24/08/2014
Il "nuovo modello" di Draghi risale all'800
Se qualcuno ancora dubitava che la “governance” europea non è più nella disponibilità dei singoli governi, ieri sera Mario Draghi ha calato la mazza sulle residue illusioni “sovraniste-nazionali”. Parlando all'assemblea annuale dei governatori delle principali banche centrali, a Jackson Hole, nel Kansas, l'attuale presidente della Bce ha illustrato sia le competenze dei singoli governi “nazionali” – ovvero provinciali – sia quelle degli organismi sovranazionali, e il loro reciproco rapporto. Il tutto mentre illustrava limiti e possibilità della sua personale competenza: la politica monetaria.
I media mainstream hanno interpretato il suo discorso dal lato “difensivo”: io posso anche fare politiche “non convenzionali”, ma il percorso della “crescita” dipende dalle “riforme strutturali”, a partire da quella principale: la distruzione del mercato del lavoro in ogni singolo paese dell'eurozona.
Non c'è possibilità di equivoco. Gli esempi che ha fatto sono solari, anche se falsi. Gli ostacoli all'aumento dell'occupazione sono a suo avviso soprattutto nelle “rigidità” che impediscono gli "aggiustamenti". Ha citato esplicitamente l'Irlanda, dove la diminuzione dei salari (sia nominali che reali) ha fatto diminuire anche la disoccupazione strutturale. In Spagna, al contrario, fin quando i salari hanno mantenuto un livello decente la disoccupazione strutturale è salita, per diminuire quando il governo di destra Rajoy è intervenuto per rimuovere i suddetti ostacoli.
Dov'è la falsità? La Spagna non è cresciuta affatto, al massimo ha interrotto il ritmo di caduta del Pil. Al punto che la sua bilancia commerciale – la differenza tra esportazioni e importazioni – ha segnato un record negativo.
Ma per la Bce (per la Troika) non c'è altro tasto su cui battere per “uscire dalla crisi”: abbassare i salari, favorire i licenziamenti facili nella speranza – solo quella, perché le evidenze empiriche dicono il contrario – che “le risorse”, e quindi anche la forza lavoro, “possa spostarsi da un settore all'altro”. Guardate cosa sta accadendo da quasi venti anni in Italia: si chiudono imprese, si privatizza, si licenzia (collettivamente, per “stato di crisi”), si dismettono interi settori produttivi, e non “si sposta” un beneamato nulla. Cresce la disoccupazione e basta. Appena tamponata dagli ammortizzatori sociali, che hanno in memoria la data di scadenza.
Fin qui nulla di nuovo, si dirà. Esatto. L'unica novità sta nella “scoperta” – quasi imbarazzante per un ex allievo di Federico Caffè, che ha dedicato al tema numerosi testi oltre che innumerevoli lezioni – che occorre «un ampio programma di investimenti pubblici, coerente con le proposte del prossime presidente della Commissione europea».
Anche i sordociechi hanno imparato, negli ultimi anni, che la parola d'ordine dell'Unione Europea è “basta investimenti pubblici”, perché la priorità era – ed è – “tagliare la spesa pubblica per ridurre il debito”. E come si può fare ad “aumentare gli investimenti pubblici” mentre si riduce il totale della spesa? Semplice, a suo parere, basta falcidiare quella “improduttiva”. Un termine generico su cui chiunque può essere d'accordo a prima vista, salvo dividersi ferocemente su cosa vada considerato davvero “improduttivo”. L'indicazione è quella di abbassare le tasse – riducendo quindi anche le entrate degli Stati – nelle aree in cui l'effetto espansivo può essere maggiore, riducendo le spese improduttive dove si producono danni minori. Anche in questo caso, non ha lasciato troppi margini al dubbio: in una nota al testo scritto, c'è scritto nero su bianco “cuneo fiscale”, da ridurre. Insomma: Renzi esegue quel che gli viene indicato dall'alto, anche se gli effetti non si vedono.
