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17/03/2024

La guerra e la critica dell’economia politica

La guerra – riguardata nella lunga prospettiva – rappresenta un organo esecutivo acceleratore (ma talvolta è anche un freno) del generale sviluppo economico-sociale. Il ruolo attivo di questo complesso nel quadro della totalità sociale, nella interazione con lo sviluppo economico, lo si riscontra nel fatto che le conseguenze di una vittoria o di una sconfitta possono modificare il cammino dell’economia in generale per un periodo più o meno lungo. Ma che l’economia costituisca il momento soverchiante, qui appare con nettezza ancora maggiore che nella lotta di classe.

György Lukács, Ontologia dell’essere sociale, vol. II°, trad. it., Roma 1981, p. 248.

1. La guerra come forma del lavoro sociale

La prima domanda che occorre porsi per definire la guerra (qui intesa nella sua accezione moderna e contemporanea) riguarda la natura generale e reale della guerra, interpretata non in senso figurato o nelle sue espressioni più generiche di lotta o conflitto o conseguenza di decisioni umane o di reazioni emotive da parte di singoli uomini o di interi popoli.

Così, per rispondere a questa domanda si potrebbe partire da un raffronto tra il processo bellico e il processo lavorativo, cercando di porre in luce la somiglianza e, al tempo stesso, la differenza tra i due tipi di processo. In altri termini, la domanda che ora va posta è la seguente: è possibile considerare la guerra come una forma di lavoro?

«In primo luogo il lavoro – scrive Marx nel Capitale – è un processo che si svolge fra l’uomo e la natura, nel quale l’uomo, per mezzo della propria azione, media, regola e controlla il ricambio organico fra se stesso e la natura: contrappone se stesso, quale una fra le potenze della natura, alla materialità della natura».[1]

Qui emerge un differenza, poiché la contrapposizione che si svolge nel corso di una guerra non sembra avvenire direttamente tra uomo e natura ma, semmai, tra uomo e uomo. Dal canto suo, Marx, analizzando il lavoro in quanto forma che appartiene «esclusivamente all’uomo», distingue fin da principio in esso lavoro una «volontà conforme allo scopo» e uno sforzo fisico.[2]

L’attività conforme allo scopo, il mezzo di lavoro e l’oggetto del lavoro costituiscono secondo Marx i tre momenti del processo lavorativo, fermo restando che la terra in generale è l’oggetto del lavoro umano, il serbatoio e la dispensa naturale dell’uomo.

Sennonché, proseguendo nel raffronto tra i due processi potrebbe sembrare che, mentre il risultato del processo lavorativo è un prodotto, il risultato del processo bellico sia un rapporto, nel senso di una divisione (o distruzione) di prodotti. Del resto, lo stesso Clausewitz definiva la guerra «null’altro che una reciproca distruzione».[3]

La terra, inoltre, come obiettivo del lavoro bellico, si presenta come oggetto di appropriazione più che di trasformazione, mentre come mezzo generale si presenta come arma di lotta. Infine, si potrebbe osservare che, fin dall’antichità, viene considerato come tratto specifico della guerra e del processo bellico sia il carattere antagonistico dei rapporti nei quali esso si svolge, sia il carattere violento di tale antagonismo.

Tuttavia, va precisato che né l’antagonismo né la violenza nascono con la guerra o si estinguono con la guerra; con la guerra, piuttosto, essi si accentuano. Da questo punto di vista, nello svolgersi dell’azione umana in generale il passaggio da uno stato di guerra ad uno di pace (intesa come assenza di guerra), e viceversa, può essere configurato come un mutamento qualitativo determinato da mutamenti quantitativi.

Per ciò che concerne la guerra nelle sue forme più complesse – quindi proprie di società schiavistiche, feudali, capitalistiche – è necessario rilevare che essa prima di tutto va posta in relazione con le forme più complesse del processo lavorativo.

