di Vincenzo Maddaloni
Tutto quest'odio delle milizie jihadiste dello Stato Islamico
dell’Iraq e del Levante (meglio noto come Califfato dell'ISIS) verso
gli Stati Uniti, ha scatenato una campagna mediatica che ci rimanda
indietro di un decennio e più. E per certi versi all'America giova.
Infatti tutto suonerebbe molto strano se non si sapesse che la religione
è stata ed è un elemento fondamentale, sicuramente centrale,
dell’identità americana, plasmata per quasi quattro secoli dai movimenti
religiosi.
L’America è di gran lunga la più praticante delle nazioni industrializzate. Gli americani, o per essere più esatti
la gran parte degli americani, rispecchia la propria identità nazionale
nelle proprie origini e nella propria religione.
Anzi, secondo lo
scomparso politologo di Harvard, Samuel Huntington, l’identità
tradizionale americana è costruita intorno al ‘the Creed’ (“il Credo”),
ossia la fede tipicamente americana nella libertà, nella democrazia e
nei diritti individuali. Una matrice, secondo Huntington, pienamente
anglosassone, intorno alla quale si saldano la cristianità, la lingua
inglese, the rule of law, la responsabilità dei legislatori, i
diritti del singolo, insieme a elementi spiccatamente protestanti come
la fede nella capacità e nel dovere dell’uomo di provare a creare un
paradiso in terra. Quella che gli ambienti evangelici chiamano ‘a city
on the hill’ (“una città sulla collina”).
Huntington è rimasto un
personaggio molto ascoltato e molto discusso da quando pubblicò, alla
fine del secolo scorso, “Lo scontro di civiltà e la ricostruzione
dell’ordine mondiale”, nel quale teorizza che “gli scontri tra civiltà
rappresentano la più grave minaccia alla pace mondiale, e un ordine
internazionale basato sulle civiltà è la migliore protezione dal
pericolo di una guerra mondiale”.
Dopo la tragedia dell’11 settembre Samuel Huntington aveva goduto di
attenzioni sempre maggiori da parte dei media, americani e non. Prova ne
fu il putiferio che nell’estate del 2005 aveva destato negli Usa
l’uscita del suo ultimo libro, Who are we?, che si confronta
con la questione dell’identità nazionale americana. “Anche Sparta e Roma
sono infine cadute. È dunque giunta l’ora degli Usa?”, si chiedeva
preoccupato l’autore. Sicuramente se lo domandano anche oggi in tanti
mentre scorrono le immagini sull'Iraq.
Molto vi influisce anche
il fatto che negli Stati Uniti vivono circa 6 milioni di musulmani, la
maggior parte dei quali non ha origini arabe: il 40 per cento è
afro-americano, il 25 per cento indo-pakistano e il restante 35 per
cento è composto da arabi, afghani, turchi, africani e caucasici
(uzbeki, turkmeni, tartari, eccetera). Circa i tre quarti degli arabi
americani sono immigrati negli Stati Uniti dopo il 1965 quando
l’Immigration Act ha portato ad un’estensione del sistema a quote.
Benché
una parte consistente degli arabi americani non sia musulmana, ma
cristiana (i primi gruppi di immigrati arabi negli Usa arrivarono alla
fine dell’Ottocento e si trattava perlopiù di cristiani provenienti
dalla Siria e dal Libano) non fa differenza per l'America “bianca”, che è
tornata a vedere nemici dappertutto, come non accadeva dai tempi
dell'attacco alle due Torri.
E'
un sentimento di paura sul quale fanno leva personaggi come il senatore
repubblicano John McCain, che è il leader dell'opposizione politica al
presidente Obama, ma nello stesso tempo egli è pure uno dei suoi più
alti funzionari perché, come ricorda il politologo Thierry Meissan,
“McCain è dal 1993 il presidente dell'International Republican Institute
(IRI), il ramo repubblicano della NED/CIA. Questa cosiddetta "Ong" è
stata ufficialmente istituita dal presidente Ronald Reagan per estendere
alcune attività della CIA in collegamento con i servizi segreti
britannici, canadesi e australiani”.
Naturalmente quella che per
noi appare come un'insanabile contraddizione, risponde a un disegno
preciso che si riassume nello slogan: “Invece di essere il mondo a
plasmare l’identità americana, sarà l’identità americana a ridefinire il
mondo”. Insomma pur di tenere alto il concetto dell'Imperial America
i repubblicani e i democratici si affratellano, poiché è opinione
diffusa che sebbene la tesi di Huntington sullo scontro di civiltà si
era rivelata superficiale e politicamente pericolosa, l’America se ne
era servita per lanciare un'offensiva mediatica che giustificasse
l’invasione dell’Afghanistan e dell’Iraq. E il risultato fu giudicato
più che buono.
