di Chiara Cruciati – Il Manifesto
L’Isis spaventa l’intero
mondo arabo e quei regimi che in passato hanno permesso la fioritura dei
gruppi islamisti sunniti nella regione ora tremano. Ne abbiamo parlato
con l’analista palestinese Mouin Rabbani, codirettore del think tank
Jadaliyya e membro dell’Institute for Palestine studies.
I paesi del Golfo sono accusati di aver finanziato e armato i
gruppi jihadisti, permettendone l’avanzata in Iraq e Siria, per
indebolire i governi sciiti di Siria e Iraq.
È difficile provare senza ombra di dubbio tale collegamento, ma certo
è che il Golfo dal 2003 ha sia sostenuto l’invasione Usa dell’Iraq,
fornendo basi militari e supporto logistico, sia ostacolato
politicamente il nuovo regime sciita di Baghdad. Saddam Huissein è
sempre stato una barriera all’influenza iraniana e con la sua caduta
Teheran ha fatto di Baghdad un suo satellite. Nell’ultimo decennio gran
parte dei miliziani dei gruppi radicali sono arrivati dal Golfo: seppure
manchino prove del reclutamento di jihadisti da parte di Riyadh o Doha,
sicuramente non sono stati fermati. Le petromonarchie non avevano
interesse ad arginare il fenomeno. Più chiaro è il loro ruolo in Siria:
ogni governo ha apertamente sostenuto alcuni gruppi di opposizione,
quelli che erano in grado di controllare meglio o quelli che ritenevano
più efficaci. Lo scopo era rendere le opposizioni ben organizzate e
sempre più radicali.
Oggi cosa è cambiato?
Il Golfo è stato il primo sponsor di questi gruppi nel tentativo di
far fruttare i propri interessi nella regione e indirizzare le energie
estremiste fuori dai propri confini. Ora il timore è che possano tornare
indietro. In Arabia Saudita succede già: una forte ondata di attacchi,
portata avanti da miliziani islamisti tornati in patria. Quello che oggi
preoccupa le petromonarchie è la trasformazione dell’Isis da gruppo
minoritario a forza che controlla significativi territori in ben due
paesi. A ciò si aggiunge la pressione Usa su Kuwait, Arabia Saudita,
Qatar, Emirati, perché interrompano il sostegno ai gruppi islamisti.
La Turchia ha permesso il passaggio di armi e uomini in Siria
per rifornire le opposizioni anti-Assad, ma oggi teme un capovolgimento
di fronte dopo che l’Isis ha preso di mira anche i kurdi.
Ankara ha sostenuto attivamente i gruppi anti-Assad, armandoli e
garantendo loro appoggio logistico, nella convinzione che in pochi mesi
avrebbero fatto cadere il regime alawita. Non ha prestato attenzione a
chi dava armi e denaro, nell’idea che il conflitto non sarebbe durato
così a lungo da far crescere questi gruppi. L’idea era di usarli come
piede di porco per scardinare il regime di Assad, assumere il ruolo di
guida del Medio Oriente, influenzare il prossimo governo siriano e
quindi isolarli. Ma Assad si è mostrato molto più resiliente del
previsto e anche la Turchia è costretta a rivedere la propria strategia.
Ankara è un elemento chiave dell’equazione: il confine turco-siriano è
uno dei principali fattori di rafforzamento degli islamisti e infatti in
questi mesi l’attività dell’intelligence turca alla frontiera è molto
aumentata.
Tra le fonti di guadagno dell’Isis c’è il contrabbando di
greggio, alcuni rapporti dicono che tra gli acquirenti c’è Damasco. È
possibile che la famiglia Assad, da decenni impegnata nella repressione
dei movimenti islamisti, oggi faccia affari con loro?
Se lo fa è solo per coprire il gap dovuto all’embargo imposto
dall’Occidente. Assad non ha sostenuto o avuto contatti con lo Stato
Islamico, ma lo ha usato per dimostrare che aveva ragione. Quando il
conflitto è scoppiato, Damasco lo ha definito una cospirazione
regionale. Quando a farsi avanti sono stati gruppi radicali, il governo
li ha mostrati come lo strumento di quella cospirazione terroristica
regionale e li ha usati per far perdere sostegno popolare a tutte le
opposizioni.
Veniamo a Gaza. L’attacco israeliano ha mostrato come Hamas
sia isolato dal resto del mondo arabo, eccezion fatta per Qatar e
Turchia. Su cosa si fonda questo asse Egitto-Arabia Saudita?
Dal 2006, quando Hamas vinse le elezioni, la questione palestinese è
divenuta elemento di divisione del mondo arabo, teatro del conflitto
regionale, un conflitto per procura tra chi appoggia una fazione e chi
ne appoggia un’altra. A questo si aggiunge il sostegno politico e
militare dell’Iran al movimento palestinese. Di nuovo a dettare alleanze
e equilibri è lo scontro Arabia Saudita-Iran. Per quanto riguarda
l’Egitto, dopo il golpe militare del 2013, il Cairo ha indicato nei
gruppi stranieri i responsabili dei propri problemi, Hamas in primis
perché membro dei Fratelli Musulmani. Questo ha creato negli anni una
strana alleanza tra i regimi conservatori arabi e Israele.
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