Sebbene ciascuna di queste forme storiche della produzione sociale sia caratterizzata da forme specifiche di antagonismo e di violenza, per il momento l’antagonismo da focalizzare è quello classico suscitato, secondo l’approccio analitico marxista, dalle contraddizioni tra un sistema di rapporti di produzione e di proprietà, da un lato, e le forze produttive operanti nel quadro di tale sistema, dall’altro.

In questa sede, va sottolineato come i vari contrasti antagonistici inerenti ai processi della produzione sociale siano il prodotto di contraddizioni strutturali, e come gli antagonismi inerenti ai processi bellici siano il prodotto delle medesime contraddizioni, ma solo quando hanno raggiunto un livello determinato di acutezza.

Ciò significa che l’antagonismo che si manifesta nelle forme complesse del processo bellico non trae origine dal processo bellico stesso, ma dalle contraddizioni ìnsite nelle forme complesse del processo lavorativo e negli stessi rapporti di produzione, quali si configurano in un momento dato dello sviluppo delle forze produttive.

Da questo angolo visuale, si tratta allora di modificare l’aforisma clausewitziano della guerra come “continuazione della politica con altri mezzi”, nel senso che il processo bellico è la continuazione del processo produttivo in una forma qualitativamente nuova, ma quale risultato di modificazioni quantitative connesse all’accrescersi, oltre un certo limite, del numero o della frequenza o dei contrasti nella società.

Occorre poi tenere nel debito conto un altro carattere comune tanto al processo bellico quanto al processo lavorativo, considerati nelle loro forme storiche e sociali: la cooperazione. Quest’ultima procede di pari passo con la divisione del lavoro (si pensi al passaggio dalla manifattura alla grande industria) ed è il fattore propulsivo che determina sia l’accrescimento della forza produttiva del lavoro sia la creazione di una “forza di massa”.

Lo stesso Marx, per meglio rendere l’idea della cooperazione, sceglie un esempio tratto dalla storia militare: «Come la forza d’attacco di uno squadrone di cavalleria o la forza di resistenza di un reggimento di fanteria è sostanzialmente differente dalle forze di attacco e di resistenza di ogni singolo cavaliere o fante, così la somma meccanica delle forze dei lavoratori singoli è sostanzialmente differente dal potenziale sociale di forza che si sviluppa quando molte braccia cooperano contemporaneamente a una stessa operazione indivisa».[4]

E ulteriori analogie[5] tra processo lavorativo e processo bellico derivano dal fatto che, come l’anarchia della divisione sociale del lavoro in regime di libera concorrenza si accompagna al dispotismo della divisione del lavoro nell’unità produttiva capitalistica, così, a maggior ragione, l’anarchia della “divisione del lavoro” bellico tra le forze contrapposte si accompagna al dispotismo che contraddistingue i rapporti nell’ambito di ciascuna forza armata.

Al lavoratore, inoltre, che all’inizio controlla se stesso e che più tardi viene controllato, può farsi corrispondere il guerriero che storicamente attraversa una evoluzione analoga.

Parimenti, al processo lavorativo che all’inizio riunisce lavoro intellettuale e lavoro manuale e che più tardi vede separarsi il primo tipo di lavoro dal secondo, e dividersi il lavoratore intellettuale dal lavoratore manuale, può farsi corrispondere il ‘processo lavorativo’ nell’ambito di una singola formazione militare, dalla pattuglia all’esercito: processo che all’inizio vede riunite in ciascun guerriero le funzioni della decisione, del comando e dell’esecuzione e che più tardi vede divise fino all’antagonismo quelli che oggi si chiamerebbero gli ufficiali e la truppa.

Marx nota infine, ricapitolando la sua analisi comparativa, che la «guerra è sviluppata prima della pace», che «determinati rapporti economici come il lavoro salariato, le macchine ecc. si sono sviluppati prima attraverso la guerra e negli eserciti» e poi «all’interno della società borghese».[6]

2. La guerra come appropriazione violenta di beni

A questo punto, si possono formulare alcune ipotesi sul rapporto guerra-lavoro, sulla natura della guerra in generale e sul nesso tra antagonismo, violenza e cooperazione.

