Davvero interessante il dibattito avvenuto in questi giorni sulle colonne del Manifesto tra
Angelo D’Orsi e Giuliana Sgrena. Pur avvenuto su un quotidiano che
ancora si definisce “comunista”, pur non essendolo – quotidiano e
comunista – da svariati anni, riesce a mettere di fronte due opinioni
(apparentemente) opposte, nessuna delle quali riesce ad uscire dal punto
di vista borghese di vedere il mondo.
Ad Angelo D’Orsi il compito di aver
aperto le danze con un articolo in cui, in buona sostanza, giustificava
le parole di Di Battista. Nessuna riflessione fra lotta armata e
terrorismo, nessun tentativo di distinguere le ragioni politiche di chi
combatte con la forza, solo una parossistica – e molto borghese
purtroppo – infatuazione verso il terrorismo in quanto tale, di
qualsiasi posizione esso sia. Ora, risulta anche a noi evidente il senso
delle intenzioni di D’Orsi, che condividiamo pienamente: non si giudica
il terrorismo in base alle liste di proscrizione stilate dall’agenzia
di sicurezza statunitense. Il fenomeno terrorista va contestualizzato,
interpretato e risolto da un punto di vista politico, non poliziesco. Il
problema è che da anni manca un linguaggio politico capace di
descrivere pienamente questi concetti, perché per anni queste stesse
persone, che oggi giocano a fare i liberali con i terroristi, hanno
accomunato ogni forma di lotta di classe che usasse la forza proprio al
terrorismo, condannando senza cedimenti gli strumenti dei subalterni
alle ragioni della democrazia liberale.
E’ vero che in Italia, così come nel
resto d’Europa, per molto tempo si è avuto un ceto intellettuale vicino
alle ragioni della lotta di classe, a volte più “estremista degli
estremisti”, a parole vicino alle ragioni degli sfruttati. Ma quando
questi si sono espressi con la forza, quando hanno iniziato a prendere
le armi, fosse la lotta armata in Italia o quelle in giro per l’Europa,
dall’IRA all’ETA, o in Grecia e in Germania, quando insomma la scelta di
dove posizionarsi divenne radicale, nessuno di questi intellettuali
scelse le ragioni della lotta armata. Oggi quelle stesse persone ce le
ritroviamo a contestualizzare, o relativizzare, le ragioni di quei
terroristi, che però, in questo caso, poco hanno a che fare con la lotta
di classe e molto con il terrorismo come lo abbiamo conosciuto in
Italia dal 1969 al 1974. Se trent’anni fa quegli stessi intellettuali
chiamavano la lotta armata terrorismo, oggi non hanno più le parole per
definire questa forma di terrorismo, che vorrebbero elevare a lotta
armata ma non possono, perché il ricordo della loro parabola umana è
ancora forte, e un certo linguaggio liberale si è imposto e per
cambiarlo serve un coraggio politico fuori dal comune.
Non stiamo parlando di Angelo D’Orsi, in
questo caso, ma lui, purtroppo, non fa altro che adeguarsi a tale
linguaggio che nasconde una forma mentis completamente pacificata: ogni
lotta armata è terrorismo, sia che la si condanni sia che la si giustifichi
con capriole intellettuali. Allora si abbia il coraggio di definire le
cose: la lotta dei popoli colonizzati, dalla Palestina all’Iraq, dagli
Hezbollah libanesi alle FARC colombiane, dalle comunità naxalite
all’ETA, rientrano in una lotta armata delle classi subalterne per la
propria liberazione, sociale, coloniale o nazionale che sia. Mentre le
guerre di potere portate avanti con il terrore da varie organizzazioni
islamiche, che oggi si definiscono ISIS e ieri erano i salafiti o Al
Queda, o le tribù libiche appoggiate dall’occidente, così come la guerra
imposta dalle frange salafite in Siria, così come i bombardamenti
israeliani o NATO in giro per il mondo, così come l’aggressione
imperialista in Ucraina, vengano definite chiaramente con la parola
terrorismo. Quale che sia la sua matrice, politica, religiosa o di
Stato. E si abbia il coraggio di distinguere tra le ragioni della lotta
armata e quelle del terrorismo, operando una scelta politica. Che non
significa, sottolineiamo, aderire o appoggiare quel particolare metodo
di lotta, quanto legittimarlo quale possibile evoluzione dei rapporti
politici, dargli cioè dignità politica. In nessuna della nostre
riflessioni c’è un’adesione acritica alla lotta armata, tanto italiana
quanto internazionale. C’è però un tentativo politico, che è quello di
operare una riflessione che non rifiuti a prescindere, cedendo alla
lettura liberale, anche la lotta armata quale strumento di liberazione. E
un tentativo “storicizzante”, che cerca di spiegare le origini e gli
sviluppi di questa all’interno della vicenda politica, quantomeno quella
italiana.
