di Michele Paris
I più recenti
massacri settari registrati in varie località dell’Iraq stanno
minacciando seriamente la strategia americana nel paese mediorientale
per contenere l’avanzata dei militanti dello Stato Islamico (ISIS) e
sottrarre il governo di Baghdad all’influenza iraniana. Il complicarsi
della situazione ha visto inoltre l’amministrazione Obama minacciare un
possibile allargamento delle operazioni militari in corso in Iraq alla
Siria, dove l’ISIS continua ad operare, sia pure tra molti dubbi
sull’atteggiamento da tenere nei confronti del regime di Bashar
al-Assad.
Due esplosioni nel fine settimana a Baghdad e nella
città settentrionale di Kirkuk hanno fatto più di 40 morti e sono
seguite al gravissimo attentato di venerdì in una moschea sunnita nella
provincia di Diyala con una settantina di vittime. Quest’ultima operazione,
la cui responsabilità non risulta ancora chiara, è stata da molti
attribuita a membri di milizie sciite, provocando ripercussioni
politiche nella capitale.
Poche ore dopo l’esplosione, cioè,
alcuni leader sunniti hanno annunciato il boicottaggio delle trattative
per la formazione del nuovo governo del primo ministro incaricato,
Haider al-Abadi. Il nuovo capo del governo sciita in pectore aveva
sostituito Nouri Kamal al-Maliki dopo le pressioni soprattutto
statunitensi e il suo compito dovrebbe essere quello di raccogliere il
consenso della minoranza sunnita, così da sottrarre il supporto popolare
alla ribellione anti-governativa che aveva favorito l’avanzata
dell’ISIS.
Le nuove violenze rischiano però di gettare ancor più
l’Iraq nel baratro dello scontro settario che era esploso in particolare
tra il 2006 e il 2007 durante l’occupazione americana.
Il
delinearsi del nuovo scenario nel paese che fu di Saddam Hussein si è
accompagnato anche ad un innalzamento dei toni negli Stati Uniti che fa
intravedere un ulteriore allargamento del conflitto in Medio Oriente.
La
campagna retorica orchestrata a Washington per favorire un possibile
aumento dell’impegno militare americano era stata inaugurata giovedì
scorso dal numero uno del Pentagono, Chuck Hagel, il quale aveva
descritto l’ISIS come una “minaccia imminente” per gli interessi del suo
paese.
Le dichiarazioni del segretario alla Difesa sono state
seguite il giorno successivo da quelle del vice consigliere per la
Sicurezza Nazionale, Ben Rhodes, per il quale atti come la decapitazione
del giornalista americano James Foley rappresenterebbero attacchi
diretti contro gli Stati Uniti, tali da giustificare ritorsioni che non
possono essere limitate dai confini dei singoli paesi.
Lo stesso
capo di Stato Maggiore USA, generale Martin Dempsey, aveva a sua volta
rivelato come il Pentagono stia valutando l’ipotesi di un conflitto più
ampio contro i militanti islamisti dell’ISIS, la cui eventuale sconfitta
dovrebbe appunto passare attraverso un’operazione militare americana
diretta contro “la parte della loro organizzazione in territorio
siriano”.
Le modalità di un simile nuovo impegno degli Stati
Uniti sono però oggetto di un acceso dibattito a Washington.
L’amministrazione Obama continua infatti ad essere molto cauta nei
confronti di un intervento diretto in Siria contro un’organizzazione
fondamentalista che appare a tutti gli effetti una creatura stessa della
propria strategia mediorientale.
Se fonti governative hanno
parlato apertamente di un possibile utilizzo di droni o addirittura
dell’invio di squadre delle Forze Speciali in Siria, altri ritengono che
ciò debba essere evitato e che si debba piuttosto puntare sulla
creazione di una sorta di coalizione di paesi mediorientali alleati
degli USA - alcuni dei quali sono stati peraltro finanziatori dell’ISIS -
o sull’ennesima operazione di rilancio delle cosiddette forze
“moderate” di dubbia esistenza all’interno dell’opposizione siriana, se
non sulla fornitura di armi ai curdi siriani.
Dal
momento che l’ISIS rappresenta la principale forza anti-regime in
Siria, incursioni americane in quest’ultimo paese potrebbero risolversi
in un favore per Assad. Ciò ha inevitabilmente prodotto un acceso
dibattito a Washington sull’opportunità di un intervento di questo
genere e sui suoi obiettivi finali, soprattutto alla luce
dell’inconsistenza dell’opposizione “secolare”, ancora più impopolare
del regime, che in questi anni media e governi occidentali hanno cercato
di promuovere senza successo.
Per molti all’interno
dell’establishment statunitense la battaglia contro l’ISIS dovrebbe
procedere in parallelo con lo sforzo in corso per la deposizione di
Assad, mentre altri ritengono che Washington debba mettere finalmente da
parte l’avversione per Damasco e coordinare in maniera più o meno
aperta con il regime alauita la lotta ai terroristi sunniti.
Questa
seconda ipotesi è sembrata essere supportata nei giorni scorsi almeno
da due media arabi, i quali hanno riportato una qualche collaborazione -
peraltro non confermata - tra gli USA e il governo siriano, con
l’intelligence americana che avrebbe fornito informazioni alle forze di
Assad per colpire con bombardamenti aerei le postazioni dell’ISIS in
Siria.
Una simile evoluzione della vicenda siriana segnerebbe
l’ennesima contorsione di una politica estera statunitense completamente
destituita da ogni logica. Infatti, dopo avere fomentato una rivolta
settaria per abbattere il regime di Damasco con la creazione di
formazioni integraliste violente come l’ISIS, l’amministrazione Obama
potrebbe ora rivolgere la propria potenza di fuoco e quella dei suoi
alleati contro quest’ultima in Siria, finendo per garantire la
sopravvivenza dell’odiato regime di Bashar al-Assad.
Fonte
Gli Stati Uniti sono diventati bravissimi a dividere, ma hanno perso smalto nell'imperare.
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