“I fatti di Napoli” – dopo quelli Roma – rimbalzano sui media e riscuotono la condanna anche del Presidente della Repubblica.
Lo scandalo è sollevato dal rifiuto di una parte consistente degli studenti universitari della Federico II e de La Sapienza di assistere in complice silenzio alle “conferenze” di due giornalisti noti per le loro sparate da sionisti ultrà.
Un breve elenco delle lamentatio è utile a restituire il ridicolo di queste reazioni scandalizzate.
Il rettore, Matteo Lorito, si è affrettato a chiarire che «i giovani della Federico II sono quei 250 che erano in aula e che hanno pazientemente atteso per più di un’ora per poter assistere a un dibattito che a loro stava a cuore». E che, invece, «non ne rappresentano lo spirito» gli studenti «che hanno dato vita a questo parapiglia, con un’azione inqualificabile di intolleranza, non hanno chiesto il confronto e hanno agito anche con la forza».
Scontata anche l’immediata strumentalizzazione da parte della presidente dell’Unione delle comunità ebraiche italiane, Noemi Di Segni, del presidente della Comunità ebraica di Roma, Victor Fadlun, e del presidente della Comunità ebraica di Milano, Walker Meghnagi: «È inconcepibile e inaccettabile che l’Università Federico II sia stata costretta a cancellare una conferenza per le intimidazioni e la violenza di un gruppo di facinorosi contro il relatore, Maurizio Molinari, solo perché ebreo».
Il carico da undici è arrivato con la nota di Mattarella: «Con l’università è incompatibile chi pretende di imporre le proprie idee impedendo che possa manifestarle chi la pensa diversamente».
Sorvoliamo sulle altre decine che costituiscono soltanto variazioni individuali su un tema fisso: “viene impedito di parlare”.
Fosse vero, sarebbe certamente grave. Fosse “interruzione di pubblico servizio” – come la paranza fascista schierata in aula al momento della lezione di Donatella Di Cesare – anche più grave (ma in questo caso nessuna istituzione si è detta scandalizzata; strano...).
Sorvoliamo anche sui falsi evidenti (“Molinari zittito solo perché ebreo”), visto che sia i cartelli che gli slogan citavano espressamente il “sionismo”, che è una corrente politica relativamente recente e non condivisa neanche da moltissimi ebrei, anche ultra-ortodossi. Sorvoliamo persino sulla più clamorosa delle falsità – “con la violenza” – perché i video fanno giustizia in entrambi i casi.
Stiamo al punto.
Molinari è il direttore di Repubblica – secondo quotidiano nazionale, sia pure in drammatico declino anche “grazie” alla sua direzione ultra-atlantista e pro-Netanyahu – non un povero testimone di fatti che non trovano spazio mediatico.
Scrive e parla – in televisione, dove è ospite fisso di talk show altrettanto guerrafondai e suprematisti – ogni giorno che dio manda in terra. La sua opinione su qualsiasi evento mondiale è stranota anche perché ripetuta sempre uguale. E nota anche prima di essere espressa (“l’America ha sempre ragione ed è la guida, Israele ha tutti i diritti e i palestinesi nessuno”).
Così anche David Parenzo, contestato una settimana fa a La Sapienza, attualmente conduttore della trasmissione In onda su La7, altrettanto onnipresente in una miriade di talk show.
Entrambi, oltretutto, non sono certo noti per l’“apertura al pluralismo” nei media che controllano, visto che non si registrano lì voci differenti dalla stretta “alternanza” tra esponenti di centrodestra e di centrosinistra, al punto da far sembrare l’evanescente Fratoianni quasi un “autonomo”...
Aggiungiamo anche la considerazione tutt’altro che peregrina che in questi casi l’università viene usata come una location per iniziative “di parte”, non istituzionali. Al pari insomma di assemblee o analoghe iniziative da parte di gruppi di studenti. Per le quali, insomma, è surreale pretendere un regolamento simil-parlamentare...
Ma il punto essenziale è sempre quello: chi è che impedisce di parlare, in questo paese?
Sono i media “ufficiali” (Rai, Mediaset, gruppo Cairo, gruppo Gedi, ecc.) che non ammettono voci discordanti in nessuno spazio, neanche notturno, oppure gruppi di studenti che reagiscono quando “opinion maker” che straparlano tutti i giorni – falsificando e disinformando, quasi sempre – invadono il loro spazio vitale per imporre anche lì la “narrazione” dell’estabishment?
Domanda retorica, certo. Ma è paradossale che i “padroni del megafono” lamentino di essere impossibilitati a parlare... E quando si incontra un paradosso – spiegano i migliori matematici, fisici e filosofi – ci si trova davanti a una contraddizione rivelatrice. Luminosa e semplice, in fondo.
Questi gestori dell’informazione ufficiale sanno, sentono, verificano tutti i giorni, che la loro parola – per la popolazione – vale ormai meno di nulla. Un accento qualsiasi nel rumore di fondo che ottunde il pensiero individuale e collettivo.
Ma i loro emolumenti dipendono comunque dal dimostrare la loro capacità di “presa” nella costruzione dell'“opinione pubblica”. E quindi, se l’audience popolare si allontana da loro, loro devono inseguirla anche fisicamente fin dove è possibile. Anche dentro le università, dove sta rinascendo una capacità di pensiero critico che sembrava da anni addormentata, in caccia di quelle opinioni divergenti che riconoscono un genocidio per quello che viene fatto, non per la religione di chi ne resta vittima.
Sono però troppo riconoscibili. Le loro intrusioni sono “naturalmente” intollerabili. E dunque vengono spesso contestate. Lo sanno anche loro, e per quello insistono. Vanno alla attesa contestazione, con le telecamere al seguito o in mano, a recitare la parte della vittima proprio mentre conducono un’aggressione.
Tecnica consolidata, nell’imperialismo occidentale. In versione Usa, ucraina o israeliana, non cambia mai.
È il “vittimismo aggressivo”. Quello che ormai tre quarti del mondo – e anche la parte migliore dell’Occidente – rifiuta d’istinto.
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