Guerra o non-guerra, in primo luogo è sempre questione di attività sociale umana che si svolge in determinate condizioni storiche e sociali, avente anch’essa per scopo, per ciascuna delle parti contrapposte, la difesa di condizioni di esistenza determinate o la conquista di condizioni nuove.

Quanto ai motivi reali, è sempre questione di proprietà dei mezzi di produzione fondamentali, a partire dalla terra come “mezzo generale” e come “condizione oggettiva” della produzione sociale; e questo per quanto nobili o abbietti siano i motivi dei singoli, dall’ultimo dei non-combattenti al principale dei comandanti civili e militari.

Al di là delle intenzioni dichiarate, combattere per la “liberté-égalité-fraternité” o per (o contro) la libertà, l’indipendenza e l’unità nazionale del proprio o di un altro popolo, implica pur sempre l’esistenza di un problema di conquista o di difesa di una proprietà dei mezzi di produzione, che si tratti di guerra fra Stati, o tra fazioni o classi all’interno di uno Stato, e che la posta sia la terra stessa come territorio di residenza o come serbatoio di risorse, oppure il capitale finanziario.

Il che significa, in altri termini, che fino a quando esisteranno problemi di appropriazione, in forma più o meno esclusiva, di mezzi di produzione fondamentali, la guerra sarà sempre inevitabile. In tal modo, la guerra, che si tratti di una guerra imperialista o di difesa nazionale, di una guerra dinastica o di una crociata, di una guerra partigiana o di una guerra feudale, conserva sempre un preciso significato economico, almeno dal punto di vista del risultato.

Dal punto di vista della forma dell’azione, questo significato, come si è visto, si mantiene, se non altro perché le guerre, in quanto si producono su questa terra, oltre che in contesti sociali come totalità comprendenti le parti contrapposte, restano la “continuazione” di processi che si rivelano, in primo luogo e in generale, processi di produzione sociale.

Ciò, tuttavia, non esclude (anzi, in un certo senso presuppone) che il carattere dell’azione bellica sia anche politico, di lotta politica, almeno nella misura nella quale le guerre sono risultati di due o più “attività conformi allo scopo” poste in essere da intere collettività umane, quindi con un antagonista soprattutto come soggetto e l’altro soprattutto come suo oggetto.

3. Il concetto di forza militare

Da quanto detto risulta che la forza militare è una forza sociale. Ciò basta a comprendere l’aspetto sostanziale di tale forza. Infatti, nel corso di una guerra si consumano di solito munizioni, viveri, armi e, ovviamente, effettivi: componente della forza, pertanto, è la capacità di produrre e riprodurre in tempo utile ciò che viene consumato, affinché l’azione raggiunga il suo scopo.

Inoltre, i singoli combattenti posseggono ciascuno una potenza determinata; ma anche tale potenza fisica è un risultato della capacità produttiva (e riproduttiva) dell’unità sociale nel suo insieme, e non soltanto dei singoli combattenti o del gruppo da essi formato, in un dato momento. La potenza dei singoli combattenti o dell’intero gruppo armato è tanto maggiore quanto più numerose, diversificate ed efficaci sono le armi disponibili; ma anche tale disponibilità è determinata dalla capacità produttiva dell’unità sociale presa in considerazione.

Del resto, una maggiore abilità nell’uso delle armi o nel modo di condurre l’azione e la lotta armata presuppongono un periodo precedentemente speso per l’addestramento. Infine, si fa spesso riferimento a “fattori morali” o “psicologici” per spiegare taluni elementi di superiorità o inferiorità tra forze militari contrapposte.

Tali riferimenti risultano pienamente plausibili, anche se non sono facilmente determinabili a priori. Per esempio è plausibile pensare ad una superiorità “morale” e “psicologica” del soldato francese durante le guerre della Rivoluzione, rispetto ai suoi colleghi degli eserciti avversari.

Se tuttavia non è questione di qualità innate, il carattere sociale della forza militare risiede nel fatto che tale forza non si riduce alla ‘capacità lavorativa’ di combattenti e non-combattenti, sia singolarmente presi sia nel loro insieme (si pensi, per i non-combattenti, all’importanza del “fronte interno”), e nemmeno soltanto alla società particolare dalla quale il gruppo militare proviene.

