i regolari della colonna romana in attività in quel periodo.
Alla richiesta di spiegare come fossero fuggiti dal luogo, visto che le macchine descritte dai testimoni sono sempre e solo state tre e nessun pullman è mai stato avvistato nei paraggi, ha risposto che si erano... dileguati a piedi per i prati.
Di fronte alla stupefacente risposta (accanto a via Fani non ci sono prati...) qualcuno ha voluto sapere se fosse mai stata in via Fani: la risposta è stata “no”.
Le istituzioni hanno creato una ‘burocrazia della memoria’ pubblica cui è stata demandata la funzione di amministrare la produzione pubblica sulla storia di quelli anni, presenziando in commissioni che vigilano sulle modalità di apertura degli archivi, sulla gestione di portali informativi e sulla formazione culturale.
L’eminente responsabile dell’archivio di cui stiamo parlando, membro a tutti gli effetti di questo apparato, deve aver confuso le 27 persone, condannate a vario titolo per il sequestro nei quattro diversi processi che si sono susseguiti tra gli anni ’80 e ’90, con i partecipanti diretti all’azione del 16 marzo.
Avrà così pensato che tutti e 27 affollavano via Fani e le strade adiacenti quella mattina. In realtà solo 9 di loro sono stati indicati in sede giudiziaria come presenti direttamente sul luogo dell’agguato. Oggi sappiamo che ve ne fu anche una decima, assolta però durante il processo ma condannata comunque per altri fatti.
I restanti 17 sono stati ritenuti responsabili per altre ragioni: perché membri dell’esecutivo nazionale o aventi funzioni apicali, oppure perché avevano gestito la custodia del sequestrato nella base-prigione di via Montalcini o ancora perché avrebbero preso parte ad alcune fasi della inchiesta preparatoria.
Nessuno di loro era in via Fani. Eppure i ciarlatani del caso Moro possono raccontare impunemente quel che vogliono.
Paolo Persichetti, Insorgenze.net
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Non avrà mai fine l’annosa ricerca di una singola prova, una contraddizione, un elemento di dubbio, capace di far crollare come un castello di carte la narrazione non dietrologica sul rapimento e l’assassinio di Aldo Moro e della sua scorta.
Gli storici, si può osservare, dovrebbero essere contenti: la ricerca, infatti, non si può fermare e ogni nuovo apporto non può che arricchire i precedenti.
Teoricamente è così. In pratica non sempre questo accade: si pensi al revisionismo attuato in Russia sulla storia sovietica e la figura di Stalin, per fare solo un esempio.
Gli storici in questo caso sono stati messi a tacere e la revisione storica è diventa una questione di Stato.
Per quanto riguarda il caso Moro e più in generale la storia delle Br (o se si vuole la sua contro-storia), il dibattito spesso non si svolge tra storici e la cosa pone una serie di problemi metodologici molto seri.
Si potrà obiettare che storcere troppo il naso se un giornalista scrive un libro di storia non è una buona cosa. Infatti, esistono giornaliste e giornalisti che hanno studiato, scritto e analizzato questioni storiche in modo molto professionale, aprendo nuove prospettive di riflessione. Con il caso Moro, però, questo è accaduto molto di rado.
Un popolo di storici e ct
Tutti gli appassionati di calcio si sono sentiti commissari tecnici della nazionale almeno una volta nella vita. Tutti hanno fatto la propria formazione, criticato scelte, convocazioni e cambi, pensato che se ci fossero stati loro in panchina quella partita sarebbe finita diversamente.
Peccato che nessuno è stato mai chiamato dalla Federcalcio ad allenare la nazionale. Per allenare serve un patentino, si devono frequentare corsi a Coverciano ecc.. In una parola, bisogna essere professionisti che conoscono il linguaggio del campo e hanno esperienza decennale. Non ci si improvvisa e soprattutto agli improvvisati nessuno dà un lavoro.
Quando capita di discutere di storia al bar (o sui social), è facile perdere. Qualsiasi cosa si dica, infatti, viene ribattuta con riferimenti fumosi e frasi ipotetiche da chi discute non per capire meglio, ma per imporre la sua tesi di partenza. Le argomentazioni, anche le più precise, non sono prese in considerazione. Al limite, non le ascoltano proprio. È così e basta.
