Il conflitto tra Russia e Ucraina pare impantanato in una sostanziale situazione di stallo che allontana sempre più l’ipotesi di una risoluzione militare degli eventi. I mesi passano, uno dopo l’altro e uno identico all’altro, con un portato di morte e distruzione che monta a dismisura. Nulla di tutto questo, però, pare scalfire la determinazione con cui le principali potenze occidentali perseverano nell’applicare all’Ucraina il principio del ‘vai avanti tu, che a me viene da ridere’, continuando a soffiare sulle braci di una guerra per procura.
Nonostante il martellamento incessante e a reti unificate della propaganda bellicista, però, l’opinione pubblica nei Paesi occidentali coinvolti a vario titolo nel conflitto mostra segni crescenti di fatica e insofferenza nei confronti di un mostro che sembra sfuggito di mano. C’è bisogno quindi di riavvolgere il copione e provare, tramite la diffusione ad hoc di panico e irrazionalità, a rinfocolare la bellicosità della popolazione europea.
Il ruolo dell’agitatore è affidato, questa volta, a uno dei volti più scialbi e insignificanti della tecnocrazia europea, quel Charles Michel il cui mandato come Presidente del Consiglio Europeo è in scadenza e che quindi può essere mandato in avanscoperta e bruciato all’occorrenza. In una recente lettera inviata al Consiglio Europeo, Michel tuona: “Urgenza, intensità e determinazione incrollabile sono imperative... È inoltre giunto il momento per un autentico cambiamento di paradigma in relazione alla nostra sicurezza e difesa. Sono decenni che l’Europa non investe a sufficienza nella propria sicurezza e difesa. Ora che ci troviamo di fronte alla più grande minaccia per la sicurezza dalla Seconda guerra mondiale, è tempo di adottare misure radicali e concrete per essere pronti a difenderci e mettere l’economia dell’UE sul ‘piede di guerra’.”
Una chiamata alle armi vera e propria, sguaiata nei suoi toni incendiari quanto sfacciata nel dichiarare, poche righe dopo quelle appena riportate, quali sono gli interessi di fondo che stanno davvero a cuore a Michel e a tutti i cantori dell’armiamoci e partite: “Dobbiamo inoltre aiutare l’industria della difesa ad accedere ai finanziamenti pubblici e privati e ridurre gli oneri e gli ostacoli normativi”; la guerra – così come era stato per la pandemia – come occasione da non lasciarsi sfuggire per alimentare il profitto.
L’appello di Charles Michel può non avere riscaldato i cuori delle persone comuni, ma non è stato lasciato passare invano. Hanno risposto infatti, in un caso in maniera diretta e in un altro in maniera ideale, due insigni e autorevoli economisti, qui più che mai impegnati a interpretare quel ruolo di ‘sicofanti del capitale’ che Marx aveva prefigurato per questa categoria.
Daniel Gros, tedesco, esperto di ‘cose europee’, bocconiano e direttore del think tank Center for European Policy Studies, in un’intervista a La Stampa, parte constatando “che l’Ue si debba preparare alla guerra, mi sembra ovvio visto che un conflitto è già in corso”. In maniera più felpata rispetto a Michel, sulle cui parole è chiamato ad esprimersi, prosegue notando che, fosse per lui, non bisognerebbe parlare di ‘economia di guerra’, fosse solo per il fatto che gli aspetti economici di un nostro coinvolgimento più attivo nel conflitto non sono quelli più importanti. Infatti, “ciò che occorre è un cambiamento psicologico, prima che sociale. Ci siamo abituati alla pace e al fatto che non ci fosse alcuna minaccia dal punto di vista militare. Adesso però dobbiamo abituarci al pensiero che esiste questo pericolo. È questa la parte più importante”. Bisogna alimentare il terrore, per cambiare la maniera di pensare della popolazione dei Paesi europei e arruolarla nei ranghi della guerra a tutti i costi.
