Un'analisi precisa, sul piano tecnico-giuridico, dei contenuti ancora "misteriosi" del Jobs Act che il governo sta preparando.
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di Piergiovanni Alleva da il manifesto del 27 agosto 2014
Le uscite estive dell’onorevole Alfano e del Presidente della Bce, Mario Draghi, hanno comportato una accelerazione improvvisa del procedimento di approvazione del Jobs Act, che si traduce in un attacco di gravità senza precedenti contro i residui diritti dei lavoratori, non solo per i contenuti, ma anche per il metodo che rappresenta una vera e propria negazione della democrazia parlamentare.
E’ facile spiegare le ragioni di questo drastico giudizio: ciò che i media chiamano seconda parte del Jobs Act è, tecnicamente, un progetto di legge-delega (il n. 1428 del 14/04/2014 ) composto in tutto di sei articoli. Il più importante è l’art. 4 il quale affida al Governo una “delega in bianco” per riscrivere, in sostanza, l’intero diritto del lavoro, senza che i parlamentari, una volta approvata la delega sotto il solito ricatto del voto di fiducia, possano più dire una parola o esprimere un voto sul merito della nuova regolamentazione. L’esautorazione del Parlamento sta diventando un vero costume autocratico dell’era Renzi.
Sarà infatti solo il Governo, con i suoi “esperti” (tutti notoriamente di parte datoriale) a scrivere i conseguenti decreti delegati che i parlamentari conosceranno solo a cose fatte.
E’ un programma quanto mai preoccupante per la nostra democrazia, ma riteniamo anche incostituzionale e proprio sulla incostituzionalità di siffatti decreti, derivanti da una delega in bianco, ci si deve soffermare prima ancora di qualche considerazione sui loro probabili contenuti. Ricordiamo che l’art.76 della Costituzione prevede che il Parlamento possa delegare il Governo ad emanare atti aventi forza di legge ordinaria (decreti legislativi), ma sulla base e con l’osservanza di “principi e criteri direttivi” fissati nella stessa legge-delega.
Normalmente si tratta di criteri piuttosto stringenti, proprio perché poi il Parlamento perde il controllo del processo legislativo, non per nulla anche la legge-delega n. 30/2001 – meglio nota come legge Biagi – conteneva criteri direttivi molto dettagliati. Il progetto di legge-delega n.1428, invece, nel suo vero cuore, mirante al completo rifacimento del diritto del lavoro, che è l’art 4 lett. b, così configura la delega al Governo: «Redazione di un testo organico di disciplina delle tipologie contrattuali dei rapporti di lavoro semplificato, secondo quanto indicato nella lett.a», (ossia previa ricognizione e valutazione delle tipologie esistente).
Si vede bene che l’espressione «testo organico di disciplina dei rapporti» comprende tutto il diritto del lavoro dalla A alla Z, ovvero dalle assunzioni al licenziamento.
Si vede, altrettanto bene, che quella espressione designa, in termini quanto mai generali, l’oggetto della delega, ma non costituisce un insieme di criteri direttivi che, appunto, indichino in quale direzione le nuove regole si debbano sviluppare. Se ad es. in quella della conservazione della reintegra nel posto di lavoro, in caso di licenziamenti ingiustificati, o, invece, in quella di eliminarla o modificarla e lo stesso dicasi per il divieto di demansionamento e così per tanti altri istituti che compongono il diritto del lavoro. Sarebbe come se il Parlamento delegasse il Governo a regolare nuovamente le imposte dirette senza specificare ad es. se l’Iva vada mantenuta, diminuita o aumentata e su quali generi e similmente per le imposte di registro e di fabbricazione.
In verità in una legge-delega l’indicazione dell’oggetto non può mai mancare, ma se sta da sola come unica espressione di volontà del legislatore delegante, comporta che l ‘unico criterio direttivo per la normazione su quell’oggetto sarebbe il libero apprezzamento del Governo. Proprio un simile assetto è stato però dichiarato incostituzionale dalla sentenza della Corte Costituzionale 8/10/2007 n.340 secondo cui «il libero apprezzamento del legislatore delegato non può mai assurgere a principio o criterio direttivo, in quanto agli antipodi di una legislazione vincolata, quale è, per definizione, la legislazione su delega».
Per conseguenza l’incostituzionalità, per contrarietà all’art. 76 Cost., della legge-delega prevista dal Jobs Act si estenderebbe anche ai successivi decreti attuativi che potrebbero sistematicamente essere contestati e annullati.
Quanto infine ai possibili contenuti di quei decreti è difficile fare previsioni proprio perché il progetto di legge-delega è in bianco, ma per chi è “del mestiere”, il riferimento contenuto nell’art. 4 lett b ad un testo unico “semplificato” costituisce un segnale inequivocabile.
I decreti legislativi dovrebbero recepire, più o meno, la proposta di un codice del lavoro notoriamente etichettato come “semplificato”, che è stato redatto in varie versioni da un noto giuslavorista e avvocato datoriale, al momento parlamentare di Scelta Civica, dopo esserlo stato del Pd.
Si tratta di un testo, che, a nostro giudizio, al di là di molte belle e vane parole contiene il peggio del peggio quanto a distruzione dei capisaldi di tutela dei lavoratori. Solo per fare alcuni es. l’abolizione, in primo luogo dell’art.18 dello Statuto, ma anche dell’art.13 con l’ammissione di patti di demansionamento e di trasferimenti di sede sotto minaccia di licenziamento; previsione di appalti di mera mano d’opera, ulteriore allargamento della precarietà e così via.
La domanda angosciosa è allora cosa stiano facendo, alla vigilia, di un simile disastro, le organizzazioni sindacali, il movimento 5 Stelle, la sinistra politica, compresa quella, se ancora esiste, del Partito democratico.
Basterebbe poco, a nostro avviso, per fermare sul nascere la frana, basterebbe dire di no, ma in modo fermo e a voce ben alta, alla legge delega in bianco e rivendicare l’effettiva centralità del Parlamento e una discussione parlamentare di assoluta trasparenza su tematiche tanto vitali.
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