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09/02/2014

#Bulle: se l’alternativa alla bulla è la fanciulla in stile medioevale!

C’è un litigio tra due adolescenti. I media parlano di uno scazzo per “motivi sentimentali“, cultura del possesso e affini, insomma. Quel ragazzo è mio e allora ce l’ho con lei che difende quella che lo frequenta e tra una parola e l’altra arrivano i calci in testa, gli schiaffi, l’ha menata, con tutto il pubblico attorno prima divertito, intento a filmare per avere la dose di accessi quotidiana sul proprio post facebook, poi, solo poi, timidamente, una persona interviene, due ragazze, una aiuta la picchiata a rialzarsi e un’altra tiene bloccata la picchiatrice. Commento a posteriori dei presenti: “ha fatto bene perché quella là se l’è cercata“. Di altri pensieri dedicati contro la picchiatrice invece parlo qui.

Su facebook i commenti alla vicenda in ambito femminista sono di vari tipi. Frequentemente si attribuisce la violenza commessa da una persona di sesso femminile al fatto che avrebbe interiorizzato modelli maschili. E’ una visione che se ci ragioni su diventa anche un po’ sessista e omofoba. Lo stesso si dice dei “maschi” quando  si comportano non da “uomini veri” e perciò vengono chiamati femminucce.

Però se è una femminista a dire che una ragazza è un “maschiaccio” qualcuno potrebbe perfino scambiarlo per antisessismo. Vi dico che non lo è. E’ sessismo o è una esasperazione del femminismo della differenza che reputa, a volte, le donne migliori, diverse, perché presumibilmente, geneticamente, per indole, materne, gentili, carucce, con predisposizione al ruolo di cura (e questo pensiero ci obbliga ad assumere i ruoli di genere di madri/mogli/badanti/infermiere/servizievoli) e in generale semplicemente vittime.

Sei vittima quando ti picchia un uomo e anche quando sei tu a picchiare. Lui è un carnefice quando picchia una donna e lo è anche quando è lei che picchia qualcun@. La dicotomia vittima/carnefice non ammette deroghe. E’ così e basta.

L’altro commento che deresponsabilizza la ragazza è quello che punta sul mancato aiuto da parte dei presenti.  Qui si sollecita un paternalismo e un patriarcato (buono) di ritorno. I ragazzi, teoricamente addestrati a percepire la grave violenza giusto se quella viene inflitta da un uomo, dovrebbero intuire la pericolosità di quel che sta avvenendo ai danni di una ragazza picchiata da un’altra ragazza e intervenire. Ma la stessa indifferenza la trovi spesso quando c’è di mezzo una azione di bullismo. Ci sono ragazzini e ragazzine che ridono se un ragazzino inerme viene picchiato e molestato, siamo nella società dello spettacolo in cui basta una telecamera a prendere distanza dai sentimenti e di empatia se ne realizza zero. Filmare una scena sembra essere l’unico modo per intervenire. Tanto per divertirsi. E’ tutto qui.

Troppe contraddizioni e ancora serve fare chiarezza. C’è la cultura antiviolenza che ragiona di violenza di genere, quella inflitta in relazione al ruolo di genere che ti viene imposto (sei mia, di nessun altro, il tuo corpo è mio e quindi non puoi abortire, tu mi appartieni, il tuo corpo è oggetto e non tengo conto della consensualità perciò ti stupro, eccetera) che giustamente si riferisce all’assoggettamento del corpo femminile alle imposizioni di una cultura che quei corpi li vuole obbedienti rispetto ad una cultura patriarcale. Ma la cultura del possesso te la ritrovi legittimata nelle discussioni tra presunti antisessisti che esaltano il valore della fedeltà coniugale nel caso Hollande, nelle vicende relazionali in cui una lei uccide un’altra lei, sua ex compagna, perchè le ha detto no, in cui un lui, uccide un altro lui perché ha detto no, in cui una lei uccide o delega ad altri di acidificare un suo ex perché, ancora, ha detto no.

Se poi parliamo di stalking viene fuori che ci sono dei violenti che non mollano la ex compagna per anni, lo stesso fanno alcune donne che più spesso esercitano una violenza per interposta persona: se la prendono con le nuove compagne, esattamente come ha fatto la bulla di cui stiamo parlando. Sullo sfondo c’è sempre lo stesso motivetto che recita un “sei mio e di nessun altro e quell’altra è una gran zoccola“. Quante volte lo abbiamo sentito? Quante volte lo abbiamo letto? Quanta cattiveria, perfidia, tra donne, si legge anche per queste ragioni? E questa violenza è percepita in quanto tale o piuttosto la affrontiamo di straforo?

Una delle ragioni per cui da anni mi occupo di bullismo tra ragazze e donne è il fatto che penso ci sia un grande velo di omertà che la copre, giustifica, una cultura della quale anche un certo femminismo è in qualche modo complice involontario, perché se insisti nel raccontare che le ragazze e le donne violente, se e quando lo sono, avrebbero introiettato modelli maschili, stai continuando non solo a offrire una giustificazione morale, ché essere considerate sempre vittime ci permette di realizzare la tirannia delle buone intenzioni in modo ampio, ma stai tra l’altro costringendo in un ruolo di genere anacronistico, medioevale, le donne.

