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25/08/2014

Il dibattito post-comunista sul terrorismo

Davvero interessante il dibattito avvenuto in questi giorni sulle colonne del Manifesto tra Angelo D’Orsi e Giuliana Sgrena. Pur avvenuto su un quotidiano che ancora si definisce “comunista”, pur non essendolo – quotidiano e comunista – da svariati anni, riesce a mettere di fronte due opinioni (apparentemente) opposte, nessuna delle quali riesce ad uscire dal punto di vista borghese di vedere il mondo.

Ad Angelo D’Orsi il compito di aver aperto le danze con un articolo in cui, in buona sostanza, giustificava le parole di Di Battista. Nessuna riflessione fra lotta armata e terrorismo, nessun tentativo di distinguere le ragioni politiche di chi combatte con la forza, solo una parossistica – e molto borghese purtroppo – infatuazione verso il terrorismo in quanto tale, di qualsiasi posizione esso sia. Ora, risulta anche a noi evidente il senso delle intenzioni di D’Orsi, che condividiamo pienamente: non si giudica il terrorismo in base alle liste di proscrizione stilate dall’agenzia di sicurezza statunitense. Il fenomeno terrorista va contestualizzato, interpretato e risolto da un punto di vista politico, non poliziesco. Il problema è che da anni manca un linguaggio politico capace di descrivere pienamente questi concetti, perché per anni queste stesse persone, che oggi giocano a fare i liberali con i terroristi, hanno accomunato ogni forma di lotta di classe che usasse la forza proprio al terrorismo, condannando senza cedimenti gli strumenti dei subalterni alle ragioni della democrazia liberale.

E’ vero che in Italia, così come nel resto d’Europa, per molto tempo si è avuto un ceto intellettuale vicino alle ragioni della lotta di classe, a volte più “estremista degli estremisti”, a parole vicino alle ragioni degli sfruttati. Ma quando questi si sono espressi con la forza, quando hanno iniziato a prendere le armi, fosse la lotta armata in Italia o quelle in giro per l’Europa, dall’IRA all’ETA, o in Grecia e in Germania, quando insomma la scelta di dove posizionarsi divenne radicale, nessuno di questi intellettuali scelse le ragioni della lotta armata. Oggi quelle stesse persone ce le ritroviamo a contestualizzare, o relativizzare, le ragioni di quei terroristi, che però, in questo caso, poco hanno a che fare con la lotta di classe e molto con il terrorismo come lo abbiamo conosciuto in Italia dal 1969 al 1974. Se trent’anni fa quegli stessi intellettuali chiamavano la lotta armata terrorismo, oggi non hanno più le parole per definire questa forma di terrorismo, che vorrebbero elevare a lotta armata ma non possono, perché il ricordo della loro parabola umana è ancora forte, e un certo linguaggio liberale si è imposto e per cambiarlo serve un coraggio politico fuori dal comune.

Non stiamo parlando di Angelo D’Orsi, in questo caso, ma lui, purtroppo, non fa altro che adeguarsi a tale linguaggio che nasconde una forma mentis completamente pacificata: ogni lotta armata è terrorismo, sia che la si condanni sia che la si giustifichi con capriole intellettuali. Allora si abbia il coraggio di definire le cose: la lotta dei popoli colonizzati, dalla Palestina all’Iraq, dagli Hezbollah libanesi alle FARC colombiane, dalle comunità naxalite all’ETA, rientrano in una lotta armata delle classi subalterne per la propria liberazione, sociale, coloniale o nazionale che sia. Mentre le guerre di potere portate avanti con il terrore da varie organizzazioni islamiche, che oggi si definiscono ISIS e ieri erano i salafiti o Al Queda, o le tribù libiche appoggiate dall’occidente, così come la guerra imposta dalle frange salafite in Siria, così come i bombardamenti israeliani o NATO in giro per il mondo, così come l’aggressione imperialista in Ucraina, vengano definite chiaramente con la parola terrorismo. Quale che sia la sua matrice, politica, religiosa o di Stato. E si abbia il coraggio di distinguere tra le ragioni della lotta armata e quelle del terrorismo, operando una scelta politica. Che non significa, sottolineiamo, aderire o appoggiare quel particolare metodo di lotta, quanto legittimarlo quale possibile evoluzione dei rapporti politici, dargli cioè dignità politica. In nessuna della nostre riflessioni c’è un’adesione acritica alla lotta armata, tanto italiana quanto internazionale. C’è però un tentativo politico, che è quello di operare una riflessione che non rifiuti a prescindere, cedendo alla lettura liberale, anche la lotta armata quale strumento di liberazione. E un tentativo “storicizzante”, che cerca di spiegare le origini e gli sviluppi di questa all’interno della vicenda politica, quantomeno quella italiana.

