I primi scricchioli si vedono già. Ma è davvero inutile aspettarsi che il prevedibile aumento della conflittualità all’interno del governo possa produrre un qualsiasi “cambiamento” degno di nota.
Al massimo, come in tutte le legislature precedenti, potrebbe avvenire un rimescolamento che lascia le cose come stanno; una diversa maggioranza, insomma, ma non una diversa stagione politica.
Come sempre, un cambiamento reale richiede che si faccia avanti e si affermi un soggetto diverso, una presenza di massa – nelle piazze, nei luoghi di lavoro e di studio e di vita – in grado di mettere in discussione la “narrazione” dominante e riattivare un corpo sociale da troppo tempo sotto anestetici.
Il governo Meloni – come i precedenti – è un governo di crisi, guerra e declino. Una rovina per le classi popolari e per le prospettive stesse del Paese.
Questo governo rivendica per esempio di aver “aumentato l’occupazione”, ma se questo non si traduce in crescita della ricchezza prodotta e dei consumi di massa – sostanzialmente fermi al palo – significa che si tratta di “lavoretti”, in settori ad alta intensità di manodopera, con bassi salari e senza garanzie.
Si tratta insomma di crescita del lavoro povero, servile, di pura sopravvivenza. Spesso anche sotto questo livello.
Come i precedenti è un governo dell’austerità, che taglia la spesa sociale – dice – per diminuire il debito pubblico. Ma al tempo stesso aumenta forsennatamente la spesa militare. Gli obblighi Nato infatti richiedono più armi da mandare in Ucraina e nuove armi per un esercito da sviluppare in chiave europea.
La “coperta corta” di una spesa pubblica più sbilanciata verso gli armamenti viene ancora una volta tessuta progettando “privatizzazioni” del patrimonio pubblico. Questo mantra neoliberista che da quasi 30 anni sta distruggendo la capacità industriale del Paese viene ripetuto alla faccia degli innumerevoli e clamorosi fallimenti delle privatizzazioni nell’industria di proprietà pubblica. Ossia “nostra”, di tutta la cittadinanza.
Ricordiamo per brevità soltanto pochi casi. Quello delle acciaierie Italsider, regalate ai Riva, ribattezzate Ilva, poi passate agli indiani di ArcelorMittal, poi “commissariate” e ancora in cerca di un padrone qualsiasi. Mentre a Taranto si continua a morire di inquinamento...
Non parliamo neanche di quello che è avvenuto nella sanità pubblica, destrutturata a beneficio esclusivo di quella privata, ridotta a fortino su cui si scaricano tutti i malesseri sciali e che resta in piedi solo per lo spirito di servizio del personale meno pagato d’Europa e continuamente svillaneggiato dal potere.
E poi Telecom, nel settore strategico delle telecomunicazioni, regalata prima a Colaninno, poi a Tronchetti Provera, quindi spacchettata e con la rete fissa ormai venduta al fondo statunitense KKR, che ha ai suoi vertici anche il generale Petraeus, ex capo delle truppe Usa in Iraq, Afghanistan nonché – ciliegina sulla torta – ex capo della Cia. Le nostre comunicazioni private e pubbliche in mani davvero “sicure”, insomma...
Ma non possiamo dimenticare Alitalia, distrutta e svenduta prima alla cordata dei “capitani coraggiosi”, poi a Emirates, poi ridotta a una compagnia low cost per il business di Lufthansa.
Potremmo continuare a lungo, descrivendo un deserto industriale creato lì dove “gli imprenditori italiani” sono ormai degli estranei che trasferiscono le proprie attività – e le sedi fiscali – all’estero. L’esempio della Fiat e dell’ignobile famiglia Agnelli è ormai un format per tutti gli epigoni minori.
Ma il degrado divora da decenni anche l’istruzione pubblica, nel folle tentativo di inseguire le fantasie al ribasso di una classe imprenditoriale dalla vista cortissima – stile Briatore che chiede “più istituti alberghieri” – e che non sa che farsene delle competenze scientifiche o umanistiche di alto livello.
Generazioni di studenti vengono annientate con percorsi di studio sempre meno formativi e stimolanti, spinti al lavoro gratuito e mortale attraverso “l’alternanza scuola-lavoro”, incentivati dunque all’abbandono scolastico. Un percorso che priverà loro stessi, e dunque il Paese, di un futuro all’altezza delle speranze e della Storia.
Siamo in definitiva avviati verso un baratro da cui sarà tanto più difficile riemergere quanto più si tarderà ad arrestare la corsa al disastro.
Il quadro politico attuale non permette illusioni.
Le “alternative” sono quelle che hanno dato vita ai governi precedenti. Hanno praticato e predicato le stesse politiche di bilancio, le identiche politiche di privatizzazione e desertificazione industriale, i medesimi tagli al welfare, all’istruzione, alla ricerca.
Sono quelle che hanno preceduto i fascisti al governo anche nelle politiche repressive, tra daspo, “giustizia creativa”, poteri abnormi e incontrollati alle varie polizie, salvo lamentarsene quando poi invadono anche il recinto del potere politico.
Che hanno dissestato l’edificio costituzionale e le stesse istituzioni, la struttura dei diritti, fino a fare della parola “democrazia” un termine senza corrispettivo nella realtà quotidiana. E che ha nell’astensionismo al 50% la riprova di uno scollamento irrimediabile tra classe politica e Paese reale.
Fermare la corsa all’impoverimento popolare e al declino definitivo del paese richiede, in modo ormai evidente, davanti ai rischi di guerra mondiale che si sommano e superano quelli della crisi economica, una rottura decisa con il tran tran degli ultimi 40 anni.
Una rottura, in primo luogo, con i vincoli esterni che ogni governo – e ancora di più quello Meloni – ha rispettato, difeso, esteso, fino alla paralisi.
Parliamo del vincolo europeo all’austerità, che ha vanificato persino 30 anni di tagli e di “avanzo primario” senza mai ridurre il debito pubblico (che anzi è sempre cresciuto...). E del vincolo Nato che sta trascinando l’Europa e il mondo intero verso la notte nucleare, che rischia addirittura di anticipare quella ambientale e climatica.
Occorre una rottura decisa per determinare almeno la possibilità di decidere autonomamente, come classi popolari, le modalità per risollevare il Paese, dare un futuro alle nuove generazioni, costruire un equilibrio di giustizia sociale che spezzi il circolo vizioso delle diseguaglianze in perpetua crescita.
Fuori del sedicente “giardino” occidentale e neoliberista il mondo sperimenta nuove strade, percorsi, relazioni, progetti. E cresce, al contrario di quanto avviene qui.
C’è spazio per cambiare. Ma bisogna rompere quei vincoli, a cominciare dal governo Meloni, il più fascista della storia del dopoguerra.
È tempo che tutto questo si manifesti apertamente, nelle piazze di questo paese, dando visibilità e contenuti ad una rottura sempre più necessaria.
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