Esso risiede anche nel tipo di contraddizioni che accompagnano e contribuiscono a determinare lo sviluppo delle forze produttive, sia nel contesto particolare che comprende, fra le altre, le formazioni sociali contrapposte, sia nell’ambito di ciascun schieramento, sia, infine, all’interno di ciascuna formazione, tra forza militare e società.

4. Le contraddizioni che hanno portato alla guerra mondiale

Resta da precisare, a questo punto, il significato e la natura di tali contraddizioni. La “contraddizione fondamentale” è oggi, secondo la maggioranza degli osservatori, la contraddizione tra gli Usa e la Cina come principali esponenti di due contrapposte egemonie sul mondo capitalistico (quella nordamericano protezionista e quella cinese dirigista).

La contraddizione consiste nel fatto che lo sviluppo di una delle due formazioni socio-economiche non potrebbe aver luogo senza impedire in tutto o in parte lo sviluppo dell’altra, almeno, rispettivamente, come sistemi, e quindi in conformità agli interessi prevalenti dei quali ciascuno Stato è l’espressione.

La qual cosa potrebbe verificarsi in misura sufficientemente ampia da provocare un conflitto generalizzato solo quando, in maniera graduale o improvvisa, venissero a mancare soluzioni alternative all’uno o all’altro antagonista.

Così, ad esempio, la seconda guerra mondiale scoppia non con l’inizio di operazioni militari di uno dei contendenti (si pensi alla Spagna, all’‘Anschluss’, alla Cecoslovacchia), ma solo quando l’attività militare della ‘Wehrmacht’ supera quel limite oltre il quale l’espansione delle potenze dell’Asse secondo la logica che fu loro propria avrebbe impedito lo sviluppo degli Stati capitalistici democratico-borghesi ciascuno secondo la propria logica.

Così, per fare un altro esempio, la prima guerra mondiale scoppia non con un inizio di operazioni militari da parte di uno dei contendenti (si pensi alle guerre balcaniche), ma quando le condizioni poste dalle potenze centrali nel loro ultimatum, come condizioni necessarie per lo sviluppo imperiale, risultarono “impossibili” per le potenze dell’Intesa.

D’altra parte, nonostante le denunzie moralistiche dell’irrazionalità della guerra in generale, non sembra che si possa dubitare che essa abbia avuto luogo nel quadro di una razionalità che fu quella propria del capitale finanziario, nel senso leniniano del termine. E questo sia per ciò che riguarda la condotta delle operazioni, sia dal punto di vista dei costi che ciascuna delle parti sarebbe stata disposta a sopportare e a far sopportare.

Certamente, non furono gradite a nessuno le distruzioni di impianti, costruzioni, installazioni, mezzi di trasporto e via dicendo, nonché i consumi in quelle proporzioni di rifornimenti, munizioni, interi corpi d’armata ecc. Sgraditi sicuramente furono anche i sacrifici di intere istituzioni monarchiche più o meno assolutistiche (ovviamente per i fautori delle medesime).

Ma in fondo gli impianti e le installazioni si sarebbero potuti ricostruire anche meglio di prima, le scorte si sarebbero potute ricostituire, anche in termini di forza-lavoro; nemmeno le istituzioni monarchiche, nonostante la loro funzione, avrebbero rappresentato delle perdite intollerabili dal punto di vista del sistema. Nulla insomma di tutto questo rappresentava una componente essenziale del sistema vigente, sia all’interno che sul piano internazionale.

Ciò che invece, per le classi dominanti, sarebbe stato assolutamente intollerabile, cioè tale da suggerire l’interruzione della guerra in corso, a qualunque punto essa fosse giunta, sarebbe stato il pericolo reale di un cambiamento del sistema stesso (come si vide chiaramente nei mesi e negli anni successivi alla vittoria della rivoluzione d’ottobre in Russia).

