Si è svolto ieri il quarto round di incontri sul nucleare iraniano, in Oman. È stato previsto un quinto incontro, la cui data deve ancora essere fissata e durante il quale continuerà il dialogo, in particolare su aspetti tecnici. Ma il confronto di ieri ha segnato un aumento delle tensioni, in particolare per l’irrigidimento delle posizioni statunitensi.
Infatti, gli scorsi giorni Trump si era sbilanciato in maniera netta sul futuro del programma nucleare di Teheran. Il tycoon, intervistato nel programma radiofonico del conservatore Hugh Hewitt, aveva affermato che per quanto riguarda le centrifughe nucleari iraniane “ci sono solo due alternative: farle saltare in aria con le buone o con la violenza”.
Non è la prima volta che viene minacciato l’intervento militare sulle strutture iraniane per l’arricchimento dell’uranio, da compiersi in accordo e con la partecipazione di Israele. Ma fino a questo punto Washington non aveva mai palesato la volontà di smantellare in tutto e per tutto il programma nucleare dell’Iran.
A fare eco all’inquilino della Casa Bianca è stato anche l’inviato speciale degli Stati Uniti per il Medio Oriente, Steve Witkoff, il quale ha detto che “in Iran l’arricchimento di uranio non dovrebbe più esistere. Questa è la nostra linea rossa. Ciò significa che Natanz, Fordow e Isfahan devono essere smantellate”.
Il ministro degli Esteri di Teheran, Abbas Araghchi, aveva già fatto presente che, stando al Trattato di non proliferazione, “l’Iran ha tutto il diritto di avere il ciclo completo del combustibile nucleare. Posizioni estremistiche e retorica provocatoria non faranno che distruggere le possibilità di successo del negoziato”.
L’accordo è stato favorito anche da Khamenei, ma la riduzione delle percentuali di arricchimento dell’uranio da parte dell’Iran si regge innanzitutto sulla disponibilità a cancellare alcune sanzioni. C’è dunque una posta in gioco che va oltre il ‘semplice’ – si fa per dire – nodo dell’atomica, anche per le geometrie variabili della geopolitica mediorientale.
Gli incontri di Muscat, svoltisi in maniera diretta e indiretta con la mediazione omanita, sono stati valutati come difficili, ma in generale anche come positivi da ambo le parti. Abbas Araghchi ha detto che le discussioni sono state più serie e sono andate maggiormente nello specifico rispetto alle tornate precedenti, ma ha ribadito che il nucleare civile non può essere messo in discussione.
È stato messo in conto un quinto round di confronto, la cui data va ancora definita. Al centro del dialogo vi saranno ancora aspetti tecnici riguardanti il problema dei livelli di arricchimento di uranio. È evidente, però, che proprio mentre la discussione passa nel campo tecnico, in realtà la palla è ormai passata completamente nel campo della politica.
Lo sbilanciamento delle posizioni statunitensi, lamentato anche dalle autorità iraniane insieme alla contraddittorietà espressa rispetto alle affermazioni precedenti, non lascia molto spazio a questioni tecniche, se la volontà di Washington è quella di smantellare il programma nucleare che Teheran considera vitale, e per il quale ha speso ingenti risorse.
L’amministrazione Trump vuole provare ad aumentare la pressione sui vertici iraniani, probabilmente dopo aver ricevuto a sua volta altre pressioni da quelli sionisti. Il dialogo regge, ma è chiaro che se gli USA non faranno un passo indietro rispetto alle ultime dichiarazioni e anche su alcune sanzioni, qualsiasi possibilità di accordo salterà.
E anche se la minaccia dell’intervento militare è stata ripetuta più volte, bisogna considerare che tutto il settore mediorientale si muove su equilibri fragili e collegati. Un attacco all’Iran potrebbe far saltare l’appena stipulato cessate il fuoco con lo Yemen, mentre mutano senza sosta le condizioni in Palestina, Siria e Libano.
Trump sta giocando sui tempi e sulle asimmetrie della regione, sapendo però che a forza di tirarla, la corda potrebbe spezzarsi, portando con sé pesanti ripercussioni a catena. Ma è anche chiaro che, con l’assunzione di una posizione così netta sul nucleare iraniano, alla Casa Bianca hanno deciso di voler assottigliare drasticamente i margini per evitare un’ulteriore escalation.
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