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06/02/2014

L’italiano, ovvero, la gloria del fallimento


Questo pezzo è uscito sul n. 17 di Artribune. (Immagine: Federico Fellini, 8 e ½)
 
Gli pareva, la Fortezza, uno di quei mondi sconosciuti a cui mai aveva pensato sul serio di poter appartenere, non perché gli sembrassero odiosi, ma perché infinitamente lontani dalla sua solita vita. Un mondo ben più impegnativo, senza alcuno splendore che non fosse quello delle sue geometriche leggi.

Dino Buzzati, Il deserto dei Tartari (1940)

Il suo fascino risiede proprio in questa attitudine ironica (e autoironica) nei confronti della realtà. Un’attitudine che non ha nulla a che vedere con il ridicolo in cui questo Paese si è immerso con voluttà e pervicacia nel corso degli ultimi trent’anni (“È lui o non è lui, è lui o non è lui? Cerrrto che è lui!!!”, recita implacabile Ezio Greggio quando nella scena finale di Yuppies – I giovani di successo a Cortina D’Ampezzo appare in cielo l’elicottero dell’Avvocato), e che invece molto probabilmente rappresenta l’eredità diretta dell’ironia rinascimentale, fortemente connessa con l’idea della fine e con la critica dell’esistente.

È il discendente legittimo degli italiani che seducevano e che seducono gli altri e il mondo con il loro fare sornione; che considerano seriamente gli eventi e il loro rapporto di causa-effetto, senza mai prendersi troppo sul serio: Marcello che invidia l’intellettuale Steiner e che mentre sente di fallire nel suo essere romanziere sta componendo con la sua esistenza il più grande romanzo italiano sul fallimento; Marcello-Guido che in 8 e ½ cercando di sfuggire alle proprie responsabilità “narrative” si inoltra in una forma di narrazione altra, diversa e sconosciuta (e parallelamente Federico-Guido da lì in poi si separa dal se stesso precedente, devia e scava sempre più a fondo in un percorso non-lineare fatto di memoria e di montaggi); Nino Manfredi in Operazione San Gennaro, Per grazia ricevuta, C’eravamo tanto amati e Spaghetti House; Vittorio De Sica che gestisce la difficile relazione tra Neorealismo e melodramma, tra se stesso e il gioco d’azzardo.

Il modello identitario è quello dell’italiano che con strumenti molto spesso scarsi e inadeguati riesce ad approntare un’indagine sorprendente per profondità, per acume dolce e implacabile, perché si nutre di amore per la vita e per l’esperienza.

Ennio Flaiano alle prese con la sceneggiatura-assemblaggio de La dolce vita. Cesare Zavattini e il racconto della sua Luzzara in Un paese. Curzio Malaparte e la cornice “pestilenziale” di Kaputt. Mario Bava e la costruzione di un intero pianeta, durante le riprese di Terrore nello spazio, praticamente con un’unica roccia di polistirolo spostata a mano e inquadrata da mille diverse angolazioni. Sergio Leone e la creazione di un West alternativo che riflette e mima epicamente la Resistenza italiana contro l’occupazione nazista in Giù la testa.

E proprio quando sembra che questo italiano spericolato, furbo e chiacchierone stia per perdere definitivamente l’equilibrio e crollare, precipitando nel buco nero del disastro e dell’autocommiserazione, ecco che ridacchiando assesta un colpo da maestro al cuore stesso della realtà.

Nella storia d’Italia degli ultimi otto-nove secoli ci sono stati innumerevoli momenti di crisi, devastazione, declino, smarrimento: anzi, se proprio la vogliamo dire tutta sono i momenti “ricostruttivi” (e propositivi: Rinascimento, Risorgimento, Neorealismo) a costituire le eccezioni alla regola. Ma la nostra regola è trovarci in un disastro che ogni volta sembra senza precedenti e irrimediabile. Il nostro è il posto più devastato della storia, materialmente e psichicamente.

Il Manierismo e il Barocco nascono da traumi collettivi giganteschi (1527). Due mesi fa sono entrato dopo tantissimo tempo a Sant’Ivo alla Sapienza, e mi sono accorto – o penso di essermi accorto – di una cosa che non avevo mai colto. Sant’Ivo (forse la più bella architettura di tutti i tempi) dall’esterno, dalla strada non lascia sospettare nulla di ciò che c’è dentro. Noi ci troviamo davanti a un muro rossastro, piatto, anonimo, il più anonimo che si possa immaginare; all’interno, Borromini ha costruito questo spazio fantastico, questo spettacolo, questa incredibile simulazione di pietra. Che rivela una sorta di “gloria del fallimento”, molto italiana – che non ha assolutamente nulla a che vedere con il compiacimento del declino e con l’autocommiserazione. Una gloria che attraversa i secoli, gli stili e le forme espressive (è la stessa di 8 e ½, per intenderci): “quello è lo spazio pubblico, lo spazio della strada, lo spazio della politica in cui io artista non posso intervenire (perché so quello che mi succederà se lo faccio, conosco le conseguenze); però, all’interno di questo spazio separato, di questa sorta di eterotopia che è lo spazio della cultura e dell’arte, accetto le condizioni del fallimento e vi faccio vedere quello che è possibile costruire per voi”.

In questo c’è una parte importante, segreta e costante dell’identità italiana, da cui dovremmo ripartire.

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