La “forza”, in altri termini, delle parti impegnate nel conflitto dal punto di vista soggettivo non fu né la “politica” né il governo né il comando militare supremo in quanto tali, bensì innanzitutto la proprietà della parte decisiva del capitale finanziario. Lì stava il centro delle decisioni fondamentali e lì ovviamente la principale responsabilità. Tutte le altre componenti della società si trovarono nella condizione di strumenti, di parti, anzi, dei meccanismi complessivi rappresentati dalle varie formazioni imperiali.

Questi ultimi, che si trattasse della Francia, della Gran Bretagna, del II Reich o dell’impero asburgico ecc., furono parti del sistema mondiale da essi dominato e facente capo al capitale finanziario internazionalizzato. Se dal conflitto uscirono sconfitte le formazioni più “deboli” e vittoriose le formazioni più “forti”, non fu questione di forza o di debolezza legate al maggiore o minore livello tecnologico, alla maggiore o minore quantità di uomini e di mezzi, al maggiore o minore livello organizzativo ecc., o, meno che meno, alle più alte o più basse doti e qualità marziali dei singoli o delle formazioni militari.

Fu invece questione sia del tipo di contraddizione fondamentale all’origine della guerra, sia del tipo di contraddizioni da questa derivate o ad essa legate, all’interno di ciascuna formazione politico-militare e ancor prima di ciascuna formazione economico-sociale coinvolta nel conflitto, sia dello scopo dell’azione militare delle forze tra di loro contrapposte.

5) Le cause materiali dei conflitti militari: la svolta protezionista americana

I massimi rappresentanti della politica internazionale non si peritano di affermare a chiare lettere che la guerra in Ucraina, così come il conflitto israelo-palestinese e, più in generale, i venti di guerra che soffiano impetuosi nel periodo che stiamo vivendo, costituiscono un ‘turning point’ di portata storica non solo sul terreno della definizione dei confini territoriali, ma anche nel senso che gli esiti delle guerre in corso potrebbero contribuire a delineare il volto del futuro economico mondiale. Sono in gioco, per l’appunto, le cause materiali dei conflitti militari, ossia gli interessi economici che muovono i conflitti militari contemporanei, in Ucraina e nel resto del mondo.

Orbene, per comprendere questo determinante ordine di cause occorre partire, a giudizio di taluni analisti economici, da una grande svolta che da diversi anni caratterizza la politica economica degli Stati Uniti d’America: la crisi finanziaria del 2008.[7] In quella congiuntura critica gli americani si sono resi conto, infatti, che stavano importando molte più merci di quante ne riuscissero ad esportare, e che così stavano accumulando un ingente debito verso l’estero, non solo pubblico ma anche privato: un debito potenzialmente insostenibile. Basti pensare che il passivo netto americano verso l’estero è arrivato a 18.000 miliardi di dollari, un primato negativo senza precedenti. Di contro, l’attivo netto cinese verso l’estero è arrivato a 4.000 miliardi, l’attivo netto russo a 500 miliardi, e così via. Sennonché il problema è che il creditore può utilizzare il suo attivo per cominciare ad acquisire il capitale del debitore. In altre parole, l’Oriente può iniziare a comprare aziende occidentali, ponendo in atto quel fenomeno che Marx definisce come “centralizzazione del capitale” in un nucleo ristretto di grandi imprese. Tale tendenza è tipica del capitalismo; la novità però è che, questa volta, si tratta di grandi imprese orientali.

Dinanzi a questa nuova tendenza, di una potenziale centralizzazione capitalistica nelle mani dei grandi creditori orientali, dal 2008 in poi l’amministrazione americana ha compiuto una svolta: non più verso il libero scambio globale ma verso un protezionismo sempre più unilaterale e aggressivo. Del resto, le avvisaglie di questa linea risalgono alla presidenza di Obama, mentre il suo pieno sviluppo si è avuto con la presidenza di Trump e, in piena continuità con questa, sotto la presidenza di Biden, confermando in tal modo che il protezionismo è una questione decisiva per gli interessi economici statunitensi. La storia, d’altronde, ci insegna che questi mutamenti unilaterali, nella fattispecie il passaggio dal globalismo al protezionismo, sono stati spesso sorgenti di conflitti economici sfociati poi in vera e propria guerra militare, che è quanto dire in un classico conflitto imperialista.