Lo stesso ragionamento, in genere, quel certo femminismo lo fa quando c’è da giudicare (male) le ragazze che scendono in piazza e lanciano sanpietrini. “Violente”, le chiamano, dicono che si tratti di machismo perché le donne sono rosa e al più vanno in giro con il rosario (scherzo!), nel senso che le brave signorine fanno balletti per sensibilizzare la gente, non si difendono dal lancio dei lacrimogeni indossando una maschera antigas e lanciandoli indietro. Non è da femmina. Sono gli uomini quelli che combattono (anche per i nostri diritti?) e che resistono. Le donne dovrebbero restare a casa a fare la calza. Si si. Vaglielo a dire alle partigiane e alle combattenti di mezzo mondo.

Il punto è che non siamo angeliche, non siamo sempre vittime e non siamo in attesa di patriarchi e tutori che ci salvino. Bisogna liberare l’aggressività, la rabbia, in senso positivo e ci sta che quella aggressività e rabbia sia usata in senso negativo. A quel punto bisogna assumercene la responsabilità e offrire un ragionamento che sia un minimo più complesso, senza arginare quella rabbia, senza ricondurci al ruolo di damine ottocentesche timorose di Dio. Rimuovere qualcosa che ci caratterizza, come caratterizza ogni essere umano, non ci fa bene. Non ci fa bene affatto. Perché se non ne parli, se non parli della violenza, diretta o indiretta, che le donne praticano, se ci obblighi entro un sessismo normativo che normalizza le nostre azioni, non ci sarà mai modo di rappresentare il fatto che siamo umane, imperfette, e che dobbiamo assumerci le nostre responsabilità. Solo così, forse, potremo dirigere in positivo l’aggressività e la rabbia liberate, non rimosse.

Un ultimo punto da chiarire e poi vi lascio: le donne uccidono meno, sono “meno” fisicamente violente. E’ vero. Ma lo sono anche perché quella aggressività che sfocia anche in violenza è stata lungamente frustrata, rimossa, repressa da una cultura che ci voleva angeliche, “femminili”, aggraziate, dedite alla cura e bla bla bla. Le donne si sono sentite moralmente in diritto di usare armi e assumere ruoli fisicamente violenti quando la storia, il consenso attorno, lo consentiva (vedi le soldatesse in giro per il mondo). Diversamente, anche perché in passato dal punto di vista fisico le donne erano spesso meno attrezzate di chi aveva più muscoli e sapevano di poter soccombere in uno scontro alla pari, hanno sviluppato altre strategie. Intanto è più plausibile che alcune donne mollino schiaffi ai figli e alle persone più fragili, come dimostrato da ruoli esercitati da donne, pensate alle naziste, in relazione a chi resta in una condizione di totale subordinazione e inferiorità. Poi vi sono molti esempi in cui le donne semplicemente delegano la violenza ad altri. Esaltano la funzione tutoriale e patriarcale per metterla al proprio servizio. Le storie del passato, le opere letterarie, scritte anche da donne, sono piene di esempi di sovrane, nobili, donne manipolatrici che hanno mandato a morire uomini per fare loro combattere guerre che avrebbero voluto sostenere loro stesse. Ancora oggi è più facile leggere che una lei assoldi un killer per fare ammazzare qualcuno piuttosto che compiere un assassinio di persona.

Perciò alcune donne hanno sviluppato una maniera indiretta di esercitare violenza. Il pettegolezzo è un’arma letale, tanto quanto il veleno usato dalle nobildonne di un tempo. La diffamazione continuata contro l’altra persona che si intende colpire, le parole dette qui e là per rovinare la reputazione di qualcun@, la confabulazione, sono pratiche che vedi messe in atto dalle ragazzine sin dall’infanzia. Ai danni della compagna grassa, quella povera, quella bella, quella che viene vissuta come una rivale, perché la competizione non è solo “maschia” ma è una roba delle relazioni umane che appartiene a chiunque, e gestirla malamente e in modo scorretto per togliersi di torno, isolare, fare del male a qualcuno è infatti una delle caratteristiche più frequenti che alcune ragazzine insicure mettono in atto nelle pratiche di bullismo. La stessa maniera di rivolgere odio è pratica corrente di persone di ogni tipo sui social network. Per cui, possiamo dire, che la violenza indiretta è diventata pratica di chiunque.

Oggi le ragazze sono fisicamente meno gracili, non sono provate da anni e anni di gravidanze e non hanno tremila figli da gestire. Sono cresciute in altezza e sono fisicamente dotate di muscoli. Una ragazzina di 12 anni può serenamente mettere al tappeto un coetaneo e l’aggressività nelle fanciulle non è più, per fortuna, così stigmatizzata o quando lo è, purtroppo, viene riproposto in alternativa, di nuovo, il modello della donna angelo, femminile, composta, muta, mai arrabbiata.

Bisogna trovare una via di mezzo a tutto questo. Cominciare con l’ammettere che le ragazze praticano violenza sarebbe una ottima cosa. Serve ragionare dell’argomento senza facili moralismi e pratiche di demonizzazione che sforano nel pregiudizio di genere e alimentano la misoginia. Poi smettere di dire che per “natura” le ragazze dovrebbero tornare a fare le mamme/curatrici dei nuclei familiari o al massimo le intrattenitrici sessuali. Smettere anche di chiamare “violente” le ragazze che reagiscono agli abusi. Istituzionali, fisici. Perché gli stereotipi a volte arrivano anche da chi dice di volerci difendere. E in quel caso non ci difende. Non ci difende affatto.

E no, neppure questa ragazzina è un mostro. Il fatto di volerla fare sembrare tale, con il rilievo dato sui media, per la stranezza che secondo molti i calci dati da una ragazza rappresenterebbero (ché viene considerato più normale se a darli è un ragazzo) implica che non si vuole vedere il fenomeno per quel che è. Parlare di violenza senza demonizzare nessuno, che siano donne o uomini, sarebbe già un inizio.

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