Su quella tesi aveva lavorato un piccolo nucleo di
neoconservatori, a iniziare da Norman Podhoretz, Richard Pearle, David
Frum, Bernard Lewis, Fuad Ajami e dal ‘prediletto’ del presidente George
W. Bush, l’ex dissidente sovietico e politico israeliano di destra
Natan Sharansky. Tutti uomini accomunati dalla stessa visione del mondo
musulmano, descritto come un universo in decadenza continua, dovuta ai
difetti culturali, psicologici e religiosi delle società islamiche.
E’
l'immagine dell'Islam che viene riproposta in queste settimane dalle
televisioni, e fa da sottofondo mentre scorrono le riprese che giungono
dall’Iraq. Di fronte a un terrorismo che, in qualsiasi momento, può
ricorrere alle armi di distruzione di massa, (chimiche, batteriologiche,
perfino nucleari) l’America - questo è il messaggio - non può
aspettare, ma deve agire per modificare il corso della storia nel mondo
arabo-islamico, eliminandone le tare e costringendolo a democratizzarsi.
Il che vuol dire piantare city on the hill dappertutto anche con
l'aiuto dei droni o dei carri armati se necessario.
Così
conclamando gli Stati Uniti si assicurano ogni libertà d’azione, un po’
come nel secolo scorso accadeva con la minaccia del ‘socialismo reale’
dell’Unione Sovietica. E nel contempo essi si presentano come i veri
“difensori della democrazia”, come il “modello di civiltà”. Sicché il
Medio Oriente in fiamme, diventa la preziosa occasione per riaffermarsi
agli occhi del mondo nel ruolo di superpotenza. Così l'Imperial America
può regnare sovrana, senza il timore di essere sopraffatta, poiché,
come ricorda il film con Alberto Sordi, “Finché c'è guerra c'è
speranza”.
La
veste di “difensori della democrazia” che gli Stati Uniti si assumono, è
una configurazione teorica che mette insieme il fondamentalismo
cristiano di destra, il sionismo americano militante e un militarismo
senza limiti, per certi versi seducente nella sua perversione. Avvolta
nel mito della bandiera, della famiglia e della Chiesa, la politica
interna americana si proietta verso l’esterno assumendo una forma
aggressiva, unilaterale, arrogante, ma seducente agli occhi di chi la
sostiene.
Infatti, in un’intervista rilasciata a Jeffrey Goldberg, giornalista dell’Atlantic,
l'ex segretario di Stato Usa Hillary Rodham Clinton ha criticato
duramente il presidente Barack Obama (ai minimi di popolarità negli
Stati Uniti). Secondo Hillary Clinton, se lo Stato Islamico è riuscito a
conquistare tanto terreno in Iraq è grazie a un vuoto di potere
creatosi sul campo. Vuoto di cui gli Usa sarebbero diretti responsabili,
a partire dalla decisione di non intervenire nella guerra civile
siriana.
Insomma, ella ha lasciato capire senza mezzi termini, che considera
l’approccio del presidente Obama alla politica estera troppo cauto
poiché è convinta che, “Obama deve prendere esempio da Netanyahu, perché
se avessimo agito con la stessa decisione in Siria i combattenti della
Jihad non ci sarebbero sfuggiti di mano, come poi è accaduto.”, ha
concluso l’ex segretario di Stato.
Stando così le cose non c’è
speranza di modificare - Obama vi ha tentato soltanto a parole - una
politica estera indissolubilmente nazionalista stravolta da una
de-secolarizzazione crescente. Infatti, il ‘the Creed’ è diventato quasi
una sorta di ossessione. Non c'è discorso, commento, nel quale non
venga menzionato. Questo spiega la facilità con cui si continuano a
tollerare metodi come la tortura e si investe di poteri illimitati il
Presidente, consentendogli di tenere in carcere indefinitamente persone
che non solo non sono state giudicate, ma sovente nemmeno accusate.
Secondo
Amnesty International, dopo l’11 settembre oltre 1200 persone di
origine mediorientale (o appartenente a comunità musulmane) erano state
arrestate. Più di un anno dopo, 327 erano ancora segretamente detenute,
dopodiché il Dipartimento di giustizia ha smesso di fornire le cifre.