Non può mancare, infine, una tirata di orecchie all’Italia per la situazione dei suoi conti pubblici e una allusione ammiccante all’austerità, la vera passione di Gros (insieme alla guerra, a quanto pare): «(L’Italia) avrebbe la capacità di fare molto di più per sostenere l’Ucraina e la difesa europea. Ma l’equilibrio politico, e anche mentale, è tale che gli sforzi accessori per queste due voci sarebbero in deficit. Non è una situazione congeniale. Se guardiamo i Paesi che a oggi sostengono l’Ucraina e spingono per un incremento della spesa militare europea troviamo un elemento comune a tutti. Hanno conti in ordine e un basso deficit”.
C’è un protagonista finale di questa carrellata degli orrori, un amico di lunga data di questo blog. Francesco Giavazzi, altro bocconiano di ferro, già consigliere principale di Mario Draghi durante la Presidenza del Consiglio di quest’ultimo, fa sfoggio di un cinismo economicista difficile da immaginare: ascoltare per credere.
L’occasione è la presentazione di un recente libro di Olivier Blanchard. Dopo decenni passati a decantare le virtù dell’austerità espansiva – l’idea secondo la quale tagliare la spesa pubblica, cioè chiudere ospedali, licenziare dipendenti pubblici, tagliare le pensioni etc., ha effetti benefici sull’economia di un Paese – Giavazzi si trova a fare i conti con la realtà degli ultimi anni, in cui l’intervento massiccio dello Stato nell’economia è stato il singolo fattore che ha evitato il collasso delle principali economie avanzate.
Ecco, quindi, che il nostro deve impelagarsi in giri di parole e ragionamenti contorti per provare a tenersi in equilibrio tra una condanna del debito pubblico – che rimane comunque la ragion di vita profonda – e tutta una serie di casi eccezionali e straordinari in cui il debito pubblico può essere accettato. L’Ucraina è, per Giavazzi, un caso di scuola in cui il debito pubblico può essere tollerato. Questo Paese ha, infatti, necessità di indebitarsi per continuare a sostenere lo sforzo bellico. Ma i soldi presi a prestito oggi andranno restituiti un domani (ai Paesi occidentali che oggi continuano a soffiare sul fuoco), e quindi siamo di fronte a una rogna che le generazioni ucraine presenti passano alle generazioni ucraine future. Ma questo scambio è, per una volta, accettabile.
La generazione di oggi, infatti, paga “combattendo e, purtroppo, sempre più spesso morendo”. La generazione successiva, invece, “si troverà, speriamo, in un Paese libero e quindi è giusto che debba pagare”. In pochi minuti di video, una rappresentazione impeccabile del punto di vista di un pezzo di élite europea: l’Ucraina come pedina per finalità politiche tutte interne all’Occidente e come paradigma di tutto quanto c’è di sbagliato nell’operato delle istituzioni europee, sia per quanto riguarda gli aspetti economici, sia per quanto riguarda la politica estera.
Da un lato, infatti, si ripropone la solita suggestione secondo cui l’indebitamento pubblico di oggi debba essere restituito successivamente, come un qualsiasi debito privato. Questo costrutto ideologico privo di fondamento serve esclusivamente a edificare il castello retorico del “non ci sono i soldi” e della “coperta troppo corta”. Dall’altro, dietro i mille proclami di vicinanza al popolo ucraino, non si scorge neanche un vago principio di solidarietà da parte dell’élite europea a fronte di una popolazione massacrata dalla guerra, comunque la si pensi sulle cause del conflitto: cara Ucraina, ora piangi i morti e poi paga i debiti! Benvenuta nell’Unione Europea...
Le parole di Michel, di Gros, di Giavazzi, vanno prese sul serio. E vanno usate per mostrare la follia di chi vuole continuare a trascinarci in un conflitto in cui a vincere sono solamente gli interessi di pochi privilegiati, sulla pelle di chi in guerra ci muore.
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