È bagnata dal sangue di decine di iracheni la campagna elettorale per
le parlamentari del 30 aprile, apertasi martedì scorso, mentre il mese
di marzo si chiudeva con un drammatico bilancio: 592 morti in attentati e attacchi, di cui 484 tra la popolazione civile (dati Onu); oltre duemila persone dall’inizio dell’anno.
La vittoria della coalizione guidata dal premier sciita Nouri
Maliki, in cerca del terzo mandato consecutivo, è data per scontata,
ma le divisioni interne e i tentativi di epurazione dei candidati non
fanno prevedere un risultato netto. Secondo gli analisti, nessuna
formazione politica otterrà la maggioranza dei 328 seggi nel Consiglio dei Rappresentanti,
cui aspirano 9.040 candidati, che dovrà eleggere primo ministro e
presidente. E Maliki ha da temere più dalle fazioni sciite che dal
blocco sunnita.
Sul voto pesano divisioni politiche e un settarismo dilagante che sta facendo tremare il Paese, denunciati pure da Nikolay Mladenov,
inviato speciale delle Nazioni Unite per l’Iraq, che oggi ha avvertito:
“sarà una campagna elettorale all’insegna della divisione”. Mladenov
ha biasimato i partiti, senza però citarne alcuno, che fanno appello
alle appartenenze confessionali invece che al dialogo, mentre le
violenze sono all’ordine del giorno in un Paese con enormi problemi che
alimentano rivalità mai sopite: mancano i servizi essenziali,
dall’acqua all’elettricità; la disoccupazione è a livelli altissimi e
c’è una corruzione diffusa nell’amministrazione.
Inoltre, resta da sciogliere il nodo della provincia
occidentale dell’Anbar, occupata da dicembre dai miliziani qaedisti
dello Stato islamico dell’Iraq e del Levante, che hanno assunto il
controllo di interi quartieri delle città di Ramadi e Fallujah.
La battaglia è in corso, con il suo carico di vittime tra i
combattenti, i militari iracheni e i civili che non rientrano nel
computo delle Nazioni Unite. Non è chiaro se la situazione consentirà il
voto e il governo di Bagdad non ha voluto sentir parlare di rinvii. Le
elezioni, in effetti, sono state messe a rischio dalle dimissioni,
ritirate domenica, della Commissione elettorale che aveva denunciato
interferenze politiche e giudiziarie, riguardo l’estromissione di alcuni
candidati dalla corsa elettorale. La questione ha riguardato
l’interpretazione della legge elettorale che prevede l’esclusione di
candidati che “non godono di buona reputazione”, così nelle scorse
settimane ne sono stati eliminati del partito Baath, ancora legati a
Saddam Hussein, ma anche molti oppositori politici del premier Nouri
Maliki, come l’ex ministro delle finanze Rafa al-Issawi.
E oggi è arrivato il monito del leader sciita iracheno Moqtada al-Sadr,
che a sorpresa si è ritirato dalla vita politica e ha esortato Maliki a
non candidarsi, accusando il suo governo di “costruire una dittatura”
con l’esclusione dei candidati.
Il premier, però, sta giocando le sue carte per restare alla guida
dell’Iraq, un Paese dove è in corso una mattanza quotidiana fatta di
autobombe e kamikaze che esplodono nei mercati, nei luoghi di culto, nei
quartieri affollati di Bagdad e delle altre città. Una conflitto
confessionale, sciiti, ora al potere, contro sunniti che denunciano
vessazioni e discriminazioni. Intanto, oggi la Commissione elettorale ha
accettato la presenza di 667 osservatori internazionali durante le
elezioni.
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