Sicché la questione della sicurezza nazionale ha portato ad abusi
(Guantanamo) che hanno scavalcato il drammaticamente famoso reticolato
delle basi militari, diventando una pratica corrente, destinata a durare
chissà per quanto tempo ancora.
Intanto, le ultime notizie del New York Times
narrano di un governo americano che discute sulla possibilità di
allargare alla Siria il suo impegno contro lo Stato Islamico (IS), la
milizia di estremisti sunniti che - come detto - ha conquistato gran
parte del nord dell’Iraq e della Siria orientale. A confermare la
volontà degli Stati Uniti di aumentare l’impegno contro l’IS, Martin
Dempsey, capo dello stato maggiore congiunto (cioè l’ufficiale di rango
più elevato delle forze armate), ha dichiarato l’altro ieri, che non è
possibile sconfiggere l’IS senza colpire in Siria.
Poche ore
dopo, il segretario alla Difesa Hagel ha ammesso che al momento “tutte
le possibilità sono prese in considerazione”. Anche i membri del partito
repubblicano - e non potrebbe essere diversamente - sono favorevoli a
un intervento maggiore. A togliere le ultime perplessità ci ha pensato
il senatore John McCain, ricordando al Congresso che lo Stato islamico
«è un cancro che si è diffuso nella regione e che può arrivare fino in
Europa e negli Stati Uniti».
Riemerge
così lo scenario del Golfo di dieci anni fa. E dunque, la guerra in
Medio Oriente, la Jihad, offrono di nuovo il pretesto per riproporre il
tema della superiorità della civiltà occidentale rispetto a quella
islamica, o della religione ebraico-cristiana rispetto a quella
musulmana.
Con l’intento di riaffermare le vecchie immagini, gli antichi capi
d’accusa secondo i quali l’Islam è una religione violenta e che si è
diffusa con l’uso delle armi; una religione dissoluta dal punto di vista
morale, piena di false affermazioni e di consapevoli capovolgimenti
della Verità.
Pertanto, Maometto, con tutte le sue debolezze
morali, non poteva che essere il fondatore di una falsa religione e,
come tale, uno strumento o un inviato del demonio. Dichiarazioni come
quella del senatore John McCain, ci riportano di colpo all’epoca delle
crociate, durante le quale la ricerca di un nemico detestabile per una
guerra giusta e santa - la liberazione dei cristiani d’Oriente -
necessaria alla creazione del mito aggregante dell’Europa attorno al
papato, non indicò più i musulmani come la gens perfida Saracenorum del monaco Flodoardo del X secolo, ma a individuare nei musulmani il nemico da abbattere.
Si
negava in tal modo alla cultura musulmana ogni significato spirituale o
religioso attraverso gli scritti di Pietro il Venerabile, San Tommaso
d’Aquino, Ricoldo di Montecroce. L’Islam diventava impostura,
perversione deliberata della Verità, la religione della violenza e della
spada, con Maometto che rappresenta l’anticristo, e via di questo
passo. Così gli stereotipi negativi sul mondo musulmano hanno percorso
l’Europa, varcato gli oceani sopravvivendo nella coscienza occidentale.
Anzi sono riesplosi dopo che si è visto il video con l'esecuzione del
giornalista americano James Foley.
Questo accade anche perché le
insoddisfazioni sociali, la partecipazione comunitaria che nel secolo
scorso erano espresse dalle ideologie marxista o nazionaliste, si sono
incanalate sui percorsi religiosi assumendone i rituali e i linguaggi.
Se l'America si avvita intorno alla city on the hill, al ‘the Creed’, l'Europa cristiana tende l'orecchio a papa Francesco e ne assorbe i consigli.
Dall'altra
parte del Mediterraneo, il bisogno di sicurezze, di valori autentici in
un’epoca così confusa e incerta ha ritrovato, dopo il fallimento delle
tante primavere arabe, nell'Islam l'unico punto di riferimento. Il
Califfato ne è la conferma?
Si tenga a mente che l’Occidente ha
dedicato fondi ed energie per studiare gli usi e i costumi dei
musulmani, ma nessuno ha mai veramente concesso agli altri di studiare
gli usi e i costumi dell’Occidente. Le uniche eccezioni sono
rappresentate dalla possibilità per i musulmani agiati di andare a
studiare a Oxford, a Parigi, ad Harvard. Perché una volta tornati a
casa, sono proprio costoro che si arruolano per primi nei movimenti
fondamentalisti? Perché hanno scoperto che in Occidente qualcosa non
funziona? O le ragioni sono altre? Gli Stati Uniti la risposta l'hanno
data, l'Europa in silenzio si associa.
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