Così, le rimostranze dei creditori orientali verso la svolta protezionista americana rappresentano chiaramente un indizio significativo, anche se non il fattore decisivo, per comprendere l’origine delle attuali tensioni internazionali. In questo senso, l’Ucraina è diventata uno dei molteplici focolai di una contesa che non ha semplicemente a che fare con i temi tradizionali della geopolitica (sovranità, sicurezza, confini), poiché è l’espressione di un colossale scontro capitalistico in atto a livello mondiale: scontro che ha una sua precisa base materiale, di carattere economico. E il fatto che l’Unione europea si sia accodata all’aggressiva linea americana, pur non avendo un problema di debito verso l’estero, è la dimostrazione inoppugnabile della sua debolezza politica e della sua complementarità strategica rispetto alla potenza egemonica degli Stati Uniti.

6. Le cause economiche del conflitto russo-ucraino

Nei paragrafi precedenti di questo articolo è stato esposto, circa la natura e il significato della guerra, un reticolo concettuale ricavato dalla teoria marxista. Vediamo ora come, tenendo presente questo reticolo, si possa giungere a definire non solo sul piano del rapporto guerra-lavoro, quindi a livello della produzione, ma anche sul piano del mercato mondiale, quindi a livello della distribuzione, del consumo e dello scambio, le coordinate fondamentali del conflitto russo-ucraino.

Per questa analisi delle cause economiche del conflitto russo-ucraino, inquadrato in una specifica congiuntura critica della formazione imperialistica mondiale, sono debitore all’importante libro di Giulio Palermo, Il conflitto russo-ucraino. L’imperialismo USA alla conquista dell’Europa, Roma 2022.

Orbene, la prima cosa che va detta riguardo al testo in parola è che esso è imperniato sul concetto di imperialismo elaborato da Lenin nel celebre saggio del 1917 intitolato L’imperialismo fase suprema del capitalismo. Scrive Lenin: «L’imperialismo è il capitalismo giunto a quella fase di sviluppo in cui si formano il dominio dei monopoli e il capitale finanziario, l’esportazione del capitale ha acquistato grande importanza, è cominciata la ripartizione del mondo tra i trust internazionali, ed è già compiuta la ripartizione dell’intera superficie terrestre tra i più grandi paesi capitalistici».[8]

Laddove è opportuno precisare che, secondo la classica definizione formulata da Rudolf Hilferding e ripresa da Lenin, il capitale finanziario risulta dalla fusione tra il capitale bancario e il capitale industriale. Una volta fissate tali coordinate, l’autore del libro in questione ricostruisce la storia e i retroscena del conflitto russo-ucraino, precisando che esso non inizia nel febbraio 2022 e non ha come protagoniste soltanto la Russia e l’Ucraina, bensì da un lato la Russia e dall’altro l’alleanza imperialista Ucraina + Nato + Ue.

Mentre suscita perplessità la tesi dell’autore, secondo la quale gli Usa e la Cina sono accomunati dalla stessa natura imperialistica, appare interessante e anche convincente la tesi secondo cui la Russia va esclusa dal campo propriamente imperialistico in quanto non può essere inquadrata nelle classiche coordinate di tale campo testé indicate.

Che la Russia sul piano militare non sia orientata all’espansione è infatti dimostrato, secondo l’autore, dal fatto che le principali basi militari all’estero rimaste alla Russia dopo il crollo dell’Unione Sovietica si trovano in paesi ex-sovietici (con l’eccezione della Siria in cui la presenza russa è stata richiesta esplicitamente dal governo del Presidente Bashar al-Assad).

Dal punto di vista economico, poi, viene sottolineato il fatto che, a differenza delle potenze imperialistiche che si caratterizzano per la massiccia esportazione di capitali, la Russia esporta principalmente merci, mentre nei rapporti con l’estero utilizza i rapporti finanziari soltanto come uno strumento funzionale allo sviluppo dei rapporti commerciali, ma non come un obiettivo strategico.