Qualcuno ha voluto vedere in queste “novità” una linea di “ammorbidimento del rigore”. A noi sembra il contrario. Draghi non ha affatto indicato un'altra via rispetto a quanto concordato finora, per esempio, con la Bundesbank e il governo tedesco. Semplicemente ha dovuto constatare che il “rigore”, da solo, non produce alcun risultato se non accompagnato da una robusta iniezione di investimenti pubblici nei settori ad alta tecnologia. Che però sono anche quelli che distruggono più rapidamente occupazione.
Il “mercato del lavoro duale” immaginato da Draghi e dai piloti della Troika – da un lato lo sforzo perché “l'occupazione sia concentrata su settori ad alto valore aggiunto e altra produttività, che a sua volta è legato alle competenze”, dall'altro la massa informe degli “inoccupabili” perché dotati di competenze medio-basse – è indicato come obiettivo ancora una volta esplicito: i salari «devono meglio riflettere le condizioni locali del mercato del lavoro e della produttività» e devono «permettere una maggiore differenziazione tra lavoratori e settori». Pochi (relativamente) lavoratori ben pagati perché altamente competenti, e tantissimi “generici” da retribuire il minimo possibile.
È il “nuovo modello di sviluppo”, che sostituisce e cancella il “modello sociale europeo”. Naturalmente deciso dall'alto, al di fuori di qualsiasi procedura o discussione democratica, senza alcuna possibilità di interlocuzione da parte dei diretti interessati.
Sugli effetti sociali di questo “nuovo modello di sviluppo” arrivano con imbarazzante tempismo i dati – pubblicati oggi – sulla spesa sanitaria dei paesi Ocse, e in in particolare di quelli europei. L'OECD Health Statistics 2014, il database dell'Ocse, l'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico fa sapere infatti che la prima ondata di crisi economica, nel 2008-2009, ha tagliato la spesa sanitaria dei Paesi Ocse con picchi fino al -25%.
La tendenza diffusa al ribasso della spesa sanitaria ha riguardato in particolare l'Italia, i Paesi iberici, la Grecia e l'Ungheria, paesi in cui ha continuato a calare anche dopo il 2010. La situazione peggiore si è registrata ovviamente in Grecia, casualmente il paese che più di tutti ha dovuto sperimentare le “cure” suggerite dalla Troika: lì, tra il 2009 e il 2012, si è assistito addirittura a un calo del 25% della spesa sanitaria, in perfetta coincidenza con la più generale caduta della spesa pubblica nazionale.
Ma cosa implica la riduzione della spesa sanitaria? In tutti i casi: turni di lavoro più faticosi per gli operatori, strutture meno curate, mancanza di investimenti infrastrutturali e tecnologici. In particolare taglio della spesa farmaceutica, per “scelta obbligata” sia delle strutture pubbliche che delle famiglie. Niente affatto compensata dal contemporaneo aumento della quota di mercato occupata dai “farmaci equivalenti”, o “senza marchio”; tra il 2008 e il 2012, questa quota è cresciuta in media del 20% per raggiungere il 24% della spesa totale farmaceutica. L'aumento dei consumi di farmaci 'no brand' è stato particolarmente forte in Spagna (+ 100%), Francia (+ 60%), Danimarca (+ 44%) e Regno Unito (+ 28%).
Ecco, dunque. Il “nuovo modello di sviluppo” – in cantiere ormai da oltre un ventennio, visto che le sue caratteristiche strutturali erano già contenuto negli accordi di Maastricht del 1992 – magari non riesce a far sviluppare proprio nulla. Ma un “merito”, agli occhi del capitale multinazionale e dei suoi organismi “tecnici”, indubbiamente ce l'ha: impoverisce tutti, crea penuria e distrugge ogni “pretesa” – sia salariale che normativa, ovvero diritti – della forza lavoro.
Sembra l'800, ma è il futuro che ci ci stanno disegnando addosso.
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