Rispetto alle fonti (archivi, bibliografie, saggi ecc.) l’interlocutore propone un paio di articoli di giornali o, quando va bene, un libro (che, sebbene pieno di sciocchezze, almeno è un libro). Conosce particolari mai sentiti, ma non è in grado di fare un discorso di ampio respiro per esempio sulla politica estera inglese durante il XIX secolo, sulle relazioni tra Italia e Germania tra le due guerre, sulle fasi della Shoah, sul nazionalismo ecc.
L’uso politico dei misteri
Con il caso Moro avviene la stessa cosa. La produzione saggistica è piena di autori/autrici improvvisati. Hanno letto qualcosa, intuito una pista, trovato qualche riferimento (tralasciando gli altri mille) e si sono messi a scrivere che le cose non sono andate come sembra perché c’era questo e quello e poi la Cia o l’ndrangheta, il Kgb o la P2 e dio solo sa ancora chi altri.
Tutte le volte che qualcuno ha preso sul serio queste note e ha cercato riscontri documentali, ha finito per dimostrare la fumosità delle stesse. Che, peraltro, ritornano anche a distanza di anni per cui, dato che i lettori si sono dimenticati (giustamente) che un decennio o un ventennio prima si era già discusso della cosa, i ricercatori sono costretti a ricominciare da capo in un gioco dell’oca infinito dove si ritrovano sempre al punto di partenza.
La storia non compie alcun passo in avanti e prevale sempre la cronaca, che seziona una giornata chiave dei 55 giorni in ore, minuti e secondi, ricerca quale funzionario di pubblica sicurezza sia arrivato prima e quale dopo, chi c’era e se non c’era come faceva a sapere ecc. ecc. La storia è colpita al cuore dalla cronaca e gli studiosi sono sommersi e emarginati dalle congetture e dall’uso politico dei misteri.
I tempi storici e quelli della cronaca
Inevase restano le grandi domande del caso Moro, che sono, in ordine sparso: il ruolo dello Stato italiano e la sua preparazione o impreparazione, il ruolo dei partiti, la strategia delle Br e la congruità del rapimento di Moro con la storia passata dell’organizzazione, la concomitanza del processo di Torino, le reazioni internazionali, il ruolo del Vaticano, le reazioni del movimento, quelle del mondo operaio, le opzioni di sviluppo della vicenda, gli spazi per una trattativa, le conseguenze politiche del rapimento (vedi voto di fiducia al IV governo Andreotti che fino alla sera prima il Partito comunista non voleva in quella formazione) e quelle dell’uccisione dell’ostaggio.
Ci sarebbero poi i processi, la storia delle commissioni di inchiesta, dell’associazione delle vittime del terrorismo, la legge sui pentiti, il carcere speciale, le torture e poco altro. Una vicenda complessa, ma non un rebus, che ha un inizio, uno sviluppo e una fine.
Storicamente quei 55 giorni hanno smesso di avere conseguenze politiche dopo le elezioni del 1979, quando il Pci uscì sconfitto dalle urne dopo essere stato un anno e otto giorni nella maggioranza di governo. Si aprì l’ultima stagione della Prima Repubblica che durò dieci anni, con i governi a guida laica per la prima volta dal 1948 e il preambolo di Carlo Donat-Cattin.
Nel 1989, con la caduta del Muro di Berlino, cambiò nuovamente tutto e a livello storico la vicenda Moro non ebbe più nulla da dire. ‘Mani pulite’, poi, sconvolse ulteriormente il quadro e Berlusconi mise una pietra tombale sul passato. Il caso Moro continuò a contare per i singoli protagonisti e le loro coscienze, ma su questo versante è giusto non entrare.
A distanza di 46 anni il continuo riemergere di misteri riporta una vicenda storicamente conclusa da decenni sulle prime pagine della cronaca, impedendo il consolidarsi di una discussione storiografica sulla sua importanza. Il che, alla lunga, rischia di tramutare in farsa una delle maggiori tragedie della nostra Storia.
Marco Clementi - Domani
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