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14/02/2014

L'incredibile errore di Matteo Renzi

L'adrenalina del potere. È solo con questa motivazione che può essere spiegata la decisione di Matteo Renzi di abbattere con una spallata Enrico Letta e marciare verso Palazzo Chigi. È l'adrenalina, simile a quella che ti sale quando ottieni tanti successi consecutivi e quindi ti senti invincibile, che in politica deriva dalla possibilità di mettere le mani sullo scettro del potere, di sedere nel posto di comando. A questa tentazione è difficile resistere, ma Renzi pareva avere in testa un piano preciso e graduale che lo avrebbe portato prima o poi a governare il paese con un regolare mandato degli italiani. Pareva. Perché invece non ha resistito, e si è subito avventato con voracità famelica sul trono del suo collega di partito Letta, compiendo, con una mossa sola, una incredibile serie di errori.

Vecchia politica
Il primo (lampante) errore è quello di rispolverare un classico della vecchia politica sia della Prima che della Seconda Repubblica: il subentro a legislatura in corso. Proprio lui che ha costruito tutta la sua immagine e il suo successo sul concetto di "rottamazione" (anche perché, o usava quello o non aveva speranze, visto che le sue idee sono sempre state "praline del nulla" per dirla alla Crozza), arriva al potere con un blitz analogo a quelli con i quali la Dc per decenni ha cambiato governi a seconda delle guerre interne tra le varie correnti. Oppure (peggio) come quello che portò al governo D'Alema nel 1998 facendo fuori Prodi. Sembra la pena del contrappasso, perché come tutti ricorderanno, l'uomo simbolo della rottamazione di Renzi, il "rottamato" per eccellenza, è sempre stato proprio Massimo D'Alema. Oggi Renzi arriva al potere con un tradimento fratricida che richiama alla mente proprio il comportamento di D'Alema. Uno sbaglio madornale quindi, perché gli fa perdere improvvisamente quello che era il suo principale punto di forza: essere il "nuovo" che va in discontinuità con i vecchi schemi della politica.

Monti, Letta, Renzi
Il secondo errore è quello di decidere di diventare il terzo premier consecutivo dopo Monti e Letta a salire a Palazzo Chigi senza un chiaro mandato degli italiani. Una scelta in antitesi col suo personaggio "pop" che dice di avere la sua legittimazione perché votato dagli elettori. In questo modo diventa uno dei tanti, un Letta, un D'Alema, un funzionario di partito grigio e noioso. Probabilmente proverà ad autolegittimarsi attraverso l'investitura delle primarie di dicembre, ma sa bene che sarebbe solo una difficilissima arrampicata sugli specchi. I voti (a 2 euro l'uno) delle primarie del Pd infatti non sono ovviamente i voti di tutti gli italiani, e lui tra l'altro ha sempre puntato proprio sul superamento degli elettorati classici, dicendo che voleva andare a prendere i consensi anche tra chi ha sempre votato a destra. Ora invece non solo non li prende, ma lancia addirittura al paese il messaggio che per andare al governo basta vincere la corsa interna a un partito (per 50 anni in Italia è stato così con la Dc), con buona pace del resto degli elettori. Un partito, il Pd, la cui base tra l'altro ha dimostrato ancora una volta uno stato mentale di assoluta confusione, votando prima Bersani e gridando a Renzi quasi come il male assoluto, per eleggere poi in massa (dopo appena un anno) proprio Renzi. Della serie: "checcefrega" dei programmi, andiamo a tentativi.

"Mai più larghe intese"
La coerenza in politica è fondamentale, ti presenta sempre il conto. Renzi ha vinto le primarie di dicembre al grido di "mai più larghe intese". Era lo slogan principale, quello che lo fotografava come l'uomo del superamento degli inciuci e dei compromessi. Oggi, ad appena due mesi da quel proclama ripetuto in continuazione, un governo di larghe intese si appresta ad andare a presiederlo. E anche qui ritorna uno schema classico della vecchia politica, quello delle promesse che durano poco e poi vengono disattese dai fatti. Quello degli slogan vuoti che poi non hanno mai un seguito. Quello che un giorno puoi dire #enricostaisereno (il famoso hashtag su Twitter con cui tranquillizzava Letta) e il giorno dopo farlo fuori senza pietà.

Carta "bruciata"
Un altro errore è quello legato al futuro che poteva avere davanti, anche per la sua giovane età. Avrebbe potuto con molta calma far lavorare il governo Letta oppure, se proprio venivano a mancare i presupposti, farlo cadere ma chiedere di andare subito alle elezioni, dove avrebbe probabilmente vinto dicendo che lui è sempre stato contrario alle larghe intese. E dove avrebbe trovato sia un Movimento 5 Stelle in crescita ma probabilmente non ancora abbastanza forte da poter vincere, sia una destra ancora frastornata dalla decadenza di Berlusconi e dalla frattura Forza Italia-Nuovo Centrodestra. In questo modo invece, se veramente andrà (come dice) fino al 2018, corre il fortissimo rischio di preparare il campo ad una successiva vittoria avversaria (con i 5 Stelle mina vagante che probabilmente riusciranno a limare alcuni dei loro attuali difetti), come accadde nella legislatura 1996-2001, quando il centrosinistra dei Prodi-D'Alema-Amato fu lo spot migliore per la vittoria di Berlusconi. Se questo avvenisse, Renzi si troverebbe ad assistere al film della propria gioventù (politica) bruciata. Si ridurrebbe ad essere l'ennesima "carta persa" del centrosinistra italiano, che dalla Seconda Repubblica in poi, non ha mai azzeccato un leader, visto che hanno sempre perso tutti e l'unico che ha vinto due volte (Prodi) è durato in entrambi i casi meno di metà legislatura.

Re Giorgio
Tornando all'argomento elezioni mancate, c'è da chiedersi perché Renzi non le ha chieste. E la risposta è semplice, perché Napolitano non voleva. Lo ha detto chiaramente pochi giorni fa Re Giorgio, con tono anche molto infastidito: "Elezioni? Non diciamo sciocchezze!". Un diktat passato quasi sotto silenzio, ma molto grave in un paese democratico. Un Presidente della Repubblica che, come un sovrano assoluto, decide autoritariamente che dell'ipotesi elezioni non si può neanche discutere, perché lui ha deciso che non si fanno nonostante la crisi di governo. Renzi, di fronte a questa imposizione, ha deciso di abbassare la testa, legittimando praticamente il potere assolutista del quasi novantenne "padre della patria" Napolitano. E soprattutto lanciando un messaggio con cui (stonando con la sua immagine artificiale di uomo coraggioso e spavaldo) si dimostra debole e incapace di imporsi su una carica non elettiva come quella del Capo dello Stato. Questa mancanza di coraggio è un altro errore strategico.

In definitiva, Renzi ha fatto una scelta abbastanza incredibile, se messa a confronto con la sua strategia comunicativa di uomo che cerca una carriera politica basata sull'avanzamento a furor di popolo. Un autogol maldestro e dilettantesco, una mossa da principiante, o per dirla con le parole di Prodi di cinque giorni fa, un suicidio politico. Se così sarà, noi (che di Renzi abbiamo sempre denunciato le idee pericolose) ovviamente esulteremo.

Per Senza Soste, Franco Lucenti
14 febbraio 2014

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