Angelo D’Orsi, in sostanza, cercando di difendere il ragionamento di Di Battista, lascia in secondo piano il cuore del messaggio del deputato grillino, centrando tutto proprio sull’aspetto di quel discorso che meno era convincente. L’importanza delle parole apparse sul blog di Grillo stava tutta nella rivendicazione che la lotta politica è anche una questione di forza, di rapporti di forza, e questi possono venire imposti anche con l’uso delle armi, o in ogni caso imponendo le proprie ragioni anche con strumenti “illiberali”. Un’ovvietà anche per il mondo borghese-liberale, che sempre se ne è servito quando era quest’ultimo che doveva imporsi sullo scenario politico. Oltretutto, a nostro modo di vedere giustamente, Di Battista operava una contestualizzazione della nascita dell’ISIS, spiegando che queste organizzazioni terroristiche non nascono dal nulla, oppure covando in culture retrive impregnate di radicalismo religioso, come vorrebbero farci credere i media occidentali, ma sono il diretto risultato delle politiche occidentali in quelle terre. Invece D’Orsi non centra la sua difesa attorno a questo aspetto, ma si spinge a giustificare la battaglia dell’ISIS, sebbene non condivisibile neanche per lui, perché contro l’occupazione militare e i bombardamenti aerei l’unica arma per portare avanti la propria guerra è quella del terrorismo. Il problema è che l’ISIS, proprio perché figlio diretto delle politiche occidentali, non combatte quelle politiche, ma lotta per il controllo del territorio, cercando di scalzare gli sciiti (o alawiti) al governo in Iraq e Siria per mere ragioni di potere.

Questo tipo di argomentazioni hanno purtroppo (per i nostri cervelli) scatenato la risposta di Giuliana Sgrena, giornalista del Manifesto, che infatti sfrutta le debolezze del discorso di D’Orsi per riproporre la pappa vendoliana della libertà delle donne, dei diritti umani, dell’orrore del terrorismo in ogni sua forma, dell’esaltazione del ruolo dei curdi (che non sono i curdi del PKK, è bene sottolinearlo vista l’infatuazione nostrana per i curdi che combattono sotto l’egida statunitense), ripresentando il solito discorso vecchio come il mondo, che la Sgrena non ha il coraggio di dire apertamente ma che evidentemente pensa: tra il terrorismo “islamofascista” e le libertà occidentali, mi tengo queste ultime, e nonostante tutto combatto al loro fianco contro i brutti cattivoni dell’ISIS. Non capendo nulla del discorso di Di Battista, e cioè che tra i “valori occidentali” e l’ISIS non c’è soluzione di continuità, quest’ultimo è generato da quei valori, da quelle politiche, da quelle scelte, da quel modello di produzione, e non è possibile scegliere tra ISIS e NATO perché sono la stessa cosa, l’uno ha generato l’altro. Sia direttamente, foraggiando qualsiasi opzione islamista negli anni ottanta pur di indebolire le forze politiche arabe socialiste; sia indirettamente, con decenni di guerra che hanno sensibilizzato le popolazioni arabe al rifiuto radicale verso l’occidente, qualsiasi forma questo prenda. Non a caso, la maggiore postazione militare degli Stati Uniti ha sede in Qatar, vero e proprio avamposto statunitense nei territori arabi; e non a caso, il Qatar è il finanziatore diretto dell’ISIS e di tutte le derive islamiste di questi ultimi anni; ancora, la maggiore rete televisiva pan-araba, Al Jazeera, che in questi anni ha contribuito in maniera decisiva alla costruzione dell’opinione pubblica del ceto medio arabo, è di proprietà dello Stato del Qatar.

“Quale giustizia si può basare sul terrore”, questa l’argomentazione davvero intelligente della giornalista del Manifesto, che infatti, in un crescendo di ovvietà, arriva a proclamare che “il terrorismo islamico esiste, purtroppo”. Grazie. Qualcuno dovrebbe spiegare alla giornalista vendoliana che il problema non è riconoscere l’esistenza del terrorismo islamico, ma capirne le origini politiche, chiedersi perché il radicalismo religioso è condiviso da strati sempre maggiori delle popolazioni arabe, così da poter produrre strumenti d’analisi capaci, per la sinistra, di dare una risposta ai problemi che il mondo arabo ci pone di fronte, e che riguarderanno sempre di più i territori in cui viviamo.

Ancora una volta si percepisce l’assenza di un punto di vista comunista sulla faccenda, un punto di vista che sappia ragionare a prescindere dalla visione del mondo liberale ed eurocentrica, sostanzialmente succube del discorso mainstream, desiderosa di qualche titolo sui maggiori media ma sempre attenta a non scalfire la loro bigotta moralità. L’assenza di questa autonomia culturale è allora il dato significativo di questo dibattito, e la questione terrorista ne è solo un esempio.

Qui sotto gli articoli citati:



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