Angelo D’Orsi, in sostanza, cercando di
difendere il ragionamento di Di Battista, lascia in secondo piano il
cuore del messaggio del deputato grillino, centrando tutto proprio
sull’aspetto di quel discorso che meno era convincente. L’importanza
delle parole apparse sul blog di Grillo stava tutta nella rivendicazione
che la lotta politica è anche una questione di forza, di rapporti di
forza, e questi possono venire imposti anche con l’uso delle armi, o in
ogni caso imponendo le proprie ragioni anche con strumenti “illiberali”.
Un’ovvietà anche per il mondo borghese-liberale, che sempre se ne è
servito quando era quest’ultimo che doveva imporsi sullo scenario
politico. Oltretutto, a nostro modo di vedere giustamente, Di Battista
operava una contestualizzazione della nascita dell’ISIS, spiegando che
queste organizzazioni terroristiche non nascono dal nulla, oppure
covando in culture retrive impregnate di radicalismo religioso, come
vorrebbero farci credere i media occidentali, ma sono il diretto
risultato delle politiche occidentali in quelle terre. Invece D’Orsi non
centra la sua difesa attorno a questo aspetto, ma si spinge a
giustificare la battaglia dell’ISIS, sebbene non condivisibile neanche
per lui, perché contro l’occupazione militare e i bombardamenti aerei
l’unica arma per portare avanti la propria guerra è quella del
terrorismo. Il problema è che l’ISIS, proprio perché figlio diretto
delle politiche occidentali, non combatte quelle politiche, ma lotta per
il controllo del territorio, cercando di scalzare gli sciiti (o
alawiti) al governo in Iraq e Siria per mere ragioni di potere.
Questo tipo di argomentazioni hanno purtroppo (per i nostri cervelli) scatenato la risposta di Giuliana Sgrena, giornalista del Manifesto, che
infatti sfrutta le debolezze del discorso di D’Orsi per riproporre la
pappa vendoliana della libertà delle donne, dei diritti umani,
dell’orrore del terrorismo in ogni sua forma, dell’esaltazione del ruolo
dei curdi (che non sono i curdi del PKK, è bene sottolinearlo vista
l’infatuazione nostrana per i curdi che combattono sotto l’egida
statunitense), ripresentando il solito discorso vecchio come il mondo,
che la Sgrena non ha il coraggio di dire apertamente ma che
evidentemente pensa: tra il terrorismo “islamofascista” e le libertà
occidentali, mi tengo queste ultime, e nonostante tutto combatto al loro
fianco contro i brutti cattivoni dell’ISIS. Non capendo nulla del
discorso di Di Battista, e cioè che tra i “valori occidentali” e l’ISIS
non c’è soluzione di continuità, quest’ultimo è generato da quei valori,
da quelle politiche, da quelle scelte, da quel modello di produzione, e
non è possibile scegliere tra ISIS e NATO perché sono la stessa cosa,
l’uno ha generato l’altro. Sia direttamente, foraggiando qualsiasi
opzione islamista negli anni ottanta pur di indebolire le forze
politiche arabe socialiste; sia indirettamente, con decenni di guerra
che hanno sensibilizzato le popolazioni arabe al rifiuto radicale verso
l’occidente, qualsiasi forma questo prenda. Non a caso, la maggiore
postazione militare degli Stati Uniti ha sede in Qatar, vero e proprio
avamposto statunitense nei territori arabi; e non a caso, il Qatar è il
finanziatore diretto dell’ISIS e di tutte le derive islamiste di questi
ultimi anni; ancora, la maggiore rete televisiva pan-araba, Al Jazeera, che
in questi anni ha contribuito in maniera decisiva alla costruzione
dell’opinione pubblica del ceto medio arabo, è di proprietà dello Stato
del Qatar.
“Quale giustizia si può basare sul terrore”, questa l’argomentazione davvero intelligente della giornalista del Manifesto, che
infatti, in un crescendo di ovvietà, arriva a proclamare che “il
terrorismo islamico esiste, purtroppo”. Grazie. Qualcuno dovrebbe
spiegare alla giornalista vendoliana che il problema non è riconoscere
l’esistenza del terrorismo islamico, ma capirne le origini politiche,
chiedersi perché il radicalismo religioso è condiviso da strati sempre
maggiori delle popolazioni arabe, così da poter produrre strumenti
d’analisi capaci, per la sinistra, di dare una risposta ai problemi che
il mondo arabo ci pone di fronte, e che riguarderanno sempre di più i
territori in cui viviamo.
Ancora una volta si percepisce l’assenza
di un punto di vista comunista sulla faccenda, un punto di vista che
sappia ragionare a prescindere dalla visione del mondo liberale ed
eurocentrica, sostanzialmente succube del discorso mainstream,
desiderosa di qualche titolo sui maggiori media ma sempre attenta a non
scalfire la loro bigotta moralità. L’assenza di questa autonomia
culturale è allora il dato significativo di questo dibattito, e la
questione terrorista ne è solo un esempio.
Qui sotto gli articoli citati:
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