La tesi principale di Palermo è che al centro del conflitto tra i diversi interessi imperialistici vi è il controllo delle “nuove tecnologie”, e proprio tale obiettivo spiega perché «in questo processo, la Russia e l’Ucraina non sono certo protagoniste» (p. 67): i protagonisti, infatti, sono e restano i capitali statunitensi e quelli cinesi.

A questo proposito, l’autore pone in risalto il fatto che il processo di unificazione europea, lungi dall’avere lo scopo di affrancare il vecchio continente dalla subordinazione agli Stati Uniti, si configura in realtà come la creazione di un satellite dell’impero nordamericano, talché «la nascita dell’Ue e dell’euro non costituiscono affatto una sfida al capitale Usa e all’egemonia del dollaro» (p. 94).

La prova della natura artificiale e della funzione meramente sussidiaria della Ue rispetto all’imperialismo Usa viene esposta là dove l’autore rileva che «la Ue ha inoltre un problema storico strutturale, un peccato originale che si porta dietro dalla nascita: l’Ue non è una nazione, non ha un sistema fiscale e non ha un esercito» (p. 68).

Sennonché la categoria di imperialismo rivela tutta la sua produttività dal punto di vista conoscitivo, allorquando viene applicata all’analisi del conflitto intra-imperialistico (ossia tra i vari capitali di una stessa potenza imperialistica) mediante la ricognizione puntuale della composizione del potere economico statunitense, delle contraddizioni che lo attraversano e dei fattori di convergenza che lo cementano nell’attuale congiuntura: «Lo scontro interno al capitale finanziario [statunitense] è guidato dai settori ad alta tecnologia (aerospazio, finanza, armi, elettronica, informatica, mass media, farmaceutica, ‘green economy’) ai danni dei settori tradizionali (petrolio-gas-carbone, trasporti, turismo, agricoltura, manifatturiero, immobiliare, alimentare, tessile)» (p. 71).

Esaminando i fattori di convergenza tra i due settori, l’autore afferma che questi prevalgono sui fattori di divergenza, poiché nell’attuale congiuntura critica «lo scontro interno al capitale statunitense si scarica sul contesto russo-ucraino in due modi: primo, accelerando il processo di penetrazione dei capitali verdi […] in Europa; secondo, offrendo sbocco al settore petrolifero Usa, in difficoltà sul fronte interno […].

Un’accelerazione delle tensioni in Ucraina piace in effetti a entrambi gli schieramenti: da una parte consente alle multinazionali green di andare alla conquista del mercato europeo; dall’altra, dà modo alle compagnie petrolifere di rifarsi all’estero della sconfitta subita in patria» (p. 75).

Del resto, lo stesso discorso vale, a livello strettamente politico, per la complementarità (“le due ali dell’aquila”) tra la strategia di Trump e la strategia di Biden, fermo restando che, pur avendo esse in comune l’obiettivo strategico (attaccare la Cina), la strategia di Trump punta a distaccare la Russia dalla Cina e a stabilire con la prima un ‘modus vivendi’ per poi rivolgere il colpo fondamentale contro la seconda, mentre la strategia di Biden mira a piegare definitivamente la Russia dividendola in più tronconi mediante l’arma delle “rivoluzioni colorate” e proseguendo, a tal fine, la penetrazione militare in Asia centrale, così da realizzare in prospettiva l’accerchiamento della Cina.

È evidente che la differenza tra queste due linee consiste nel grado di pericolosità insito in esse: se prevale la strategia di Biden ogni indebolimento della Russia rappresenta un passo in più verso la guerra mondiale, mentre è un dato di fatto indiscutibile che Trump non abbia iniziato alcuna guerra durante il suo mandato (il che, beninteso, non prova che egli non sia un guerrafondaio, non avendo goduto, purtroppo o per fortuna, di un secondo mandato consecutivo).

