La milizia sciita Saraya al-Salam del religioso Moqtada al-Sadr (Foto: Ali Al-Saadi/AFP via Getty Images) |
Il massacro alla moschea Musab bin Omair, nel villaggio di Imam Wais, ha aperto la strada ad una nuova ondata di attentati e spezzato i fragilissimi equilibri politici iracheni. Ieri, un giorno dopo il brutale attacco probabilmente compiuto da una milizia sciita che ha ucciso 73 fedeli sunniti nella provincia di Diyala, i leader delle fazioni sunnite hanno sospeso la partecipazione alle consultazioni per il nuovo governo di unità nazionale. Ancora una volta, lo scontro sul terreno, il sangue, la divisione religiosa inficia i tentativi di uscita dallo stallo politico, nonostante non sia ancora stata chiarita l’effettiva responsabilità della strage: una milizia sciita, forse addestrata in Iran, o un gruppo di miliziani dell’Isil, che ha occupato Diyala da giugno.
A parlare è stato ieri il presidente del parlamento, il sunnita Salim al-Jabouri, che ha descritto l’attacco come uno dei tasselli della più vasta politica discriminatoria nei confronti della comunità sunnita. Al-Jabouri ha accusato il gruppo sciita di «terrorismo» e di «contrastare il processo politico, colpendo la società irachena e le sue strutture». Al premier uscente Nouri al-Maliki – ufficialmente ancora in carica – e al blocco parlamentare sciita ha domandato di perseguire i responsabili e trascinarli di fronte alla legge entro 48 ore. Chiesto anche un risarcimento per tutte le famiglie delle vittime. Fino a quando tali richieste non saranno soddisfatte – gli hanno fatto eco i principali partiti sunniti, riuniti nella Coalizione dell’Unione dei Poteri Nazionali – le consultazioni restano sospese.
Un’inchiesta parlamentare è stata già avviata, fa sapere Al-Jabouri. Il risultato sarà noto in due giorni, per ora è stata fatta luce sulla dinamica dell’attacco: prima un attentato suicida all’ingresso della moschea, poi un gruppo di uomini armati con il volto coperto è entrato e ha aperto il fuoco sui fedeli in preghiera.
La strage non aiuta di certo il primo ministro designato, Haider al-Abadi, alle prese con il difficile compito di dare vita ad un governo di unità entro il 10 settembre e di rimettere insieme fazioni e comunità distanti, divise da oltre dieci anni di politiche settarie e discriminatorie. L’ennesimo massacro potrebbe incrementare ulteriormente le violenze interne al paese e dare linfa vitale alla guerra civile in corso, garantendo così all’Isil di proseguire indisturbato la propria avanzata, figlia delle divisioni interne del paese.
Attacchi simili sono il frutto del vuoto lasciato dalle forze di sicurezza e della libertà di azione di cui godono milizie sciite e sunnite, con le prime rafforzate negli 8 anni appena trascorsi dallo stesse premier Maliki, che ne ha fatto lo strumento per coprire le mancanze dell’esercito nato dall’occupazione statunitense. E se venerdì il target è stata la moschea di Imam Wais, ieri ad essere colpito è stato il Ministero degli Interni di Baghdad: almeno undici morti (di cui sei civili) e 24 feriti dopo l’esplosione di un’automobile guidata da un attentatore suicida dentro il cancello del quartier generale dei servizi segreti, nel quartiere di Karrada. Attentato suicida anche a Tikrit, dove una jeep militare guidata da un miliziano è piombata su un gruppo di soldati, uccidendone nove, e a Kirkuk (città controllata dai peshmerga), dove tre esplosioni hanno provocato la morte di almeno 20 persone e il ferimento di 65.
Agli scontri tra qaedisti, esercito iracheno e curdi si aggiungono ora i bagni di sangue compiuti da milizie sunnite o sciite. Un dato preoccupante: la guerra civile è una realtà e nasce dall’interno, non arriva da fuori. Tra i principali responsabili delle divisioni irachene ci sono gli Stati Uniti e la nota strategia del divide et impera, cominciata con la cancellazione del potere del partito Baath di Saddam Hussein e la creazione di un governo di transizione modellato lungo linee chiaramente settarie. Da quel governo nacque l’esecutivo di Maliki nel 2006 e le prime milizie sciite che iniziarono ad operare come parte dell’esercito governativo, in particolare nella repressione delle proteste o richieste della comunità sunnita. Quella palese discriminazione ha condotto alla naturale crescita di gruppi estremisti sunniti come Al Qaeda, in particolare in province come Anbar e Diyala, sostenuti dal denaro saudita e dal desiderio di rivalsa sunnita.
Oggi la Casa Bianca tenta di mettere una pezza con le bombe che forse pioveranno anche in Siria. In questi giorni Washington valuta le vie legali per giustificare un eventuale attacco contro le postazioni Isil in territorio siriano, un mandato del Congresso sullo stile di quello che autorizzò l’invasione dell’Iraq nel 2003. Per ora è giunta solo l’autorizzazione a bombardare i qaedisti in Iraq per 60 giorni, fino all’inizio di ottobre.
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