Il 7 agosto la Corte Intermedia del Popolo di Xianning (provincia centrale cinese dello Hubei) ha respinto il ricorso di Liu Han (l’imprenditore a capo del gruppo Hanlong, il più importante del Sichuan) confermando la condanna a morte per lui e per altre quattro persone, compreso il fratello. Liu Han è notoriamente un gangster ed era accusato di reati di corruzione (reato punito con la pena capitale in Cina), pertanto sembrerebbe trattarsi di uno dei tanti casi di condanne a morte per corruzione – come è noto, in Cina le condanne a morte vanno come l’acqua fresca –, ma le cose non sono così semplici.
Il signor Liu Han è un amico di famiglia dell’ex capo degli apparati di Zhou Yongkang, già capo degli apparati di sicurezza cinesi. Ora è in pensione, ma è stato a capo del partito nella stessa regione di Liu Han, il Sichiuan, ed è stato membro del Politburo (il massimo organo del Pcc) sino al 18° congresso, celebrato due anni fa. Zhou è stato il supervisore degli apparati di sicurezza e delle istituzioni incaricate dell’applicazione della legge (agenzie, procure, polizia, forze paramilitari, e organi di intelligence), ed era il figlio di Zhou Bin, il “santo protettore” di Liu. E, infatti ora il figlio è sotto procedimento interno del Partito per “gravi violazioni della disciplina” che, nella liturgia dei comunisti cinesi, è l’equivalente del processo della Santa Inquisizione che, dopo, consegnava il reo al braccio secolare per l’esecuzione.
Ora, appare piuttosto difficile che il padre, che per di più era a capo degli apparati di sicurezza, ignorasse i maneggi del figlio con Liu ed, infatti, tutti danno per scontare che, tacitamente, l’inchiesta coinvolga anche lui. E’ la prima volta, dopo il 1980, (quando furono processati e condannati Jiang Quing, moglie di Mao, ed i componenti della “banda dei quattro”) che non viene inquisito un dirigente di partito di così alto livello, anche se attualmente in pensione. Il che è un segale di notevole gravità sulla situazione interna alla leadership del Pcc.
Lo scandalo è stato sollevato da Caixin, il magazine economico-finanziario di maggior prestigio del paese ed in vaghissimo odore di fronda. Ma questo significa che qualcuno ha fatto arrivare a Caixin l’imbeccata giusta e qualche altro gli ha consentito di pubblicare l’inchiesta.
C’è un particolare interessante: fra i molti interessi del gruppo Halong (servizi finanziari, real estate, gioco d’azzardo, ecc.) erano annoverate diverse imprese minerarie, fra cui alcune nel delicatissimo settore delle terre rare, un terreno minato su cui è molto facile farsi male, soprattutto se si fa contrabbando.
La sensazione molto netta è che questa sia l’avvisaglia di uno scontro interno al partito di ampie proporzioni. Per capire cosa possa significare la ripresa delle lotte al vertice del Partito e dello Stato cinese occorre vedere le cose in prospettiva storica.
I primi trent'anni di vita della Rpc (1949-1979) furono contrassegnati da continue rotture del gruppo dirigente con crisi drammatiche a distanza di pochi anni l’una dall’altra:
- nel 1954 furono Gao Gang e Rao Shushi ad essere estromessi in malo modo dal vertice del partito; poi seguì un precarissimo accordo fra le fazioni nell’VIII congresso del partito (1956) che non pose fine alle continue turbolenze del gruppo dirigente
- nel 1962, dopo il fallimento del “grande balzo” ci fu lo scontro fra Mao Zedong e Liu Shaoqui, momentaneamente vinto da secondo
- nel 1966 iniziò la rivoluzione culturale che, nella sua prima fase, portò alla caduta di Liu Shaoqui e di Deng Xiaoping ed alla vittoria dell’asse Mao-Lin Biao- Chen Boda
- nel 1971 ci fu lo scontro fra Mao e Lin Biao terminato con la morte drammatica del secondo; dopo poco seguirà la caduta di Chen Boda; nel frattempo si assisteva al graduale ritorno sulla scena di Deng Xiaoping
- nel 1973 si affermò una nuova leadership “estremista” della “cricca di Shangai” protetta da Jiang Qing, moglie di Mao, che portava alla seconda caduta di Deng Xiaoping e minacciava anche Chou Enlai
- nel 1976 la morte di Chou Enlai (gennaio) prima e di Mao subito dopo (settembre) riapriva la questione del gruppo dirigente: l’elezione alla presidenza di Hua Guofeng portava, dopo pochi anni, alla caduta ed all’arresto della Banda di Shangai e della stessa Jiang Qing, mentre si assisteva al secondo ritorno di Deng.
Questo convulso periodo si concludeva nel 1979 con la defenestrazione politica di Hua Guofeng e l’ascesa ai vertici di Deng Xiaoping. In trenta anni c’erano state 7 grandi crisi politiche del gruppo dirigente (mediamente una ogni 4 anni), culminate nel periodo della “rivoluzione culturale” (1966-1969) che ebbe i caratteri di una vera e propria guerra civile.
Deng, sconfitta e disgregata la corrente degli eredi della rivoluzione culturale, riuscì a stabilire un patto fra le diverse componenti del partito (gruppo di Shanghai, Tuanpai e “Principi Rossi”), stabilendo un pacchetto di regole certe: i congressi si sarebbero tenuti con cadenza quadriennale ed il gruppo dirigente eletto in un congresso avrebbe potuto essere confermato per un solo mandato successivo, dopo di che, avrebbe passato la mano ad un nuovo gruppo dirigente che si sarebbe insediato seguendo precise procedure, nessuno avrebbe lavorato per estromettere una delle altre correnti e la gestione sarebbe stata sempre unitaria. Nel complesso l’accordo ha retto sino ai nostri giorni assicurando alla Cina quella stabilità del gruppo dirigente (unico incidente di percorso, la deposizione del segretario del partito Zhao Ziyang per i fatti di Tienanmen) che ha consentito il forte sviluppo economico di questo trentennio.
Si sta profilando un ritorno all’instabilità? E’ quello che vedremo presto, nei prossimi 12-18 mesi.
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