L’autore delinea quindi il profilo strettamente economico dell’attuale congiuntura critica, svolgendo alcune importanti considerazioni sul rapporto debito pubblico/Pil, sottolineando che tale rapporto è un fattore determinante rispetto alla valutazione della solidità di uno Stato e ponendo a confronto l’incidenza di tale fattore nei casi rispettivi della Russia e degli Stati che fanno parte dell’Unione monetaria europea (Ume).

In tal senso, esaminando le sanzioni degli Usa e della maggioranza degli Stati europei contro la Russia e le efficaci risposte di quest’ultima all’offensiva sanzionatoria, egli scrive quanto segue (p. 56): «La Russia è solida: […] i dati di finanza pubblica sono assolutamente invidiabili. Il debito pubblico è pari al 17,7% del Pil, il nono più basso del mondo, contro il 90,0% dell’Ue, il 97,2% della zona euro, il 128% degli Usa, il 93,9% del Regno Unito» (e, aggiungiamo noi, il 140,3% dell’Italia, quinto paese con il debito pubblico più alto del mondo: dato fornito dal Fmi nel 2023).

Dopodiché l’autore precisa che «per anni il problema del debito pubblico è rimasto confinato ai Piigs [Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia, Spagna], caratterizzati da un alto rapporto debito/Pil. Tuttavia, il rallentamento della crescita e i piani di rilancio, interamente a debito, lo trasformano ora in un problema generale» (p. 102).

La conclusione cui giunge infine l’autore è che la partita con la Russia è un momento dello scontro imperialistico globale sul controllo delle nuove tecnologie, scontro che vede gli Stati Uniti e la Cina come principali protagonisti.

In gioco non vi sono solo le vecchie ostilità politiche e i piani di conquista militare definiti all’indomani del crollo dell’Unione Sovietica, ma l’instaurazione, in tutto il mondo, di un nuovo modello di rapporti economici e sociali incentrato sulle nuove tecnologie.

Da questo punto di vista, il continente europeo costituisce la scacchiera, ma gli scacchi sono per lo più americani e russi e, sullo sfondo, cinesi. La strategia europea semplicemente non esiste; esistono soltanto interessi economici convergenti e divergenti tra settori e tra Stati. A comandare sono i settori finanziari e dell’alta tecnologia, forti soprattutto nei paesi nordici della zona euro, quelli maggiormente integrati con i capitali statunitensi.

Sono questi gli attori europei che più hanno da guadagnare in questo conflitto. Gli altri settori e gli altri paesi, così come la classe lavoratrice dell’Europa intera, sono invece quelli che devono pagare il conto di questa convergenza di interessi tra i blocchi del capitale finanziario statunitense ed europeo in conflitto con il capitale cinese.

Note

1) K. Marx, Il capitale, 1867, trad. it. Torino 1975, p. 215.

2) Ivi, p. 216.

3) K. von Clausewitz, Della guerra, 1832-34, trad. it. Milano 1975, IV, 5.

4) K. Marx, Il capitale, cit., p. 398.

5) Forse, essendo la connessione fra i due processi sia funzionale sia strutturale, quindi di carattere organico, sarebbe più corretto parlare (non di analogie ma) di omologie.

6) Id., Grundrisse, 1857-58, trad. it. Torino 1976, pp. 34-35.

7) Cfr. E. Brancaccio, R. Giammetti, S Lucarelli, La guerra capitalista. Competizione, centralizzazione, nuovo conflitto imperialista. Milano 2022. Dopo la prima guerra mondiale, nel 1919, John Maynard Keynes spiegò nel suo saggio su Le conseguenze economiche della pace che il principale fattore di conflitto tra gli Stati è il debito: il rapporto tra i debitori e i creditori porta molto facilmente, se non inevitabilmente, alla guerra. Questo approccio interpretativo keynesiano, mescolato ecletticamente con frammenti di categorie marxiane e leniniane, fornisce un esempio interessante del valore e dei limiti del contributo conoscitivo che la cultura accademica ‘di sinistra’ è in grado di fornire circa il rapporto tra guerra ed economia.

8) Vladimir Ilic Lenin, L’imperialismo fase suprema del capitalismo, in Opere scelte, Roma 1965, p. 639.

Fonte

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