di Chiara Cruciati – Il Manifesto
Dopo le operazioni di salvataggio messe in campo da Stati Uniti e peshmerga
per salvare yazidi e cristiani, ora le bombe Usa potrebbero piovere in
Iraq per portare in salvo gli sciiti turkmeni, la più ampia
minoranza irachena – il 9% della popolazione, divisi tra Baghdad, Mosul,
Irbil e Tal Afar. Da giorni è in atto una sanguinosa battaglia tra
esercito governativo iracheno e miliziani jihadisti per il controllo
della città turkmena di Amerli, vicina al Kurdistan iracheno e assediata
dal gruppo di al-Baghdadi da oltre due mesi.
La popolazione in trappola, 12-15mila residenti, è allo
stremo: mancano ormai cibo e acqua, non c’è più elettricità e i
miliziani minacciano di morte tutti quelli che rifiutano di convertirsi
alla personale religione dell’Isis. Decine di migliaia di
turkmeni, prima residenti nelle città oggi occupate, sono stati
costretti alla fuga verso il territorio kurdo, accanto a cristiani,
sunniti e yazidi. La controffensiva guidata dal governo iracheno
potrebbe essere sostenuta dai raid statunitensi: il presidente Obama sta
valutando la possibilità di ordinare bombardamenti a sostegno
dell’esercito di Baghdad e aiuti dal cielo per la popolazione civile,
fanno sapere fonti vicine alla Casa Bianca.
Ai militari governativi, radunatisi a sud della città
turkmena, si aggiungono le milizie sciite: migliaia di combattenti
dell’organizzazione Badr e del gruppo Asaib Ahl al-Haq si sono ritrovati
ieri nell’area di Tuz Khumartu, nella provincia di Salah-a-din, a nord
di Amerli. Pronti a dare battaglia per rompere l’assedio
jihadista. Martedì l’aviazione di Baghdad aveva già sganciato bombe
intorno alla comunità contro le postazioni Isis e nelle settimane
passate aveva lanciato beni di prima necessità e cibo.
Washington è chiamato a decidere a breve sia sui raid ad Amerli che sulla possibilità di un intervento in Siria. Dall’altra
parte del confine, la situazione è ben più intricata che in Iraq e il
timore di finire nella “trappola” di Assad per ora lega le mani ad
Obama. Che per questo valuta l’opzione internazionale: una coalizione di
volenterosi che partecipi all’azione militare contro l’Isis in Siria,
dove da due giorni la Casa Bianca ha avviato voli di ricognizione per
individuare le postazioni dei jihadisti. L’intenzione resta quella di
evitare un coordinamento con il regime di Damasco – come chiesto dal
ministro degli Esteri siriano, Muallem – che darebbe al nemico Assad una
legittimazione internazionale inaccettabile per gli Stati Uniti.
A fare pressioni sono anche le Nazioni Unite: ieri la
Commissione indipendente di inchiesta sulla Siria ha pubblicato un
rapporto di 45 pagine nel quale accusa i miliziani dell’Isis di terribili
atrocità: esecuzioni, flagellazioni, amputazioni e
crocifissioni nelle zone siriane occupate. «Nelle aree sotto il
controllo dell’Isil, soprattutto a nord e est – si legge nella relazione
– il venerdì è diventato il giorno delle esecuzioni e delle flagellazioni
nella pubblica piazza», a cui i miliziani impongono a tutta la comunità,
bambini compresi, di assistere.
Nel mirino delle Nazioni Unite è tornato anche lo stesso
presidente Assad, accusato come l’Isis di crimini di guerra: torture,
morti sospette nei centri di detenzione, arresti di massa, uso di gas
tossici. E mentre sul piano politico Assad rimpasta il governo
dopo le elezioni di giugno e nomina premier Wael al-Halaqi, ex primo
ministro nel 2012, sul campo la guerra civile continua. Ieri un
capovolgimento di fronte ha avuto come teatro il sud della Siria, al
confine israeliano. Gruppi di opposizione hanno preso l’unico
valico di frontiera con le Alture del Golan Siriano (occupate da Tel
Aviv nel 1967) dopo violentissimi scontri con le forze militari
governative. A strappare di mano il valico di Quneitra ad Assad
sono stati gli uomini del Fronte al-Nusra e di altre fazioni islamiste,
già impegnate in dure battaglie con il regime per il controllo delle
vicine città di Jaba, Rawadi e Tal Kroum, nella provincia meridionale di
Quneitra.
Durante i combattimenti, in cui hanno perso la vita 20 soldati
siriani e un numero imprecisato di ribelli, due colpi di mortaio hanno
colpito il territorio israeliano, ferendo un generale dell’esercito di
Tel Aviv. La caduta di Quneitra è una significativa sconfitta per
Damasco: il solo checkpoint a sud verso Israele ha grande valore
simbolico e permetterebbe alle opposizioni islamiste di affacciarsi su
Israele.
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